Questa guerra è ingiusta perché è una guerra

Salvatore Marracino, un altro mistero italiano?



Salvatore Marracino, un altro mistero italiano?
Il 15 marzo 2005, poco dopo che s'era diffusa la notizia della morte del 21esimo soldato italiano caduto in Iraq, un'ANSA riferisce che, appresa la notizia del "tragico incidente che e' costato la vita al sergente Salvatore Marracino", il sottosegretario alla Difesa, Francesco Bosi (CCD), "ha manifestato i sensi del piu' profondo cordoglio al capo di Stato maggiore dell'Esercito e ai familiari del militare". "Questa vittima - ha dichiarato Bosi - va ad aggiungersi agli altri caduti nell'adempimento del loro dovere, nell'impegno delle nostre Forze armate nella lotta al terrorismo, in difesa dei principi di convivenza civile e di rispetto dei diritti fondamentali della persona umana"... "Ad essi -  ha continuato il sottosegretario alla Difesa - deve andare la piu' alta riconoscenza del popolo italiano e delle istituzioni al di la' di ogni disputa, poiche' il loro sacrificio e' volto alla costruzione di un mondo piu' libero e piu' giusto". Il senatore Bosi, come il suo collega di partito, il vicepresidente del consiglio Follini (e come altri esponenti politici della maggioranza e responsabili militari), non ha indugi e, come per un riflesso condizionato, spende immediatamente parole liriche ed altisonanti per trasformare anche quello che definisce un "tragico incidente" nell'ennesima occasione per spacciare la guerra - inequivocamente ripudiata dal dettato costituzionale violato - per impresa quasi messianica, per strumento supremo di giustizia e libertà. Va cosi' di nuovo in scena il macabro ed ipocrita rituale, sempre uguale a se' stesso, che - a prescindere da qualsiasi interesse per la natura e la realtà dei fatti - si nutre del lutto di quelli che restano vivi e del sangue di coloro che sono morti. I quali, ormai senza voce, sono chiamati, sempre e comunque, a promuovere - persino oltre la propria vita - gli obbiettivi politici e persino gli interessi personali dei sacerdoti di una retorica vuota, inquietante e senza verità. In un esercizio di ipocrisia priva di ogni residuo di decenza si parla di "convivenza civile" e di "rispetto dei diritti fondamentali della persona umana", ma nulla si dice, da parte di esponenti del governo, sulle azioni - che pure sarebbero doverose - da essi eventualmente intraprese e sollecitate per far luce sulle circostanze esatte nelle quali il sergente del 185esimo Reggimento acquisizione obiettivi della Brigata Folgore ha perso la vita in Iraq. Probabilmente perché tali iniziative non sono state intraprese e perche' non sembra esservi la minima voglia di intraprenderle. Il che è grave, sempre, e lo è ancor di più considerando che la morte di Marracino a Nassirya non e' un caso isolato e che segue di soli 11 giorni quella di Nicola Calipari, ucciso il 4 marzo a Baghdad dal fuoco "amico" - altra indecente, ipocrita definizione - dai soldati USA che dovrebbero essere nostri alleati. Anche in quel caso la versione del governo e' quella del "tragico incidente". Ed anche in quel caso con la parola "incidente" si tenta di archiviare una morte violenta prima ancora di aver tentato di accertarne le cause. Se davvero il sergente caduto è meritevole della piu' alta riconoscenza del popolo italiano, come il governo afferma, tale riconoscenza potrebbe e dovrebbe - molto piu' concretamente che attraverso le rituali dichiarazioni di cordoglio e di elogio postumo - manifestarsi attraverso una volontà concreta e fattiva di far chiarezza sulla vicenda, anche per tentare di capire come poterne evitare la replica in futuro. E' il minimo che ci si dovrebbe aspettare verso un cittadino alla cui morte, a parole, si attribuisce tanta importanza e alla memoria del quale si sollecita la pubblica gratitudine. E invece nulla di tutto ciò accade. Parlando alla trasmissione di RAI3 "Ballarò", il comandante del nostro contingente a Nassirya, Generale Borrini, che pure fornisce la versione più ricca di dettagli sinora disponibile, fa tutto tranne che chiarire. Asseconda la versione già circolata del soldato che si sarebbe sparato sul volto tentando di disinceppare l'arma e riferisce che il militare ucciso era impegnato in una esercitazione di tiro che, sottolinea, era programmata. Tanto ben programmata che, afferma Borrini, mentre avviene "l'incidente" il Direttore dei Tiri stava guardando non verso il Marracino, ma verso altri due soldati impegnati nei tiri. Esercitazione di tiro in piedi, con l'arma automatica di reparto. Improvvisamente il Direttore nota il militare accasciato, pensa ad un malore, poi si accorge "dell'accaduto". Un'inchiesta tecnica interna è stata avviata dal "Prevost Marshal" (un ufficiale dei Carabinieri) e da un non specificato "Legal Advisor", dice Borrini, che informa anche sulla ferita (dallo zigomo alla parte superiore del cranio) sofferta dal paracadutista e sulla vana corsa sino a Kuwait City per tentare di salvare la vita al ferito. Il generale, dopo essere stato smentito nelle sue affermazioni iperottimistiche sulle attività svolte dal nostro contingente (addestramento dell'esercito iracheno e controllo del territorio) da autorevoli testimoni in studio secondo i quali nessuno esce dai fortini italiani senza sostanziosa scorta armata e blindata, perde la pazienza e una buona occasione per tacere, affermando che i nostri soldati hanno tutto ciò che è loro necessario e che a lui manca solo "la bacchetta magica" per prevenire "incidenti" come la morte di Marracino. Il 17 marzo, finalmente il Procuratore Militare di Roma, Antonino Intelisano apre un'inchiesta. La ricostruzione di Borrini non convince. Innanzitutto il caduto era uno specialista di un corpo d'elite, addestrato a svolgere lunghe azioni di "commando" oltre le linee nemiche. Oltre ad otto anni di servizio, Marracino aveva dalla sua l'esperienza di ben quattro missioni operative all'estero, due in Kossovo e due in Afghanistan. Fatta salva la possibilità sempre esistente di un errore umano, alla luce del curriculum del caduto, è doveroso dubitare che un sottufficiale tanto esperto sia riuscito a spararsi in faccia nel tentativo di disinceppare la sua arma durante un'esercitazione. Secondo quanto dichiarato da Borrini, inoltre, non ci sarebbero, in effetti, testimoni di una tale infausta manovra: il comandante del contingente afferma infatti che, al momento dell'incidente, il Direttore dei tiri "guardava altrove" e che in un primo momento si è pensato ad un malore. Segno evidente che nessuno avrebbe visto materialmente il colpo partire dall'arma del Marracino. E allora, da dove spunta la versione dell'arma inceppata e della manovra, pressocché assurda per uno specialista come il paracadutista caduto, di puntarsi l'arma al viso per tentare di risolvere il problema? Chiunque abbia svolto il servizio militare sa, o dovrebbe sapere, che durante un'esercitazione di tiro debitamente programmata, come dice il Generale, è dovere del militare impegnato segnalare immediatamente al Direttore dei tiri un qualsiasi malfunzionamento dell'arma, mantenendo questa puntata verso i bersagli ed evitando qualsiasi spostamento laterale della bocca della stessa, al fine non solo di salvaguardare se' stesso, ma anche gli altri presenti alle operazioni. A quel punto il Direttore dei tiri ha il dovere di sospendere il fuoco e di fare in modo che l'arma inceppata sia trasferita, in sicurezza, verso un luogo ove essa possa essere scaricata e resa inoffensiva in piena sicurezza. In altre parole, un veterano esperto come Marracino (in servizio volontario dal 1997) non solo avrebbe violato le più elelmentari regole da osservare in qualsiasi esercitazione di tiro, ma si sarebbe attardato, non visto da alcuno, in operazioni pericolosissime per se' e per gli altri, sino a riuscire a spararsi al viso con un'ingombrante arma di reparto. Arma di reparto che, apprendiamo da un'altra agenzia, è una "Minimi", la nuova mitragliatrice leggera di calibro 5.56 in dotazione all'Esercito Italiano, un'arma famosa, tra l'altro, per garantire una percentuale d'inceppamenti estremamente bassa. Normalmente l'arma di reparto, anche nelle esercitazioni, prevede l'intervento di due uomini, un servente (che porta e fornisce le munizioni) ed un capo pezzo, che spara. Il fatto che il comandante del contingente italiano riferisca che il Direttore dei tiri stava guardando proprio altri due soldati impegnati nell'esercitazione sembrerebbe suggerire che, effettivamente, anche in questo caso, per ogni arma fossero impegnati due uomini. Che, oltre tutto, spesso sono affiancati da un terzo uomo, che sovrintende alla piazzola di tiro da essi occupata. E' pur vero che, specialmente per le truppe paracadutiste e per i reparti d'elite, delle quali Marracino faceva parte, è previsto l'impiego della "Minimi" anche come arma individuale ma, in assenza di ulteriori dettagli, resta il dubbio sulla possibile presenza di almeno un altro uomo accanto al caduto al momento dell'incidente. Dubbio che si aggiunge al fatto che la Minimi, arma piuttosto lunga (circa un metro) e pesante (circa 7 chili), richiede un'azione decisa e non casuale per essere puntata contro il volto del tiratore. La ferita riportata (traiettoria del proiettile descritta come dallo zigomo alla parte superiore del cranio) poi, in considerazione della potenza molto elevata dell'arma (che spara raffiche, e non colpi singoli), e della brevissima distanza dalla quale il colpo (singolo, secondo Borrini) fatale sarebbe stato esploso, dovrebbe avere causato effetti devastanti ed appare del tutto improbabile che abbia consentito una sopravvivenza, seppure solo cardiocircolatoria, sufficiente a trasportare il ferito in vita, come da versione ufficiale, prima all'ospedale di Camp Mittica e poi, addirittura, a quello di Kuwait City, dove il caduto sarebbe spirato durante un intervento chirurgico. Intervento chirurgico che potrebbe aver alterato lo stato delle ferite, incidendo non poco sulle possibilità di verifica dei dati obbiettivi relativi alla dinamica dello sparo riscontrabili in sede di autopsia, da realizzarsi sotto la direzione del Prof. Fineschi all'arrivo della salma a Foggia. In ogni caso, stando alle prime notizie rilasciate dal Prof. Fineschi, emergerebbe un'altra discrepanza con quanto dichiarato dal Generale Borrini. Secondo un'ANSA del 17 marzo la morte e' stata provocata da un colpo d'arma da fuoco alla fronte e non allo zigomo. A confortare i dubbi su cosa sia avvenuto realmente a Nassirya, e su come il 28enne Sergente della Folgore sia morto, non solo queste osservazioni, ma anche l'opinione, non certo professionalmente trascurabile, dei Carabinieri dell'UNAC., i quali, in un comunicato del 16 marzo, definiscono "poco chiara" la versione ufficiale sulla morte di Marracino, avanzano dubbi e richiedono l'apertura di un'indagine da parte della Magistratura Ordinaria, sottolineando l'esigenza di un intervento "super partes" ed "esterno" alle Forze Armate e alla Magistratura Militare per fare chiarezza sull'accaduto ed "evitare qualsiasi distorsione della verità di cui è colma la Storia del nostro Paese". Che un simile comunicato sia opera di membri dell'Arma non deve stupire: a distanza di ben cinque anni dai fatti è ancora in corso il processo che riguarda la morte del maresciallo CC Pierluigi Albanese, 27 anni, colpito da un proiettile e deceduto il 14 aprile 2000 proprio durante una esercitazione. Si tratta di una vicenda e di un processo emblematico sotto molti punti di vista e che fornisce ampio fondamento ai timori di distorsione della verità esposti dai Carabinieri dell'UNAC. Vale la pena di riepilogarla, anche perchè, stranamente, malgrado la gravità dell'accaduto e la rilevanza dei depistaggi e delle false testimonianze e dei tentativi di insabbiamento ormai accertati e commessi, tutti, da pubblici ufficiali, al caso non è stato mai dato rilievo dalla stampa nazionale e persino le Agenzie sono avare di lanci sulla vicenda. Il 14 aprile del 2000, presso la sede del 13 Btg. Carabinieri di Gorizia, comandato dal Ten. Col. Pasquale Capriati, è in corso una esercitazione che impegna uomini in forza alla MSU (Multinational Specialized Unit, una specie di "polizia internazionale" operante in missioni all'estero il cui "padre", il Generale dei Carabinieri Leso, era al comando, tra l'altro, dei reparti di Carabinieri coinvolti nei gravi incidenti del G8 di Genova 2001). L'esercitazione è, ufficialmente, "in bianco", termine che indica l'impiego di pallottole da salve, dunque innocue. Durante l'esercitazione muore il Maresciallo Pierluigi Albanese, 27 anni, da San Donà di Piave, ferito al collo. Ad effettuare i rilievi sul posto interviene il R.I.S. dei CC; sia la Magistratura Ordinaria, sia quella Militare aprono un'inchiesta. Secondo la versione ufficiale il militare è deceduto a seguito di una ferita al collo causata da una scheggia originata da un rafforzatore di rinculo accidentalmente esploso. A seguire i procedimenti, per conto del padre della vittima (un Maresciallo dell'Arma in pensione), è l'avvocato Riccardo Mazzon. Per la Magistratura Ordinaria si occupa del caso la Dott.ssa Nunziata Puglia. L'autopsia è affidata al Dott. Antonio Colonna che sostiene di aver rinvenuto un frammento metallico di 2 mm. La Perizia Balistica, affidata ad esperti della PS pone la vittima a 20 metri dal punto della presunta esplosione. Esaminando le notizie apparse nei giorni successivi all'accaduto, emerge la consueta profusione di "cordoglio" da parte delle massime autorità, con i funerali solenni che vedono la presenza dell'allora Comandante dell'Arma, Gen. Siracusa e la mancanza di una versione ufficiale dei fatti "stabilizzata". Le armi impiegate nell'esercitazione risultano sotto sequestro, mentre il frammento metallico che risultava essere 2 mm "raggiunge" le dimensioni di 5 mm. Ad un anno e tre mesi dall'accaduto, il 15 luglio 2001, la Procura Militare archivia il fascicolo "impossibilità di ricostruire i fatti". Nell'ambito del procedimento istruito dalla Procura ordinaria, invece, si parla non più di di schegge ma di un proiettile da guerra 5,56, di un'arma "vecchia", ma appena revisionata e ciò nonostante "esplosa" e di un misterioso bossolo. Il 16 luglio, all'indomani dell'archiviazione della Procura militare, i 20 metri della prima ricostruzione passano a 30 ed emerge che la vittima indossava un Casco con protezione "completa". Il 19 luglio 2001, emerge che ad uccidere il maresciallo Albanese è stato certamente un proiettile da guerra e non una scheggia. L'avvocato della famiglia della vittima denuncia inascoltato il depistaggio, mentre tutta la stampa è tutta concentrata sul G8 di Genova. Nessuno viene indagato per intralcio alle indagini o false dichiarazioni. Il 13 aprile 2002, a due anni esatti dall'accaduto, finalmente viene reso noto che vi sono tre indagati, uno dei quali è il militare che ha esploso il colpo che ha ucciso il maresciallo Albanese. Tra giugno e novembre 2002 si registra la promessa di Gianfranco Fini al padre della vittima di fare "piena luce" e, finalmente, il rinvio a giudizio di Roberto Caloro, 38 anni, lo sparatore, Remo Casavecchia, 38 anni armiere, e Giorgio Tabacchi, 28 anni ufficiale inferiore, mentre diventa acclarato che il bossolo del proiettile assassino fu scientemente occultato. Per arrivare alla terza udienza del processo passano quasi tre anni. Arriviamo così all'8 marzo 2005. Davanti al giudice monocratico del Tribunale di Gorizia, Giorgio Nicoli, sono stati sentiti altri quattro testimoni, tutti carabinieri del Tredicesimo presenti all'esercitazione fatale che, teoricamente, doveva essere in "bianco", un conflitto a fuoco simulato con l'uso di armi dotate di munizioni a salve. Nell'arma (un fucile automatico Beretta Sc 70/90 ) del principale imputato, il maresciallo Roberto Caloro, vi era invece almeno un proiettile da guerra. Che ha ucciso il suo collega. I carabinieri, in risposta a molte delle domande formulate, hanno detto di non ricordare le circostanze dell'evento.
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