In margine
all'ultima enciclica
Riportiamo di seguito un comunicato diffuso
dalla Comunità di base "Viottoli" in seguito alla pubblicazione
dell'Enciclica di Benedetto XVI° intitolata "Dio è amore"
. Di don Franco Barbero. Febbraio 2006.
Reds - Febbraio 2006.
Superati
lo scandalo e lo scoglio del copyright vaticano, ho letto con interesse l’enciclica
di Benedetto XVI che, dopo i primi scontati commenti, sembra già caduta
nell’oblio.
In realtà, più che di un discorso teologico, si tratta, a mio
avviso, di una lettura filosofica della storia, inserita in una cornice teologica,
non priva di calde risonanze emotive. Chi ha la mia età, ricorda bene
alcuni dibattiti culturali di largo respiro su eros ed agape di alcuni decenni
fa. Il papa li ha ripresi e, in taluni passi, ricollocati efficacemente e “provocatoriamente”
nel contesto polemico attuale.
Ma nel complesso, dietro un linguaggio alato, emerge un’enciclica evanescente
“che lascia scontenti tutti, dunque un’enciclica di cui alla fine
tutti parleranno bene... E’ un testo speculativo, che tenta di portare
il ragionamento a monte per intendersi sui principi. Questo potrebbe diventare
il suo limite fra una settimana, dieci giorni, se non riuscisse a sfuggire alla
trappola del dimenticatoio... Insisto... nessuno ha di che rallegrarsi dopo
quest’enciclica” (A. Melloni, Adista, 11 febbraio 2006). Chi tra
i credenti negherà che Dio è amore? Chi metterà in dubbio
l’attualità e la rilevanza del tema?
Per un cristiano la riflessione sull’amore di Dio, a partire dalla testimonianza
molteplice della Bibbia, è piena di implicanze molto concrete per la
sua vita personale e per l’esperienza collettiva. Ma, come lo stesso Benedetto
XVI ricorda all’inizio del suo scritto, “il termine amore è
oggi diventato una delle parole più usate ed abusate” (n. 2). Il
problema sta proprio nella incapacità di vedere che l’amore di
Dio si fa storia laica, che la chiesa cattolica ufficiale non è l’arca
universale di salvezza, che Dio ci invita a liberarci dalla presunzione ecclesiocentrica,
che Gesù non ha distribuito patentini o certificati salvifici, ma si
è fatto compagno di viaggio e seminatore di fiducia in Dio e nelle persone.
Così ci troviamo davanti ad un Dio amore che, però, viene “amministrato”
da una chiesa che si presenta ancora come maestra di umanità e detentrice
della “rubinetteria” della salvezza. Questo io leggo, prima di tutto,
nell’entroterra di questa enciclica, sullo sfondo.
Irrilevanze
Chi è abituato all’indagine biblica, al lavoro esegetico e teologico,
non ha trovato davvero nulla di nuovo. Si può ben capire come Jean-Jacques
Peyronel, un’autorevole voce protestante, abbia potuto scrivere che “a
noi protestanti questa enciclica non dice nulla di nuovo” (Riforma, 10
febbraio 2006). Lo posso sottoscrivere come prete cattolico.
Ma non meno critico è il giudizio di quei teologi della liberazione che
da decenni lamentano l’astrazione di certi linguaggi ufficiali. Questa
teologia “che non si sporca le mani”, che vola astralmente lontana
dal quotidiano, ha qualche parentela con il Dio biblico che si coinvolge dalla
parte dei più deboli?
Molto semplicemente, ci si domanda, questo linguaggio non è un modo elegante
per confinare Dio tra le grandi e nobili idee per poi gestire più disinvoltamente
gli affari a modo nostro? E quando ai numeri 2 e 11 l’enciclica parla
dell’amore umano nei termini enfatici, tipici della retorica matrimoniale
cattolica, opera di teologi maschi e celibi, ci si domanda quando la gerarchia
imparerà qualcosa da questa società, quando riuscirà ad
“espandere”, ad arricchire il concetto di famiglia. Quando capirà
che le nuove famiglie non sono contro la famiglia, ma una sua ulteriore ramificazione
e valorizzazione?
Silenzi
Si tratta, a mio avviso, di una enciclica i cui silenzi denotano una persistente
mancanza di coraggio. “Ratzinger avrebbe dovuto dare uno sguardo alla
storia concreta della chiesa romana, alle sue normative in materia di etica
sessuale, intrisa di sessuofobia, che tante persone ha fatto soffrire; e anche
a come questa chiesa abbia oppresso le donne teorizzando un maschilismo mai
smentito. Ma, di tutto questo discorso, non vi è nemmeno l’ombra
nell’enciclica.... E termina citando la Madonna del Magnificat, ricordata
come “donna che ama”, non però come quella che loda l’Altissimo
“che depone i potenti dai loro troni” (Adista, 4 febbraio 2006).
Questa è davvero la chiesa del silenzio verso i potenti.
Torna più che mai attuale il grande avvertimento del vescovo Ilario di
Poitiers (367): “Ora combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico
che lusinga..., non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci
confisca i beni dandoci così la vita, ma ci arricchisce dandoci così
la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso
la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci percuote ai
fianchi, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada ma
ci uccide l’anima con il denaro, l’onore, il potere”. Ovviamente,
quando aldilà di generiche deplorazioni, non si denunciano le torture
di Guantanamo, le “esportazioni belliche di democrazia” e tante
altre nefandezze che hanno precisi responsabili, ogni discorso sull’amore
diventa una canzoncina che trova d’accordo sia Erode che Ponzio Pilato...
L’annuncio cristiano comporta concretamente la rottura dei silenzi complici
con i poteri che opprimono e ci spinge ad uscire dai linguaggi diplomatici e
dalla fede “pura e irreale. La missione della chiesa è annunciare
l’utopia cristiana sulla dignità della vita, formare le coscienze
e rispettare le decisioni che le persone prendono. Non può funzionare
come ha funzionato, e cioè come un superego autoritario. Il divieto di
utilizzare gli anticoncezionali in un mondo in cui si diffonde l’Aids
è semplicemente irresponsabile e nell’Africa è persino criminale.
La chiesa dice di conoscere il mondo, di conoscere l’umanità, ma
è soltanto retorica, non rispetta infatti i diritti delle donne, degli
omosessuali e dei divorziati” (Leonardo Boff, Un papa difficile da amare,
Datanews 2005). Concretamente in questo testo teorico “non si parla di
guerra, di terrorismo, di civiltà, di scienza e di tutto ciò che
agita il mondo cattolico”(Melloni, La Stampa, 26 gennaio 2006).
Questo genere di silenzi ha una storia lunga dentro le chiese cristiane. Spesso
si dicono e si scrivono valanghe di parole fumogene, astratte, altisonanti che
sembrano studiate appositamente per non dire nulla, per evadere da quella parte
di realtà con la quale non si vuole fare i conti. Sovente quanto più
si moltiplicano i documenti, i pronunciamenti e le encicliche, tanto più
emergono il vuoto o la semplice incapacità di elaborare un pensiero nuovo.
Talvolta, poi, corriamo un altro rischio, non meno grave. I nostri linguaggi
religiosi, in gara con le chiacchiere di molti politici, danno per scontato
che le parole ci dispensino dalle azioni, dai fatti, dalle scelte concrete,
come se la vita fosse soprattutto un gioco di belle parole, un evento linguistico.
Ambiguità
Non posso dar torto a chi pensa che, tutto sommato, l’enciclica di Ratzinger,
più che un apporto concreto alla soluzione dei problemi urgenti dell’uomo
moderno, sembri un elogio immeritato, una celebrazione acritica, un contributo
promozionale per una istituzione che guarda soprattutto al passato. Ma come
si può parlare di laicità, di amore, di giustizia quando, continuando
sulla scia del predecessore, l’attuale pontefice e la gerarchia cattolica
lottano con ogni mezzo, in Italia come in Spagna e un po’ dovunque, per
salvaguardare privilegi, estendere la propria influenza nelle vicende politiche?
Se Dio è amore, come è possibile che la gerarchia continui a emarginare
le voci che non si allineano agli interessi dell’istituzione cattolica?
Non è forse lecito e doveroso domandarsi, con Eugenio Scalfari (Repubblica,
5 febbraio), se permane il velo di ipocrisia tra il dire e il fare che pure
viene denunciato in molti passi della “Deus caritas est”? E’
ben lontana dalla realtà che abbiamo sotto gli occhi l’affermazione
secondo la quale “tutta l’attività della chiesa è
espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo... e cerca
la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana”
(n. 19).
Non la pensano proprio così i separati e divorziati cattolici, le coppie
di fatto, i gay e le lesbiche credenti, i preti che si sono visti defenestrare
“per colpa di un amore”, i teologi che sono stati estromessi dall’insegnamento
o dalla redazione di alcune riviste, le università cattoliche che, per
“scarsa ortodossia”, si sono viste tagliare i fondi, le donne che
esigono pari opportunità di ministero nella comunità cristiana,
quei seminaristi che si sentono inquisiti rispetto alla loro identità
sessuale ed affettiva. Cresce a dismisura il numero delle donne e degli uomini
che si sentono stranieri in questa chiesa. L’elenco ci porterebbe ad esplorare
un intero pianeta. L’umorismo ha una funzione “ristoratrice”
anche dentro le istituzioni ecclesiastiche, ma questa leggerezza, questa banalizzazione,
questa negazione della realtà è un umorismo amaro, sfacciato,
intriso di menzogne.
E ci vuole un bel fegato a ribadire che la chiesa non fa politica e a riproporre
una centralità della dottrina sociale della chiesa che “argomenta
a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò
che è conforme alla natura di ogni essere mano” (n. 28). Sembra
che la gerarchia cattolica parli di ragione, diritto naturale e natura di ogni
essere umano come se queste “discusse” realtà fossero un
suo possesso, come se della loro retta interpretazione essa fosse la suprema
custode e garante. Ma c’è un punto che ho letto con intima sofferenza
e che respingo con fermezza: “La Chiesa è la famiglia di Dio nel
mondo” (n. 25). Questo per me non è soltanto un errore teologico;
è soprattutto un orrore, un delirio.
Il mondo è la famiglia di Dio... con tutto il creato. La chiesa cattolica
deve lasciare la maiuscola, non ha nessuna primogenitura perché Dio non
si è fatto cristiano, tanto meno cattolico. Semmai noi cristiani abbiamo
una particolare visione di Dio, ma Dio non è riducibile al nostro “quadro”
di interpretazione. Dio non si lascia fotografare in nessuna dottrina. Qui su
questa arroganza strutturale, quasi congenita, neppure più avvertita,
sta, a mio avviso, il vero nodo che le gerarchie cattoliche debbono affrontare.
Nel libro del profeta Isaia si leggono alcuni versetti straordinariamente efficaci
ed espliciti per ammonire Israele nei momenti in cui può credersi l’esclusivo
o il privilegiato erede dell’attenzione amorosa di Dio. L’Egitto
e l’Assiria, classici nemici di Israele, vengono collocati sullo stesso
piano: “In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso
l’Assiria, l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in
Assiria... Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria,
una benedizione in mezzo alla terra... Benedetto sia l’Egiziano mio popolo,
l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (19,23-25
passim). Che lezione anche per noi cristiani!
Non invoco alcuna dissoluzione dell’identità cristiana, che anzi
mi è molto cara, ma essa, a mio avviso, deve smantellare tutte le categorie
e gli atteggiamenti di superiorità, di esclusività. Semmai, per
me, la chiesa è particolarmente presente nella carovana umana degli ultimi.
La famiglia di Dio è ovunque e nessuno di noi può tracciare perimetri,
confini, un dentro e un fuori. Il rischio di ridurre Dio al direttore generale
della nostra azienda è sempre dietro l’angolo.
E finisco con un’altra osservazione dissonante rispetto all’enciclica.
“A Maria affidiamo la Chiesa, la sua missione a servizio dell’amore”
(n. 42). E no, caro papa Benedetto, questo è troppo... E’ il consueto
fervorino mariano finale di tutti o quasi i documenti pontifici, ma il contenuto
mi sembra grave. Con tutto il bene che voglio a Miriam di Nazareth, moglie di
Giuseppe, madre di Gesù e di una numerosa famiglia (Marco 6 e Matteo
13), io credo che la chiesa debba affidarsi a Dio e alla nostra comune responsabilità.
Non facciamo confusione e non scambiamo la fede per qualche discutibile devozione.
Mi sembra di poter dire che, se il cristianesimo cerca vie di un rinnovamento
profondo, le encicliche si collocano sul versante del passato, lo ripetono,
apportano qualche ritocco, restaurano e verniciano. Non vanno oltre.
Anche questa constatazione, a mio avviso, costituisce un rimando a leggere con
discernimento e rispetto critico questa enciclica e soprattutto uno stimolo
a “cercare altrove”, perché è proprio “altrove”
che i sentieri di Dio, delle donne e degli uomini si incontrano e l’eros
e l’agape possono vivere insieme in una tensione feconda e felice.
Associazione Viottoli - Comunità cristiana di base di Pinerolo
Pinerolo, 17 febbraio 2006