Perchè finiamo sempre
sott'acqua
Le
alluvioni, che sul territorio italiano imperversano con sempre maggiore frequenza,
non sono casuali, ma derivano dalle scellerate politiche del territorio, che
non mettono al centro i bisogni del popolo (di Giorgio Nebbia). Reds - Dicembre
2010
E' novembre ancora adesso che stiamo soffrendo per il dolore
di tante famiglie nel Veneto e in Toscana e in Calabria e in Sicilia. "Calamità naturali", le chiamano, ma la
natura non è né buona né cattiva: fa il suo mestiere
che è quello di far circolare aria e acqua sugli oceani e sui continenti,
così come il "mestiere" dell'acqua piovana consiste nello
scendere dalle montagne e dalle colline al mare lungo le strade di minore
resistenza, i torrenti, i fiumi i fossi, con maggiore o minore velocità
a seconda di quello che incontra sul terreno, cose ben note e prevedibili. Purtroppo le valli sono spesso le zone più desiderabili
per le costruzioni; i fondovalle sono stati occupati da strade e città
a spese della vegetazione; sono state interrotte le strade naturali predisposte
dalle acque per la loro discesa. Purtroppo queste opere sono "competenza" si fa
per dire, di innumerevoli enti, dai piccoli comuni, alle metropoli, alle Regioni,
ai Ministeri, ciascuno dei quali opera per suo conto. Soprattutto stimolerebbe una ripresa della moralità
perché la moralità verso la natura è premessa per la
moralità privata e pubblica. Sembra che l'uomo abbia perso la capacità di prevedere
e prevenire: per questo finiamo così spesso sott'acqua.
Brutto mese novembre: era novembre quando il Po, nel 1951, ha allagato il
Polesine, la prima grande tragedia nazionale, che riuscì a mobilitare
emozione e solidarietà in tutto il Paese, appena uscito dalla guerra,
e impegni perché non succedesse più; era il 4 novembre 1966,
in pieno boom economico, quando le acque dell'Arno e le fogne di Firenze hanno
invaso quella straordinaria città, e le acque dell'Adige hanno invaso
Trento e il mare ha allagato Venezia; anche allora emozione e solidarietà
e anche allora impegni perché non succedesse più. Era novembre
quando ci sono state le grandi alluvioni del Piemonte nel 1994; ormai sempre
meno emozione e qualche soldo agli alluvionati in modo che ricostruissero
proprio dove le loro case e fabbriche erano state spazzate via.
Se il mese di novembre è brutto perché i meteorologi dicono
che le piogge intense si formano dallo scontro di masse di aria fredda e calda
sulla nostra penisola, stesa là nel Mediterraneo fra Europa e Africa,
anche tutti gli altri mesi dell'anno sono cattivi per frane e allagamenti:
giugno Versilia (1996); luglio Ofanto e Manfredonia (1972), Valtellina(1987);
settembre Soverato in Calabria (2000); ottobre Salerno (1954) e Genova (1970),
e così via.
I guasti vengono dal fatto che noi umani ci comportiamo sul territorio come
se queste leggi non esistessero, costruendo strade e case, ponti e fabbriche
e campi dove ci torna comodo, secondo piani che dovrebbero essere "regolatori",
cioè adatti a regolare le scelte sulla base delle leggi della natura,
ma che invece non tengono conto di tali leggi, anzi spesso operano contro
di loro.
L'unico sistema per evitare allagamenti e frane consiste nel predisporre sistemi
per rallentare il moto delle acque con la vegetazione e i boschi e nel lasciare
libero lo spazio di scorrimento delle acque nel loro cammino verso il mare.
E' uscito di recente un libro scritto dall'economista Giovanna Ricoveri, intitolato
"I beni comuni" (Jacabook, 2010) in cui viene ricostruito il processo
con cui si è formata la proprietà del suolo; in tempi medievali
la terra era "del principe", cioè dello Stato, che stabiliva
dove dovevano o non dovevano essere costruite le città e i villaggi,
come dovevano essere protetti o rinnovati i boschi, con leggi che sono arrivate
spesso abbastanza intatte fino allo stato unitario, addirittura fino alla
metà del Novecento.
Queste leggi stabilivano che non si doveva costruire sulle rive dei fiumi
e dei laghi perché si doveva lasciare spazio alle acque di muoversi
nei periodi di piena che si manifestano in maniera abbastanza regolare e prevedibile,
ma soprattutto perché erano di proprietà del principe cioè,
dello Stato (in termini più moderni erano "demanio statale").
Rive, boschi, fiumi possono essere usati come beni comuni dal "popolo"
ma sotto il controllo dello Stato che ne è l'unico padrone nel nome
del popolo stesso.
Le opere di salvaguardia del territorio, di pulizia e controllo dei fiumi,
sono venute meno; lo stato, ormai ridotto con la lettera minuscola, per far
soldi ha venduto e ceduto i beni collettivi cioè la base per la salvaguardia
dei cittadini da alluvioni e frane, ha lasciato costruire secondo gli interessi
dei proprietari privati dei suoli.
Sorprende che in nessuno dei molti programmi dei vari "partiti"
che si formano e disfano nell'attuale momento politico, figuri mai la parola
"riassetto del territorio", che significa, in primo luogo, difesa
del suolo contro l'erosione, almeno dove è ancora possibile farlo,
regolazione e sistemazione e pulizia dei corsi di acqua, dai torrenti di montagna
ai fianchi delle colline, ai grandi e piccoli fiumi, ai fossi di pianura,
con l'unico imperativo di assicurare che l'acqua scorra senza violenza e senza
ostacoli verso il mare, suo unico destino finale.
Ciò significa opere di rimboschimento, edificazione secondo criteri
che lascino libere le acque di muoversi, dalle valli fino agli scarichi dei
tombini urbani i cui intasamenti riescono a paralizzare per ore molte città
(e ne sappiamo qualcosa anche da noi in Puglia).
Eppure una politica del territorio e di "prevenzione civile", ben
diversa dalla protezione civile che appalta opere per riparare guasti già
avvenuti ma che si sarebbero potuti prevenire, creerebbe posti di lavoro,
contribuirebbe alla soluzione di problemi dell'energia e del traffico, offrirebbe
occasioni produttive secondo i progetti "ecologici" e sostenibili.