LA CAUSA DEI POVERI
L’amore e
l’indignazione sono alla base delle prassi che cercano di abolire o
ridurre la povertà.
Della Chiesa delle origini in Gerusalemme si dice, elogiandola: “Non
c’erano poveri tra di loro” (At 4,34), perché mettevano
tutto in comune. Di Leonardo Boff. Reds
- Luglio 2008
La povertà è un fatto che ha sempre sfidato le pratiche umane
ed ogni tipo di interpretazione. Il povero concreto ci sfida a tal punto che
l’atteggiamento nei suoi confronti definisce la nostra situazione definitiva
davanti a Dio. Cosa attestata tanto dal Libro dei Morti dell’antico Egitto
quanto dalla tradizione giudaico-cristiana che culmina nel testo di Matteo 25.
Forse il maggior merito del vescovo Pedro Casaldáliga è stato
quello di aver preso sul serio le sfide che i poveri del mondo intero, specialmente
in America Latina, ci lanciano.
Di sicuro ha vissuto il seguente processo: prima di qualunque riflessione o
strategia di aiuto, la prima reazione è di profonda umanità: lasciarsi
commuovere e riempirsi di compassione. Come non rispondere alla richiesta dei
poveri e non capire il linguaggio dei loro gesti supplicanti? Quando la povertà
assume la forma della miseria, in tutte le persone sensibili come Pedro irrompe
anche quel sentimento di indignazione e di sacra ira che si nota chiaramente
nei suoi testi profetici, specialmente contro il sistema capitalista ed imperialista
che produce continuamente povertà e miseria.
L’amore e l’indignazione sono alla base delle prassi che cercano
di abolire o ridurre la povertà. È effettivamente dalla parte
del povero solo chi, prima di tutto, lo ama profondamente e non accetta la sua
condizione disumana. Ma non dobbiamo smettere di essere realisti, come ci avverte
il libro del Deuteronomio: “Ci saranno sempre poveri sulla terra. Per
questo ti faccio questa raccomandazione: apri generosamente la mano al tuo fratello
povero e bisognoso nel tuo paese” (15,11). Della Chiesa delle origini
in Gerusalemme si dice, elogiandola: “Non c’erano poveri tra di
loro” (At 4,34), perché mettevano tutto in comune.
Questi sentimenti di compassione e di indignazione hanno spinto don Pedro a
lasciare la Spagna, recarsi in Africa e infine sbarcare in Brasile, nel profondo
interno del Paese, dove contadini e indigeni patiscono la voracità del
capitale nazionale e internazionale.
Visioni del povero
Per una comprensione più adeguata dell’anti-realtà della
povertà conviene procedere con alcuni chiarimenti che ci aiuteranno a
la nostra presenza effettiva accanto ai poveri. Tre modi di comprensione del
povero circolano ancora oggi nel dibattito.
La prima, tradizionale, intende il povero come colui che non ha. Non ha mezzi
per vivere, non ha un reddito sufficiente, non ha una casa, in una parola non
ha averi. Sopravvive nel lavoro informale e con bassi salari. Chi sta nel sistema
imperante considera i poveri degli zero economici, rifiuti, esuberi. La strategia
consiste allora nel mobilitare quelli che hanno in soccorso di quelli che non
hanno. In que-st’ottica, per secoli è stata organizzata l’assistenza.
Una politica benefattrice ma non partecipativa. Mantenere i poveri in situazione
di dipendenza. Una visione che non è mai giunta a scoprire il loro potenziale
trasformatore.
La seconda visione, progressista, ha scoperto il potenziale dei poveri e ha
capito che esso non era utilizzato. E che è possibile qualificarlo e
potenziarlo con l’educazione e il lavoro. Così i poveri vengono
inseriti nel processo produttivo: rafforzano il sistema, diventano consumatori,
sebbene su scala minore, e aiutano a perpetuare le relazioni sociali ingiuste
che continuano a produrre poveri. Si attribuisce allo Stato il principale compito
di creare posti di lavoro per questi poveri sociali. La società moderna,
liberale e progressista ha incorporato questa visione.
La lettura tradizionale guarda al povero ma non percepisce il suo carattere
collettivo. Quella progressista ha scoperto il suo carattere collettivo, ma
non ne ha colto il carattere conflittuale. Considerato analiticamente, il povero
è il risultato di meccanismi di sfruttamento che lo hanno impoverito,
dando origine in questo modo a gravi conflitti sociali. Mettere in evidenza
tali meccanismi è stato e continua ad essere il merito storico di Karl
Marx. Prima dell’integrazione del povero nel processo produttivo bisogna
fare una critica del modello di società che produce e riproduce in eterno
poveri ed esclusi.
La terza posizione è quella liberatrice. Afferma: i poveri hanno potenzialità
non solo per ingrossare le fila della forza lavoro e consolidare il sistema,
ma principalmente per trasformarlo nella sua meccanica e nella sua logica. I
poveri, coscientizzati, autorganizzati e alleati con altre forze, possono essere
costruttori di un altro tipo di società. Possono non solo progettare
ma mettere in moto la costruzione di una democrazia partecipativa, economica
e sociale. L’uni-versalizzazione e la pienezza di questa democrazia senza
fine si chiama socialismo. Questa prospettiva non è né assistenzialista,
né progressista. È veramente liberatrice, perché fa dell’oppresso
il principale soggetto della propria liberazione e il creatore di un progetto
alternativo di società.
La teologia della liberazione ha assunto questa lettura del povero. L’ha
tradotta nell’opzione per i poveri contro la povertà e a favore
della vita e della libertà. Farsi povero in solidarietà con i
poveri significa un impegno contro la povertà, materiale, economica,
politica, culturale e religiosa. L’opposto di questa povertà non
è la ricchezza, ma la giustizia e l’equità.
Questa ultima prospettiva è stata ed è testimoniata e praticata
da dom Pedro Calsaldáliga. A rischio della sua vita, ha appoggiato i
contadini espulsi dai grandi latifondisti. Insieme con le piccole sorelle di
padre Foucauld ha collaborato al riscatto degli indigeni tapirapés, minacciati
di estinzione. Non c’è movimento sociale e popolare che non abbia
ricevuto l’appoggio di questo pastore di eccezionale qualità umana
e spirituale.
La povertà essenziale
Due altre dimensioni della povertà sono presenti nella traiettoria di
don Pedro: la povertà essenziale e la povertà evangelica.
La povertà essenziale è nella nostra condizione di creature. Ha
pertanto una base ontologica che non dipende dalla nostra volontà. Parte
dal fatto che non siamo noi a garantirci l’esistenza. Esistiamo nella
dipendenza da un piatto di cibo, da un poco d’acqua e dalle condizioni
ecologiche della terra. Siamo poveri in questo senso radicale. La terra non
è nostra, né la creiamo. Siamo suoi ospiti e passeggeri di un
viaggio che va al di là di essa. Di più: umanamente dipendiamo
da persone che ci accolgono e convivono con noi con gli alti e bassi propri
della condizione umana. Siamo tutti interdipendenti. Nessuno vive per sé
e in sé. Siamo sempre avviluppati in una rete di relazioni che garantiscono
la nostra vita materiale, psicologica e spirituale. Per questo siamo poveri
e dipendenti gli uni dagli altri. Accogliere questa condizione umana ci rende
umili e umani. L’arroganza e l’ecces-siva autoaffermazione qui non
hanno posto perché non hanno una base che le sostenga. Questa situazione
ci invita ad essere generosi. Se riceviamo l’essere da altri, dobbiamo
a nostra volta darlo agli altri. Questa dipendenza essenziale ci induce anche
ad essere grati a Dio, all’universo, alla terra e alle persone che ci
accettano così come siamo. È la povertà essenziale.
Esiste inoltre la povertà evangelica, proclamata da Gesù come
una delle beatitudini. Nel versetto di san Matteo si dice: “Beati i poveri
in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (5,3).
Questo tipo di povertà non è direttamente vincolato all’avere
o non avere. È un modo di essere ed un atteggiamento che potremmo tradurre
con infanzia spirituale. Povertà qui è sinonimo di umiltà,
distacco, svuotamento interiore, rinuncia ad ogni volontà di potere e
di autoaffermazione. Implica la capacità di svuotarsi per accogliere
Dio, implica anche il riconoscimento della nullità della creatura davanti
alla ricchezza dell’amore di Dio che si comunica gratuitamente. L’opposto
di questa povertà è l’orgoglio, la millanteria, l’inflazione
dell’io e la chiusura agli altri e a Dio.
Questa povertà ha caratterizzato l’esperienza spirituale del Gesù
storico. Egli non solo si è fatto povero materialmente e ha assunto la
causa dei poveri, ma si è fatto povero in spirito perché “spogliò
se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce” (Fil 2,7-9). Questa povertà è
il cammino del vangelo, per questo si chiama anche povertà evangelica,
come suggerisce san Paolo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono
in Cristo Gesù” (Fil 2,5).
Il profeta Sofonia testimonia questa povertà di spirito quando scrive:
“In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti commessi contro
di me, perché allora eliminerò da te tutti i superbi millantatori
e tu cesserai di inorgoglirti sopra il mio santo monte. Farò restare
in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore
il resto d’Israele” (3,11-12).
Questa povertà evangelica e infanzia spirituale costituisce una delle
illuminazioni più visibili e convincenti della personalità di
don Pedro Casaldáliga. Si manifesta nel suo modo povero di vestire ma
sempre pulito, nel suo linguaggio inondato di humour anche quando si fa aspro
critico delle follie della globalizzazione economico-finanziaria e della prepotenza
neoliberista o quando profeticamente denuncia le visioni mediocri del governo
centrale della Chiesa di fronte alla sfida dei dannati della terra e delle questioni
che riguardano l’umanità tutta. Questo atteggiamento di povertà
si manifesta esemplarmente quando nei nostri incontri di cristiani di base,
generalmente poveri, si pone in mezzo a loro e ascolta attentamente quello che
dicono, quando si siede ai piedi dei conferenzieri - siano teologi, sociologi
o portatori di altro sapere qualificato - per ascoltarli, annotarne i pensieri
e formulare umilmente domande. Questa apertura rivela uno svuotamento interiore
che lo rende capace di apprendere continuamente e di fare le sue sagge considerazioni
sui cammini della Chiesa. Dell’America Latina, del Brasile e del mondo.
Quando il tormentato presente sarà passato, quando le sfiducie e le meschinità
saranno state ingoiate dalla voragine del tempo, quando guarderemo indietro
e considereremo gli ultimi decenni del secolo XX e gli inizi del secolo XXI,
individueremo una stella nel cielo della nostra fede, rutilante, dopo aver fermato
le nuvole, sopportando oscurità e vincendo tempeste: è la figura
semplice, povera, umile, spirituale e santa di un vescovo che, straniero, si
fa compatriota, distante si fa prossimo e prossimo si fa fratello di tutti,
fratello universale, don Pedro Casaldáliga.