E'
tempo di restare
Più
volte in questi anni mi sono sentito rivolgere questa domanda: “Se non
sei d’accordo con le regole e i dogmi della chiesa perché ti
ostini a rimanere dentro?”. Talvolta questo interlocutore aggiunge:
“O si sta dentro oppure ci si mette fuori. Nessuno ti costringe a rimanere
nella chiesa. Vattene… senza polemiche o discussioni”.
Di Don Franco Barbero .Reds
- Settembre 2006
Sembra una riflessione logica, coerente, persuasiva. Anche se talvolta questa
riflessione fiorisce su labbra laiche, è quanto di più clericale
si possa pensare e, di fatto, è il ritornello che mi ripetono vescovi
e cardinali da quasi quarant’anni. Sia la domanda che la riflessione sottostante
mi sollecitano ad una risposta.
Solitamente questa riflessione manifesta la scarsa capacità di distinguere
tra chiesa e gerarchia.
Il che davvero non è una sfumatura irrilevante. Ma, per quanto lo si
ribadisca, il linguaggio giornalistico corrente ignora questa rilevantissima
differenza. Ci può essere una chiesa senza gerarchia; anzi, la chiesa
di Gesù dovrebbe escludere ogni gerarchia. In ogni caso la gerarchia,
che non ha alcun fondamento nella Scrittura, è il frutto di una degenerazione
storica. Al più, visto che non possiamo mettere tra parentesi secoli
di potere gerarchico, la gerarchia è quella casta sacerdotale maschilista
e patriarcale che pretende di rappresentare ufficialmente la chiesa cattolica.
Ma è tempo di ricordare quanto scrive il teologo cattolico Xabier Pikaza:
“chi si dice suddito sottomesso agli ordini di una gerarchia, non ha capito
il Vangelo” .
E ancora: “La dittatura sacrale si fonda sulla superiorità gerarchica
di alcuni, che si impadroniscono di un potere o sapere e in tal modo manipolano
gli altri (affermando talvolta che lo fanno per il loro bene)”, “come
se la grazia di Dio dovesse passare attraverso alcuni filtri del potere sacro”
.
Quindi, quando si parla di chiesa, occorrerà verificare se si parla delle
donne e degli uomini che tentano di seguire il sentiero di Gesù o di
un apparato burocratico. Chi esce dall’obbedienza alla gerarchia non esce
dalla chiesa. Spesso, anzi, proprio per essere chiesa può essere necessario
disobbedire al potere sacrale, consapevoli che un'autorità senza fondamento
e autorevolezza evangelica è pura burocrazia.
In questa prospettiva nessuno ha il potere di definire a priori chi è
dentro e chi è fuori della chiesa, come ho documentato ampiamente in
altri scritti .
Ma resto in questa chiesa anche perché, con uno sterminato numero di
credenti, di teologi, di preti penso sia importante cambiare le regole del gioco,
lavorare a questo cambiamento nella direzione del superamento della struttura
gerarchica, piramidale, sacrale, maschilista. Non per sognare una chiesa senza
istituzione, ma perché l’istituzione abbandoni la dittatura gerarchica
e si orienti verso una struttura ministeriale aperta alla pluratità e
alla mutevoleza delle voci e delle forme. Sono troppo consapevole della necessità
del ministero e dei ministeri nella comunità cristiana per coltivare
una visione spontaneista o anarchica, ma oggi uno dei problemi centrali di questa
chiesa è ristabilire una vera comunione di fratelli e sorelle che non
siano più “diretti” da un potere usurpatore vestito di panni
divini.
Ritengo importante che chi oggi vive serenamente una nuova consapevolezza della
comunione ecclesiale continui il suo impegno perché questa consapevolezza
si traduca e si espanda a livello di elaborazioni teologiche e di pratiche pastorali.
“E’ finito un ciclo storico: siamo dinnanzi all’ultima generazione
di ministri (vescovi e presbiteri) clericali o sacerdotali della chiesa.
Arriverà una generazione nuova di cristiani, liberi per un tipo di ministero
laicale, non gerarchico, a partire dalle stesse comunità, senza condizioni
di celibato, senza discriminazione di sesso, una generazione di servi del Vangelo
che non siano sacerdoti, né abbiano un potere sacro, né possano
trasformarsi in un gruppo o casta al di sopra dei fedeli.
Non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla “cupola” clericale,
ma dalla radice del Vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime
comunità cristiane, secondo la fede del popolo. Sono molti i buoni cristiani
che non si sentono ben rappresentati né diretti dal tipo attuale di gerarchia;
non possono essere accusati di essere ribelli, né essere chiamati anticristiani
o protestanti, perché la ribellione protestante deve essere integrata
nella chiesa cattolica, affinchè abbia frutto.
Eccesso di istituzione, desiderio di controllo. Dobbiamo tornare all’inizio
del Vangelo, radicarsi nella fraternità di Gesù, al servizio degli
esseri umani. Si è detto e si dice che ciò è impossibile,
che la chiesa (come tutte le istituzioni sociali di prestigio) si mantiene grazie
alle sue gerarchie di potere… Ebbene, contrariamente a ciò, se
Gesù fu davvero il messia di Dio e Dio era colui che Gesù annunciava,
la chiesa deve mostrare che essa è diversa, che può costituirsi
nella modalità della comunione personale, senza le strutture del sistema”
.
Temo che il teologo ora citato sia troppo ottimista, ma questa mi sembra la
direzione evangelica verso la quale occorre camminare. In questa “casa”
c’è troppo lavoro da fare per imparare insieme che l’obbedienza
non è più una virtù e per crescere nella responsabilità
dei liberi figli/e di Dio. La fraternità e la sororità reali non
possono coesistere con un “impianto gerarchico” che crea dipendenza,
marginalità, passività. Questo è “tempo di restare”
anche perché sento che proprio l’impegno teologico e le nuove pratiche
pastorali possono in qualche modo rappresentare un sentiero di radicale rinnovamento
comunitario.
Emerge con chiarezza un dato di tutta evidenza. Nessuno ti tocca, ti ammonisce
o ti emargina nella chiesa se ti occupi di tossicodipendenti, di mafia, di fame,
di malati di Aids, di baraccopoli, del “terzo mondo”, di lotta nonviolenta:
tutte scelte umanamente ed evangelicamente preziose. Anzi, diventi una persona
esposta al rischio di diventare un personaggio. Lo puoi fare a Milano, a Torino
o a Calcutta, a Korococho o a Pinerolo. Qualcuno forse ti richiama alla prudenza,
ma spesso si tratta di spazi anche “finanziati” o benedetti o tollerati
dalle istituzioni ufficiali.
La gerarchia “scatta” su altri terreni di impegno: quando, con un
lavoro sistematico di rinnovamento della teologia e delle prassi pastorali,
si va a toccare la sacralità del suo potere, quando la si sveste dei
panni divini, quando si emancipano le coscienze dalla dipendenza dalle leggi
ecclesiastiche, quando si evidenzia la storicità di certi enunciati dogmatici
o se ne fornisce una diversa interpretazione, quando si trasgrediscono le regole
ecclesiastiche che escludono i divorziati o i gay e le lesbiche dalle nozze
cristiane.
La gerarchia scatta e bacchetta quando si compie un cammino comunitario in cui,
con gioia e serenità, con un pizzico d’ironia, si va oltre certi
diktat senza nemmeno dover chiedere il permesso ad ogni passo, con una visione
della chiesa in cui la comunione sia confronto, correzione reciproca e non sudditanza
o dipendenza.
La gerarchia accetta volentieri tutto ciò che, in un contesto di scarsa
credibilità della chiesa, presenta volti ed esperienze di alto livello
morale che le fanno fare una “bella figura”. Non gradisce invece
tutto ciò che non porta acqua, credibilità e consenso all’istituzione
ecclesiastica ufficiale.
Sottolineo con vigore questo fatto: nella chiesa puoi fare di tutto o quasi
con la benedizione dei “sacri pastori” purchè non tocchi
la sacralità del loro potere e delle loro ideologie dogmatiche. Eppure
è lì che bisogna lavorare pazientemente per smascherare non delle
persone (verso le quali non nutro alcuna avversione) ma delle strutture e delle
ideologie di dominio. Ma resto e resto anche come prete, non perché un
giorno un vescovo mi impose le mani facendomi “sacerdote in eterno”.
Questa è la dottrina ufficiale cattolica secondo la quale il popolo di
Dio sarebbe diviso in clero e laicato dando legittimità ad una chiesa
cone “società ineguale”. Sono mille miglia lontano da questa
concezione che “sacerdotalizza” il ministero.
Conosco però e rispetto i lunghi percorsi e i tempi che sono necessari
perché molta parte della comunità sappia “desacerdotalizzare”
il ministero. A volte nell’azione pastorale sono necessarie, a mio avviso,
mediazioni che rispettino le persone presso le quali esercitiamo il ministero.
L’importante resta l’orizzonte verso il quale ci muoviamo nella
lucida consapevolezza di spogliare progressivamente il ministero di ogni prerogativa
“sacerdotale” .
Ma io resto nella chiesa cattolica e ci resto come presbitero perché
me lo chiede un gran numero di donne e di uomini che mi riconoscono un ministero
e mi invitano pressantemente a continuare. Il loro affetto, la loro testimonianza
e il loro riconoscimento, accanto a quello della mia comunità cristiana
di base, rendono evangelicamente ed ecclesialmente “legittimo” il
mio ministero. Questo è il “rinoscimento” senza il quale
non potrei proseguire l’esercizio di un ministero – servizio dentro
la comunità ecclesiale. Quello giuridico, burocratico della gerarchia
è del tutto inessenziale e irrilevante.
Resto come presbitero in questa chiesa perché a tutt’oggi 3900
preti mi hanno manifestato la loro solidarietà e mi sollecitano a non
mollare.
Resto perché migliaia e migliaia di “cristiani/e irregolari”
(spretati, separati, divorziati, preti innamorati, gay, lesbiche, transessuali,
eretici, dissenzienti, teologi, femministe …) sono i miei più cari
compagni di viaggio, di ricerca. Con loro ho scoperto quanto i territori della
fede fioriscono oltre il tempio. Queste donne e questi uomini sono stati e sono
tuttora lo spazio aperto in cui sento giorno dopo giorno nascere a piccoli passi
una chiesa altra. Non posso tradire questa bella “carovana” di cui,
irrregolare tra irregolari, mi sento gioiosamente parte. E’ questa, insieme
alla mia comunità cristiana di base, la compagnia in cui mi sento immerso
e sorretto nel cammino di conversione personale e di impegno nel mondo.
E poi io resto in questa chiesa che vivo come una realtà ecumenica perché
in essa ho ricevuto il dono della fede, il primo contatto con le Scritture,
il ministero. Non ho mai cessato di amare questa chiesa anche se, rispetto agli
apparati burocratici, abito in un altro pianeta. E poi, perché lasciare
tutto lo spazio agli “obbedienti”?
La mia speranza è che finalmente la chiesa di base si ponga seriamente
il problema del ministero e dei ministeri calamitando tutti quei sacerdoti che
sono disposti a convertirsi ad un ministero desacralizzato e, soprattutto, eleggendo
al proprio interno i ministri di cui Dio le fa dono e di cui c’è
estrema necessità.
“Non c’è chiesa visibile senza ministeri, né fraternità
e sororità senza istituzione che “organizzi” l’amore
a partire dal Vangelo… I ministeri sono fondamentali come mediatori della
Parola e dell’amore comunitario” (X. Pikaza). Ma è chiaro
che il modo con cui si concepiscono i ministeri determina in larga misura la
vita delle comunità.
Lo stesso teologo così prosegue: “Dio è trascendente e agisce
in modi diversi, che soltanto nella fede si possono comprendere e accettare;
ma lo fa sempre attraverso l’amore e il dialogo comunitario. La nomina
normale dei ministri (vescovi, presbiteri) è perciò compito e
gioia della comunità dei credenti: essi sono portatori della parola e
dell’amore di Cristo e così devono esprimerlo, scegliendo i propri
ministri, alla luce dei bisogni dei poveri e degli esclusi, secondo la parola
del concilio di Gerusalemme: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi”
(At. 15, 28).
Lo Spirito Santo agisce attraverso il dialogo comunitario, non grazie all’ispirazione
di alcuni membri particolari della chiesa. Certo, i ministeri scaturiscono da
una chiamata speciale di Dio (sono al servizio della sua Parola) e si diffondono
in modo missionario (per testimoniare Cristo tra gli esclusi); nel contempo
però devono scaturire dal dialogo fraterno dei fedeli, così che
ogni comunità deve scegliersi i propri ministri (…).
I ministri della chiesa esprimono la grazia e la libertà di Cristo che
trascende l’ordine del sistema; non possono diventare i funzionari o gli
impiegati di un’istituzione. Essi devono animare la vita di alcune comunità
concrete di credenti che condividono la parola e l’amore (eucarestia),
in un dialogo trasparente, dove tutti i problemi si esprimono e risolvono parlando,
perché non c’è un’istanza maggiore dell’amore
reciproco.
Al tempo stesso però sono testimoni di un Gesù che ha proclamato
il Vangelo ai poveri (cfr. Lc 4, 18–19), così che il loro primo
compito consiste nell’accogliere gli esclusi e gli umiliati, i dissidenti,
i diversi e gli oppressi della terra. Certo, essi ascoltano e proclamano una
parola di Gesù: non sono portatori dei risultati di un’assemblea,
né semplici portavoce di un gruppo, ma credenti che esprimono e diffondono
quello che hanno creduto.
Al tempo stesso però ricevono l’incarico dalla comunità
dei credenti che affida loro il compito dell’animazione comunitaria; nella
loro vita perciò esprimono la vita e la comunione dei credenti della
loro chiesa. Questi aspetti si trovano collegati: i ministri della chiesa sono
testimoni di Gesù e sono portatori dell’amore comunitario.
Su entrambi i piani essi sono coloro che trasmettono un amore diretto, una comunione
nella quale hanno importanza soltanto le persone, prescindento dalle pressioni
ideologiche o generali del sistema (…). In base a ciò la chiesa
è comunità, non sistema: comunione personale, su un piano di preghiera
e pasto, dialogo e ricerca umana; esiste unicamente sul livello dei rapporti
personali, della conoscenza, della comunicazione e dell’amore concreto.
Nessuno è credente per lettera o acquistando una tessera, via internet
o per delega, ma in seguito ad una esperienza di fede nel Dio di Cristo e grazie
alla comunione di amore con altri credenti, che coltivano questa fede nel dialogo
reciproco. Conseguentemente una chiesa in cui i vescovi e/o presbiteri sono
nominati dal di fuori non sarebbe una comunione di credenti responsabili, incontro
di persone, ma delega sacra di una dittatura…” .
Passando poi al tema specifico della presidenza eucaristica il teologo spagnolo
prosegue così: “E’ evidente che, in conformità con
la mia versione del Nuovo Testamento, la presidenza eucaristica possa e debba
scaturire dalla stessa comunità dei cristiani, in modo tale che siano
loro a scegliere per un certo periodo i propri “presidenti”, siano
essi uomini o donne. La prassi attuale di ordinare prima i presbiteri “in
generale” (come ordine speciale, sacro) per assegnargli poi una comunità
mi sembra contraria alla vita originaria della chiesa e all’ispirazione
del Vangelo.
Non credo nelle “ordinazioni assolute”, in modo che non si possa
dire “questo è un vescovo, questo è un presbitero”,
così in generale, se non si dice “questo è il vescovo o
il presbitero di questa chiesa”.
Evidentemente sono le comunità quelle che devono nominare i propri ministri,
per loro conto e per tutto il tempo che reputano conveniente. Credo che tale
prassi possa iniziare da subito. Penso che alcune comunità cristiane
siano in un buon momento per iniziare a celebrare e a vivere l’eucarestia
come qualcosa che fa parte della loro esperienza e ricchezza cristiana, creandosi
da sé i propri ministeri” (Adista, 29 marzo 2003).
Insomma occorrre promuovere tutta la chiesa alla dignità laicale dei
figli e delle figlie di Dio strappandola all’involuzione e al degrado
clericale. Bisogna sempre rifarci al Gesù storico.
Nella nostra storia abbiamo trovato due scappatoie per nullificare la laicità
di Gesù. Lo abbiamo “sacralizzato” fino a farne un Dio o
lo abbiamo sacerdotalizzato.
Ma egli, tutto “incentrato sul regno di Dio, lo è anche su Dio
stesso … Il “regnocentrismo” e il “teocentrismo”
coincidono. Gesù non ha parlato primariamente di se stesso, ma è
venuto per annunciare Dio e la venuta del Suo regno e per mettersi al Suo servizio.
Dio è al centro, non il messaggero" .
Anzi “il nazareno non ha mai proclamato di essere il messia e come Gesù
giunse ad essere chiamato messia, resta uno dei più grandi enigmi delle
origini cristiane” .
Anche se il processo di divinizzazione di Gesù compare molto presto nelle
origini cristiane “la fede in Gesù dei primi cristiani non ha preso
il posto della fede in Dio; essi non hanno per nulla abiurato il monoteismo
ebraico, la confessione cioè dell’unico Dio esistente. Hanno esaltato
oltre ogni dire Gesù, … ma non si sono mai spinti a fare di lui
un secondo dio” .
Gesù “si distingueva per il suo ruolo di mediatore storico della
definitiva regalità divina di Dio Padre e per uno specifico rapporto
funzionale con lui. Comunque è certo che non ha mai detto di essere il
figlio di Dio trascendente; è la chiesa delle origini che ha tematizzato
e sviluppato tale titolo glorioso fino ad arricchirlo di contenuti sorprendenti”
.
Né ha mai fatto di sé un sacerdote. Questo profeta della Galilea
che per noi cristiani è l’icona di Dio, la sua epifania nella nostra
carne, tanto che lo chiamiamo “figlio di Dio” per designare la sua
intimità con Dio e la missione particolare che il Signore gli ha affidato,
ha chiaramente distinto tra apparato religioso e fede.
Quest’uomo, che ha fatto sua la causa di Dio con tutto il cuore, che ha
cercato ogni giorno di convertirsi alla volontà del Padre, che ha pregato
per non indietreggiare di fronte alle prove della vita, è stato un laico:
“Gesù nacque come ebreo laico, condusse il suo ministero come ebreo
laico e morì come ebreo laico... Egli era un laico religiosamente impegnato
che sembrava minacciare il potere di un gruppo ristretto di sacerdoti. Questo
contribuì allo scontro finale in Gerusalemme... Ho intenzionalmente sottolineato
la condizione laicale di Gesù perché i cristiani sono molto assuefatti
all’immagine di Gesù sacerdote o grande sommo sacerdote”
.
Sarebbe bene che non lo dimenticassimo mai.
Oggi più che mai penso che sia importante costruire ponti. Ed è
la tradizione plurale, non quella resa uniforme e “venduta” al popolo
di Dio come autentica solo se subordinata alla gerarchia, che ci autorizza ad
una fedeltà che esige apertura all’innovazione e al cambiamento.
Già oggi è possibile concepire la chiesa come una casa nella quale,
senza escludere nessun confronto, possiamo scegliere e decidere senza chiedere
permesso.
In questa chiesa, che così diventa uno dei laboratori della fraternità
e della sororità, uno degli spazi dell’innovazione culturale e
della profezia, possiamo esperimentare la sommessa presenza di Dio che ci accompagna
verso le nostre responsabilità e verso la vita.
In questa direzione… fare il prete mi piace, mi affatica, mi colloca in
mille incertezze, ma è una esperienza che ogni giorno ricevo con gratitudine
dalle mani di Dio e ogni giorno imparo camminando con la mia comunità.
Non difendo un posto di potere, ma resto in una posizione scomoda. Non sono
un capo, ma cerco di utilizzare le esperienze spirituali e culturali, le conoscenze
e la passione che sento dentro di me in una concreta pratica di servizio.
Ma la mia posizione di prete irregolare mi rende ogni giorno più “comunicante”
con quelle persone che, secondo i criteri delle gerarchie, “non sono in
regola”. Tra i “maledetti” e le “maledette” trovo
ogni giorno la mia benedizione e sento che, proprio nessuno/a escluso/a, tutti/e
siamo accolti/e dall’amore accogliente di Dio, senza il quale siamo perduti.
Avrei potuto, dopo l’illegittimo e invalido licenziamento vaticano, decidere
di fare il “libero battitore”, sciolto da un quotidiano, impegnativo
servizio comunitario. Ma sono convinto che è proprio la “realtà
comunitaria” il fatto più indigesto alla gerarchia. Soprattutto
è nella dimensione comunitaria, nel fare comunità dal basso, che
ritengo possa esprimersi uno dei volti più vivi dei cristianesimi di
oggi. Su questo sentiero, percorso da mille difficoltà, voglio lavorare,
pregare, progettare e sognare ancora.
Non ho la pretesa di indicare la strada a nessuno, ma mi sento la gioia e la
libertà di vivere la fede e il ministero fuori dalle “regole burocratiche”.
Anzi ho la speranza che questa libertà possa produrre straripamenti nella
comunità ecclesiale e sono lieto quando vedo che molte persone imparano
a viver la fede e il ministero anche senza la “benedizione” gerarchica.
Difendo il dirito di una comunità cristiana a darsi un prete, come direbbe
Schillebeeckx, e in sostanza la responsabilità di una comunità
di riconoscere i doni che Dio le dona e di strutturare il ministero secondo
i bisogni, la creatività, la libertà evangelica. Anche questo
è per me amore alla mia chiesa che ha perso, nelle sue istanze gerarchiche,
il senso della provvisorietà.
“L’istituzione ecclesiale tende a occultare la propria precarietà
con la grandezza del discorso dottrinale” (Christian Duquoc). Essa pretende
di erigersi come vessillo sulle nazioni e non riesce a superare la tentazione
di “unificare l’umanità sotto una sola verità e sotto
un’unica pratica codificate, l’una e l’altra controllate da
un unico potere” .
Si difende appellandosi ad una interpretazione mummificata della tradizione,
intesa come memoria normativa rigida: “Questa invece di permettere la
nascita di una pratica che accetta le sfide di una situazione inedita, agendo
in tal modo come un fattore di trasformazione possibile, blocca molto spesso
le richieste del popolo riguardo all’organizzazione della loro chiesa,
con il pretesto che le tracce lasciate dai loro predecessori hanno valore definitivo
e non solo di incitamento. Il simbolo allora non scava più la distanza
feconda tra ciò che avviene, il Regno di Dio, e la visibilità
presente. L’intelligenza senza la flessibilità della tradizione
pietrifica il movimento dinamico di conversione strutturale in una fissità
organizzativa e amministrativa (…).
Ma l’istituzione, a causa della logica che regge la sua organizzazione
e la sua amministrazione, frena la dinamica del proprio compito volendo dominare
il divenire umano in modo tale che ogni credente divenga il servitore dei suoi
interessi immediati; l’istituzione persegue uno scopo collettivo che dimentica
il soggetto individuale del Regno; essa si comporta praticamente come se abolisse
in sé la distanza dalla realizzazione della Promessa.
L‘esergo che ho premesso alla mia conclusione allude a questa deviazione:
il funzionario non vede le lacrime dei soggetti; non prova compassione, come
il sacerdote e il levita della parabola del buon samaritano. Chiudendosi su
se stessa e preoccupandosi dei propri interessi storici, l’istituzione
si allontana dalla discrezione di Dio e si arroga un potere che mira a rendere
Dio visibile nella sua organizzazione.
La frase utilizzata al Vaticano II: “La chiesa è un vessillo innalzato
sulle nazioni”, fa capire che la causa di Dio è immediatamente
riconoscibile, come sono gli eserciti di uno stato. In realtà, questo
significa dimenticare la precarietà della sua situazione per omissione
dell’esperienza evangelica della discrezione divina” .
E’ nella precarietà e nella provvisorietà che riscopriamo
il dono di Dio e impariamo ad ascoltarci come fratelli e sorelle mentre tendiamo
umilmente l’orecchio e il cuore per percepire i segni di Dio in questo
nostro tempo. Ma… bisogna scommettere su Dio e correre qualche rischio…
uscendo da alcuni parametri.
Due avvenimenti di rilievo hanno segnato la vita della chiesa in questi ultimi
mesi del 2003. Da una parte il sinodo delle donne di Barcellona, ricco di sobrietà,
di voci plurali, di contenuti e di proposte profetiche. Dall’altra il
concistoro del 22 ottobre con la nomina dall’alto di 31 nuovi cardinali,
amici del papa o amici degli amici. Una cooptazione in cui la comunità
è semplicemente assente e spettatrice.
Nel sinodo delle donne è stato centrale il confronto; nel “concistoro”
si vedono solo l’enfasi sacrale, l’autocelebrazione della potenza
sacerdotale e il delirio maschilista e patriarcale di una casta che va per la
sua strada di potere e dà spettacolo per “merito” delle televisioni.
Come le ballerine mostrano le loro grazie, così i gerarchi ostentano
le loro porpore: ma sono spettacoli tra l’indecoroso e il blasfemo in
una società affamata di giustizia in cui si consumano tragedie di povertà,
di violenza, di fame.
La polvere imperiale dà spettacolo, “seduce”, ma risveglia
in tanti cristiani/e il bisogno di cercare altrove, ripensando a quel Gesù
di Nazareth che è venuto a servire e non per essere servito: “Voi
sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro
grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così;
ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol
essere il primo tra voi sarà il servo di tutti” (Mc 10, 42-44).
Le strutture della chiesa non possono che misurarsi con questa radicale proposta
di Gesù.