Senza
preconcetti
lontani
da ogni pregiudizio
astenendoci
dalle "morbidezze"
tipiche
non solo della stampa governativa
rispondiamo
francamente come sempre
alla
domanda che tutti si rivolgono
CHE
COSA
PUÒ
ACCADERE
IN
ITALIA
INCHIESTA DI PIETRO ZULLINO
Roma,
dicembre
"Posso
capire le polemiche", confidava ai suoi collaboratori più stretti
l'onorevole Rumor, appena rientrato a Palazzo Chigi dall'Aja, "ma non capisco
le punte di malcealto disprezzo che tutti riservano a questo governo quando
debbono nominarlo. Nelle condizioni assurde in cui è costretto a
lavorare, questo governo sta facendo fin troppo. Domandiamo collaborazione
e ci rispondono picche. Chiedo che sia verificata la solidarietà
dei partiti alleati, e mi dicono di andare avanti senza preoccuparmi troppo
della verifica, tanto non si può fare neanche quella. La nebbia
è totale. Io resto al timone per carità di patria, ma un
briciolo di comprensione in più non guasterebbe."
Perché
l'onorevole Rumor è costretto a presiedere controvoglia un "monocolore
d'attesa"? Perché nessuno spiega con chiarezza alla gente che cosa
si sta aspettando? Perché nel frattempo si discute a vuoto su un
ritorno al vecchio quadripartito di centrosinistra, che tutti sanno impossibile?
Perché - mentre lo stato traballa e l'economia è in pericolo-
si rimane nel vago e si rimandano le scelte di fondo "a primavera"? Che
cosa ci aspetta alla fine di questa lunga e incomprensibile inerzia?
La
risposta a queste ed altre domande sarebbe sulla bocca di tutti, se l'opportunismo,
il machiavellismo, il contorsionismo e la doppiezza congenita di tanta
parte della nostra classe politica non stessero lì apposta per oscurare
il linguaggio, confondere le carte ed imbrogliare il gioco. Noi pensiamo
di rendere un servizio ai nostri lettori sgombrando anzitutto il campo
dalle mistificazioni. La risposta, dunque, è che i problemi di fondo
sono soltanto due: l'apertura al PCI e l'organizzazione della battaglia
per la conquista del Quirinale nel '71. Dal modo in cui verranno risolti
questi due problemi dipende l'asseto dell'Italia nei prossimi anni e la
personale fortuna (o sfortuna) di moltissimi uomini politici. Le questioni
sono interdipendenti e costituiscono un unico rebus: di qui la generale
incertezza, il ritardo, la stasi, l'impossibilità tecnica di ricostruire
un governo autorevole. Chi vuole saper che cosa potrebbe succedere nei
prossimi mesi non deve perdere di vista la cornice generale dell'intricatissima
situazione.
PCI:
APERTURA
AL CLOROFORMIO?
Deve
o non deve il PCI partecipare prima o poi al governo? Chi conosce la natura
irrimediabilmente totalitaria e oppressiva del comunismo ha già
la risposta pronta. Ma nella DC e nel PSI la tendenza filocomunista è
una realtà resa più o meno evidente dalle circostanze. Essa
maschera robusti interessi economici particolari, e l'ambizione di personaggi
che non si sentono abbastanza valorizzati nell' attuale stato di cose.
Come
ha spiegato giorni fa l'onorevole Donat-Cattin, che è uno dei pochi
ad avere il coraggio delle proprie idee, l'operazione dovrebbe incominciare
con una collaborazione cattolico-comunista a livello comunale, provinciale
e regionale. Il fenomeno dovrebbe poi riprodursi su scala nazionale. Ma
con cautela, cercando di mettere lo schieramento anti-comunista davanti
a una serie di fatti compiuti. In una prima fase, il PCI appoggerebbe dall'esterno
un governo "bicolore" DC-PSI o qualsiasi altro governo che non chiudesse
a sinistra. Al momento giusto farebbe poi la sua diretta comparsa in una
coalizione di "unità popolare". Al progetto hanno dato un nome abbastanza
divertente: "apertura al cloroformio".
Quelli
che vi lavorano hanno di norma usato espressioni molto più caute
e ambigue: da "nuovo patto costituzionale" (De Mita) a "centrosinistra
senza preclusioni" (De Martino). Lo stesso Moro parlò a primavera
di "strategia dell'attenzione" nei confronti dei comunisti. I dirigenti
del PCI sono più espliciti. Al congresso di febbraio Longo e Berlinguer
non avevano dubbi sulla direzione di marcia. Capo della tendenza "entrista"
è tuttavia l'on. Amendola. Periodicamente, su L'Unità,
egli sostiene che il PCI è ormai da considerarsi "partito di governo"
a tutti gli effetti. In pratica non ha torto: è opinione diffusa
che esso agisca già all'interno del sistema piuttosto che all'esterno.
Quante
probabilità di riuscita ha in questo momento, l'apertura al PCI?
E in quanto tempo potrebbe essere realizzata? Fino al 19 novembre (cioè
fino ai disordini di Milano) la definitiva svolta a sinistra del Paese
sembrava imminente. La pressione dei sindacati era al colmo, il disordine
dilagava, il PCI si offriva come "partito d'ordine" chiedendo in cambio
il biglietto d'ingresso nell'area del potere. Uomini politici democristiani,
noti per il loro tradizionale moderatismo, lasciavano intendere di non
voler perdere l'autobus di un governo bicolore DC-PSI, anticamera dell'apertura.
IL
PAESE HA REAGITO
I
fatti di Milano (uccisione dell'agente Annarumma, reazione popolare in
occasione dei funerali, e soprattutto episodi di grave nervosismo in seno
alla polizia) hanno ridato un po' di linfa al governo Rumor e gravemente
demoralizzato buona parte dello schieramento aperturista. Molti politici
sembravano improvvisamente tornati in sé, e tentano di far dimenticare
i discorsi che facevano all'inizio dell'anno. C'è indubbiamente
un riflusso: non "a destra", ma verso il buon senso. Come affermano i comunisti
e sinistre democristiane si ammette che la grande svolta è rinviata
di molti mesi, forse di anni. Poiché alcuni importanti contratti
di lavoro sono stati rinnovati, la pressione sindacale si va esaurendo.
Gli operai sono stanchi. I "vertici per l'ordine pubblico" tenuti a Roma
dopo il 19 novembre hanno deciso un energico giro di vite (numerosi arresti
di elementi sovversivi, molti processi, qualche condanna severa). Il fatto
più notevole è però un altro: oggi, anche nel
PCI serpeggia il dubbio. Si pensa che la pera non è ancora del tutto
matura.
Gli
episodio che possono far pensare ad un ripiegamento strategico dei comunisti
sono due. Il primo è la radiazione dal partito del gruppetto dissenziente
che si è raccolto intorno alla rivista Il Manifesto. Già
da molti mesi Giorgio Amendola sosteneva la necessità di cacciar
via i "frazionisti".
Ma
Longo, Berlinguer e Ingrao non erano dello stesso avviso. Un'ala dissenziente
poteva far comodo, almeno finché era in corso l'avvicinamento del
PCI al governo. Dava infatti al partito una patente (o una vernice) di
democraticità e serviva a persuadere i perplessi della DC e del
PSI che anche in seno al comunismo è ormai ammesso il libero confronto
delle opinioni.
Dopo
i fatti di Milano lo stato maggiore comunista capì che l' "apertura
al cloroformio" era ormai un sogno. L'opposizione interna de Il Manifesto
non
serviva più allo scopo e si sviluppava, anzi, pericolosamente. La
Rossanda, Pintor e Natoli chiedevano un vero e proprio rivolgimento nella
politica del PCI: nessuna partecipazione al governo, svecchiamento dei
quadri dirigenti, completa autonomia da Mosca. Allora, anche Longo, Berlinguer
e Ingrao si schierarono con Amendola. Il 25 novembre il Comitato Centrale
decretò la condanna degli "eretici".
Negli
ambienti filocomunisti degli altri partiti si diffusero smarrimento e sconforto.
Personaggi come De Martino e De Mita, Galloni, Lombardi e Donat-Cattin
hanno dovuto ammettere, con costernazione in qualche caso sincera, che
il PCI è ancora immaturo per la democrazia. Un secondo episodio
si è poi aggregato al quadro sintomatico della ritirata comunista.
Tutti credevano di sapere, e dicevano, che se l'apertura avesse messo quest'autunno
solide basi, i comunisti avrebbero graziosamente dato un aiuto ai cattolici
(e al Vaticano) contribuendo a far cadere, alla Camera, la legge sul divorzio.
Non c'era bisogno di grandi manovre e ripensamenti ideologici: sarebbe
bastata l'assenza di pochi deputati al momento della votazione. Il 27 novembre
invece i deputati comunisti furono presenti in massa e favorevoli al divorzio.
Nessuno dà niente per niente. Perduta la battaglia d'autunno, il
PCI prepara, con certosina pazienza, quella di primavera. Ma quali forme
assumerà? E nel frattempo, che cosa succederà?
PERCHÉ
FANFANI E' "RISORTO"?
A
questo punto bisogna togliere di mezzo l'altra mistificazione. Dalla lettura
dei giornali di partito si potrebbe dedurre che tutti cercano di risolvere
la crisi del Paese in termini di politica pura e nell'interesse generale.
Questo, ovviamente, è vero solo in minima parte: sono le ambizioni
personali che giuocano il ruolo più importante. Se l'apertura al
PCI resta il problema numero uno, il problema numero due è la conquista
del quirinale dopo la scadenza del mandato di Saragat, nel '71. Le due
questioni finiscono con l'essere strettamente collegate se non interdipendenti.
Mettiamoci
nei panni di uno di coloro che oggi puntano alla presidenza della Repubblica,
e proviamo a seguirlo nel ragionamento che certi esperti gli fanno fare.
"Il Quirinale", egli penserebbe, "si conquista solo con il massiccio apporto
dei voti comunisti. L'esperienza fatta da Saragat nel 1964 l'ha dimostrato.
Che cosa dovrò fare io per ottenere l'appoggio dei comunisti? Che
cosa dovrò offrire in cambio?
"Di
certo so che la loro ambizione è quella di arrivare finalmente al
governo. Potrei dunque mettermi a lavorare subito per la definitiva apertura
a sinistra. Acquistarmi benemerenze tali da essere poi ringraziato con
l'elezione al Quirinale. Essere, insomma, il fondatore della "Repubblica
Conciliare". Così facendo però corro anche un grosso rischio.
Chi mi assicura che i comunisti, raggiunto il loro obiettivo prima del
'71, non mi getteranno a mare? Probabilmente la strategia migliore è
un'altra: temporeggiare per un'altro anno. Ritardare ogni intesa di potere
col PCI, della quale l'autore non sia io. Mi sarò conquistato, in
tal modo, la fiducia dei conservatori e dei moderati, perché saprò
renderli certi che in nessun caso consegnerei l'Italia ai comunisti. Allora,
e soltanto allora, mi converrà riaprire un discorso col PCI sulla
maniera in cui, dal Quirinale, potrei favorire un graduale ingresso dei
rappresentanti comunisti nell'area del potere. Logorati dalla lunga anticamera,
è probabile che i gerarchi delle Botteghe Oscure mi daranno retta:
prima il quirinale a me, e poi l'apertura. Alle condizioni, naturalmente,
che io da quel posto detterò".
I
candidati al Quirinale, in questo momento, sono due soli: Amintore Fanfani
e Aldo Moro. Sarebbe ingeneroso attribuire all'uno o all'altro il ragionamento
di cui sopra, almeno nella versione cinica che, per brevità, ne
abbiamo dovuto dare. Ma è fuori di dubbio che l'uno e l'altro, se
vogliono scalare la più alta magistratura dello Stato, debbono pensare
fin d'ora a procurarsi l'appoggio comunista. Moro ha cinquantatré
anni, Fanfani sessantuno. Moro potrebbe aspettare fino al '78: è
umano che Fanfani possa avere più fretta. La loro rivalità
si mantiene entro i limiti della più assoluta correttezza, ma è
opinione diffusa che si abbastanza aspra da condizionare l'avvenire prossimo
del Paese. Nessun panorama politico sarà mai chiaro se non si parte
da questa premessa.
Chi
vincerà? La dirompente iniziativa di Fanfani costringe oggi Moro
ad una posizione di attesa. Fanfani è di nuovo l'arbitro della Democrazia
Cristiana. Segretario del partito da un mese, è il suo luogotenente
e discepolo Arnaldo Forlani. Il parlamentare aretino si è chiaramente
spostato più a destra, e ciò spiega l'appoggio che tutte
le correnti moderate hanno concesso a Forlani. Il giovane segretario, dal
canto suo, ha portato fieri colpi al "cartello delle sinistre", che si
sta disgregando. E ha affidato tutti i posti chiave del partito a uomini
che in questo momento condividono il programma suo e di Fanfani. Moro tace.
A sinistra è rimasto un solo avversario dichiarato: Donat-Cattin.
Per il quirinale, nel '71, il partito potrebbe essere sufficientemente
compatto e sostenere Fanfani (sempre che si raggiunga un accordo-armistizio
con Moro). L'idea che l'apertura al PCI avvenga sotto l'egida di un leader
autoritario ed esperto come Fanfani è tranquillizzante per molti
uomini della DC.
UN
GOVERNO A DUE O A QUATTRO?
Se
ascoltiamo con attenzione i discorsi dei maggiorenti politici di qualsiasi
partito, ci accorgiamo che non esiste un curioso abbinamento tra la loro
idea delle fortune politiche dell'Italia e la loro personale fortuna. Quando,
ad esempio, gli uomini del PSU (Partito Socialista Unitario di orientamento
social-democratico, N.d.R.) affermano: "O governo quadripartito di centro-sinistra,
o nuove elezioni", è facile constatare che qualsiasi altra ipotesi
nuocerebbe al PSU e di conseguenza agli uomini del PSU. I socialdemocratici,
con un milione e mezzo di elettori, hanno un peso politico finché
affiancano e controbilanciano la Democrazia Cristiana: il giorno che si
trovassero schiacciati tra i comunisti e i cattolici perderebbero gran
parte dell'importanza che hanno oggi. Sono nemici acerrimi dei comunisti
per questioni ideologiche e di principio. E poiché, in fondo, non
si fidano dei democristiani, sospettano che qualsiasi formula di governo
diversa dal quadripartito potrebbe essere l'anticamera dell'intesa col
PCI.
La
regola vale per tutti. Il PRI, con cinquecentomila elettori o poco più,
è sempre stato l'ago della bilancia del centrosinistra ed ha sempre
controllato almeno un grosso ministero e alcuni sottosegretariati. Con
La Malfa ha occupato il Bilancio, con Reale le Finanze. Cosa dicono oggi
i repubblicani? Di essere disposti a trattare per un nuovo governo solo
se
sarà fatta una rigorosa politica monetaria e di salvataggio dell'economia.
Questa è la loro pregiudiziale. Il ragionamento con la vocazione
di partito di "tecnici" ma anche con il loro interesse. E' un modo molto
educato di far sapere che essi non intendono rinunciare al controllo di
uno dei grossi dicasteri economici. Ma se rimanessero schiacciati in mezzo
a un acoalizione cattolico-comunista dovrebbero rinunziarvi. Sono pertanto
contro l'apertura al PCI. Davanti a una ipotesi di "tricolore" DC-PSI-PRI
rimangono perplessi, perché sarebbe l'anticamera dell'apertura al
PCI. D'altra parte si rendono conto che il vecchio quadripartito non si
potrebbe riformare perché il PSI non lo vuole. Il monocolore democristiano
naturalmente non li soddisfa. Allora si ritirano nel loro campo e dicono
"Prima che delle formule, preoccupiamoci dell'economia".
Il
PSI vuole andare al governo da solo con la Democrazia Cristiana. Il "bicolore"
avrebbe vita abbastanza lunga con l'appoggio del PCI e preparerebbe la
grande svolta a sinistra. Prima dell'elezione di Forlani a segretario del
partito, sembrava che la Democrazia Cristiana fosse sul punto di aderire
ad un simile progetto. Oggi la prospettiva è più lontana,
e si parla piuttosto di conservare il monocolore Rumor fino alle elezioni
amministrative o di fare un altro monocolore più robusto, nel mese
di gennaio. Per questa seconda ipotesi si fa il nome di Amintore Fanfani.
Il
parlamentare aretino è uno specialista delle situazione difficili.
dopo il 1960, fece uscire la classe politica da una grave crisi, sperimentando
per la prima volta la collaborazione del PSI con i partiti che poi avrebbero
dato vita alla coalizione di centro-sinistra. la grande risorsa di Fanfani
è il suo attivismo. Ma questa volta, la posta in palio è
talmente importante, che non è improbabile che amici e avversari
saprebbero costringersi a tenergli testa. Qui torna in ballo il discorso
del Quirinale. Perché è difficile immaginare che Fanfani,
accettando un incarico rischioso com'è attualmente la presidenza
del Consiglio, lo farebbe perché ha rinunciato in cuor suo alla
presidenza della Repubblica. Il sospetto che egli potrebbe utilizzare il
periodo di governo pe rpreparae a lunga scadenza l'accordo con i comunisti
sarebbe perdonabile. Di conseguenza, chi è contrario all'apertura
al PCI sarà contrario anche al monocolore Fanfani.
Eppure,
al di là di qualsiasi sospetto, non si vede chi, oltre Fanfani,
potrebbe essere in grado di restituire al governo fiducia ed energia. L'uomo
è abile, coraggioso, ostinato, capace di programmi a lunga scadenza
e di intuizioni che il tempo si incarica oggi di dimostrare esatte. ma
di troppi machiavelli, di troppe contorsioni mentali si nutre la nostra
politica. Per cui la conclusione non può essere forse che una sola.
Hanno
ragione i pessimisti quando affermano che il contrasto è giunto
ad un punto tale, che ben difficilmente potrà risolversi per vie
normali. La pressione "entrista" del PCI è un fatto nuovo che sconvolge
il panorama politico, minaccia di ridimensionare partiti, uomini, ambizioni,
prelude ad un cambiamento di regime e a uno scivolone totalitario e, forse,
"cecoslovacco". Tutti sentono che la battaglia sarà durissima e
che a vincerla saranno in pochi. Allora, cercano di rimandarla o di entrarvi
nel momento più favorevole ( che per tradizione tutta italiana,
è quello in cui si comincia a capire chi sta vincendo).
Queste
e non altre sono le ragioni della paralisi, dell'attesa, dell'impossibilità
tecnica di rifare un governo serio sui due piedi. E' una situazione che
in linguaggio scacchistico si chiamerebbe di "stallo". Ma se dovesse prolungarsi
con evidente danno pe ril Paese, il Presidente della Repubblica potrebbe
sciogliere le Camere e rimettere ogni decisione al popolo, indicendo nuove
elezioni generali.
NUOVE
ELEZIONI: A CHI GIOVANO?
L'articolo
88 della Costituzione dice: "Il Presidente della Repubblica può,
sentiti i loro Presidenti, sciogliere le camere o anche una sola di esse.
Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del
suo mandato". Saragat potrebbe esercitare questa facoltà entro
il mese di giugno del 1971. Sarebbe la prima volta che un fatto del genere
accade in Italia ad quando è in vigore la Costituzione repubblicana.
Solamente
un partito oggi (nell'ambito del centro-sinistra) si dichiara favorevole
ad elezioni anticipate: il socialdemocratico PSU. Che è, per coincidenza,
anche il partito d'origine di Giuseppe Saragat. Fino a che punto è
sincera la posizione del PSU? Sono in molti a pensare che i socialdemocratici
agitino lo scioglimento delle Camere come uno spauracchio per le
altre forze politiche, come un grosso atout per non vedersi tagliati
fuori dalle prossime combinazioni di governo. In realtà neanche
Ferri, Tanassi e Preti possono dirsi certi che il loro partito uscirebbe
rafforzato ad nuove elezioni. Tutti gli altri partiti queste elezioni non
le vogliono. Se Saragat consultasse oggi il Presidente del Senato, Fanfani,
e il Presidente della Camera, Pertini, si vedrebbe gettare sul tavolo il
"no" quasi compatto dell'intero Parlamento.
Proviamo
a decifrare le ragioni di un "no" tanto deciso. I parlamentari sono contro
nuove elezioni innanzitutto per un motivo pedestre, che nulla ha a che
vedere con i destini della Repubblica. Deputati e senatori devono ancora
pagare i debiti d'ogni specie contratti per la campagna del 198.
Dopo due anni scarsi di legislatura non se la sentono di ricominciare a
patire. Così affermano che nuove elezioni non servirebbero a sciogliere
i nodi politici del momento.
Ammettiamo
però che il Capo dello Stato giudicasse indispensabile il ricorso
alle elezioni anticipate, passando sopra la testa dei deputati e dei senatori
riluttanti. Che cosa potrebbe accadere? Viene subito in mente che l'elettorato,
rafforzando alcuni partiti ed indebolendone altri, farebbe conoscere in
definitiva la sua opinione sul problema di fondo, che è quello dell'ingresso
del PCI nell'area di governo. Se questa fosse una ipotesi realistica, ogni
buon democratico dovrebbe augurarsi che le elezioni venissero indette per
domani mattina. Ma è una ipotesi che pecca, quanto meno, di semplicismo.
I socialdemocratici del PSU hanno probabilmente ragione quando affermano
che il loro partito ruberebbe molti voti a al PSI di De Martino. E che
lo stesso PSI, subendo anche una emorragia a sinistra, finirebbe praticamente
di contare qualcosa sulla scena politica. Anche il MSI e il PLI possono
aver ragione quando pensano che il "riflusso a destra" dell'opinione pubblica
si risolverebbe a loro vantaggio. Che tuttavia il parziale rafforzamento
di singole formazioni anticomuniste riesca ad impedire l'apertura al PCI
è una cosa tutta da dimostrare.
Tutto
dipenderebbe, infatti, dal modo in cui verrebbe impostata la campagna elettorale.
L'elettorato italiano è lento di riflessi. Per ottenere da un simile
elettorato una risposta significativa sl dilemma "PCI o non PCI" sarebbe
indispensabile proporre l'interrogativo in modo chiaro, quasi trasformando
le elezioni in un referendum. In secondo luogo, bisognerebbe drammatizzare
l'appello al popolo. Facendo leva, in egual misura, sulla ragione e sul
sentimento. Ripetere in sostanza - con gli opportuni aggiornamenti - la
campagna del 18 aprile 1948.
Una
simile impostazione non potrebbe essere decisa dal PSI e tanto meno
dal PLI e dal MSI. Le formazioni minori non hanno né i mezzi né
l'autorità per far salire la temperatura elettorale al giusto livello.
Come nel 1948, soltanto i colossi potrebbero riuscirvi: la DC da una parte
e il PCI dall'altra. Ma i comunisti, oggi, non hanno alcun interesse a
scontrarsi alla morte con un partito e con un sistema ai quali cercano
rispettivamente di allearsi e di integrarsi. I democristiani, a loro volta,
non dispongono più della compattezza necessaria per dare battaglia
aperta al PCI. E non potrebbero ricostruire in pochi mesi un fascio di
forze che nel corso di ventuno anni si è in gran parte liquefatto.
La Chiesa ha cambiato faccia, e non scomunica più nessuno. Le associazioni
cattoliche e le parrocchie sono in crisi. La radio e la televisione sono
infiltrate da socialisti e comunisti. I candidati al Quirinale Vedrebbero
in pericolo la loro elezione e farebbero la fronda. Le sinistre del partito
agirebbero da quinta colonna a servizio dell'avversario.
Nonostante
questo è praticamente certo che un'alleanza DC - PSU - PRI potrebbe
conquistare più che la maggioranza assoluta di voti. I democristiani
nel 1968 hanno avuto il 39,1 per cento dei suffragi. Ai saragattiani si
accredita un 7 - 8 per cento. I repubblicani hanno il 2 per cento e sono
in ascesa. Questo 47 - 48 per cento complessivo potrebbe facilmente salire
al 50 e oltre anche senza una campagna incandescente come quella del 1948:
basterebbe un certo sforzo finanziario, un minimo di chiarezza e un'intelligente
sfruttamento del clima di paura creato dalle scomposte agitazioni di piazza.
La ricostruzione di un centro - sinistra non conservatore ma al tempo stesso
"pulito" è dunque teoricamente possibile. O si tratta solo di fantasia?
Indubbiamente, un ritorno alla situazione politica generale degli anni
'50 è inimmaginabile. Non lo sopporterebbero i comunisti, i socialisti,
i sindacati, il giovane clero. La vittoria elettorale potrebbe rivelarsi
apparente, effimera, e portare con se il germe di una guerra civile? I
fatti dimostrano che in Italia ormai non si scherza più.
Sarebbe
allora questione di volontà politica e di programmi. Un eventuale
nuovo "centrosinistra pulito" dovrebbe fare i conti con la realtà,
e prepararsi a fronteggiare in concreto la pressione delle sinistre, che
sarebbe più aggressiva che mai. La legalità repubblicana
andrebbe difesa con durezza, ma soprattutto dando la dimostrazione che
tutte le riforme possono essere fatte senza pagare un presso al comunismo.
I nostri modelli dovrebbero fermamente rimanere la Gran Bretagna, la Germania,
la Scandinavia, la Francia. Se tutto questo è semplicemente una
fantasia, se tutto questo è im possibile, hanno automaticamente
ragione quelli che non vogliono nuove elezioni. Quelli che dicono che esse
si svolgerebbero all'insegna di un tacito e concordato attendismo della
DC e del PCI. I due colossi cercherebbero di rafforzarsi a danno dei partiti
minori: questo comporterebbe l'automatico loro avvicinamento sul piano
delle intese di governo. L'avvicinamento è già in atto da
oggi e l'apertura al PCI sembra decisa, con tutti i rischi che comporta.
Per cui hanno ragione gli stessi deputati, quando dicono che tornare alle
elezioni sarebbe fatica superflua.
COLPO
DI STATO: E' POSSIBILE?
Da
qualunque parte lo si affronti, il pasticcio sembra insolubile. L'Italia
è senza dubbio a una svolta della sua storia. Il tono perentorio
dei sindacati e del PCI la debolezza dei pubblici poteri, l'attendismo
della Democrazia Cristiana, lo scarso peso degli altri partiti, la stanchezza
della gente e il ricorso quasi abituale della violenza di piazza fanno
temere che la situazione possa sfuggire al controllo di chiunque. In questo
clima, milioni di cittadini sono automaticamente portati ad invocare un
ritorno all'ordine. Altri pensano che l'apertura al comunismo debba essere
impedita comunque, anche facendo appello all'iniziativa illegale e arbitraria
degli ormai classici "colonnelli".
Il
7 dicembre, alcuni giornali inglesi (Guardian e Observer)
pubblicano sensazionali rivelazioni su un presunto complotto "di destra"
che sarebbe in corso di organizzazione in Italia con l'appoggio -nientemeno!-
dei colonnelli greci. La notizia riceve ampie smentite da Atene e da Roma:
tuttavia, come è logico, l'estrema sinistra se ne impadronisce.
Le informazioni che noi abbiamo( chi le ha fornite queste informazioni?
che rapporti ci sono tra questo giornale e l'area dell'eversione nera?,ndr)
ci portano ad escludere che in seno alle gerarchie militari stia prendendo
corpo la tentazione di un intervento nella sfera politica.
Se
tuttavia la classe politica non riuscisse a risolvere il problema dei rapporti
del PCI con lo Stato, se la confusione diventasse drammatica, e se -nell'ipotesi
di nuove elezioni- la sinistra non accettasse il risultato delle urne,
le Forze Armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immediatamente
la legalità repubblicana. Questo non sarebbe un colpo di Stato ma
un atto di volontà politica a tutela della libertà e della
democrazia. Così, dopo averli a lungo onorati del nostro disinteresse
più completo, potremmo trovarci di colpo a dovere della gratitudine
ai militari. Esiste un dramma segreto delle Forze Armate, che si sentono
estranee e avulse dalla vita del Paese. Una classe politica che da venticinque
anni confonde i militari col militarismo ha fatto tutto ciò
che poteva per chiudere le Forze Armate in un ghetto. Vita difficile, dunque,
per gli uomini in divisa. Così, specie nei gradi bassi e medi, gli
ufficiali vivono con stipendi di fame e svolgono un lavoro che riserva
più amarezze che soddisfazioni. Nonostante questo, nelle Forze Armate
regna una disciplina esemplare e ammirevole.
Forse
è esatto dire che l'unico tentativo di sovversione, quindi, viene
da sinistra. Tuttavia il ristabilimento manu militari della legalità
repubblicana, possibile in una mezza giornata, potrebbe non essere sufficiente.
La situazione generale è terribilmente intricata. Chi stabilisce
il limite delle ambizioni personali e avverte l'opinione pubblica delle
pericolosità di certe manovre? Come si può garantire un minimo
di stabilità al potere esecutivo? La pazienza di Moro? L'attivismo
di Fanfani? Ma è saggio affidare tutto ciò che abbiamo all'abilità
e alla fortuna di pochi individui?
Sono
interrogativi che dovrebbero pesare come piombo sulla coscienza di chi
ci governa. E può darsi che di fatto pesino. E che aprano la strada
ad un esame di coscienza un tantino più profondo. Questa Repubblica,
così com'è, funziona ancora? La confusione che stiamo vivendo
non sarà dovuta al fatto che le sue istituzioni sono ormai insufficienti
e superate? Perché i costituenti crearono l'articolo 138, che prevede
la possibilità di riformare la carta fondamentale della Repubblica?
Chi ci impedisce di utilizzare l'articolo 138 per correggere i difetti
ormai evidenti delle nostre istituzioni? Perché non possiamo imparare
qualcosa dalle grandi democrazie dell'Occidente? Perché non ci poniamo
seriamente il problema della Repubblica presidenziale, l'unicaca pace di
dare forza e stabilità al potere esecutivo? Vi sono giorni in cui
la storia impone riflessioni di questo tipo. Forse questi giorni sono venuti.
Questi giorni, forse, noi li stiamo già vivendo.
Pietro Zullino