Un Gesù sempre da scoprire
Oggi, riprendendo un contatto mai completamente interrotto con molte cristologie di tutti i secoli passati, fiorisce una ricerca cristologica che non parte più dalla questione del rapporto tra le due nature in Gesù, ma da ciò che è centrale nella testimonianza dei vangeli (Da "Olio per la lampada" di Franco Barbero - liberamente tagliato da Duilio Felletti). Reds - Settembre 2010



Un teologo tutt’altro che rivoluzionario come N. T. Wright scrive che, “se vuole essere autenticamente chiesa, ogni generazione deve misurarsi daccapo con le sue radici bibliche”. Lo stesso autore riconosce che quando, dopo vent’anni di seri studi sul Gesù storico, pronuncia i credi cristiani “ora intende qualcosa di molto diverso con essi”. La parte vitale del compito cristologico contemporaneo consiste “nell’imparare a parlare autenticamente del Gesù terreno e del suo senso di vocazione; dobbiamo imparare a parlare biblicamente, alla luce di questo Gesù, dell’identità dell’unico vero Dio”.
Oggi mi sembra urgente imparare altri linguaggi e fare uscire Gesù dalla nebulosa di una dogmatica diventata astratta. Mentre la tradizione parla molte lingue e le teologie esprimono una straordinaria pluralità di accenti, il potere ecclesiastico ha espresso nel Catechismo della Chiesa Cattolica una riduzione di Gesù alle dogmatizzazioni che si sono affermate da Nicea a Calcedonia.

Dentro l’oggi

L’esigenza di riandare alle radici bibliche, di rileggere, reinterpretare e oltrepassare certe formulazioni dogmatiche viene lucidamente espressa dal cardinale Walter Kasper nel suo volume “Gesù il Cristo”: “Oggi, quando la libertà e maturità dell’uomo sono diventate il centro verso cui tutto deve convergere e il criterio del pensiero, è inevitabile che le rappresentazioni e convinzioni religiose suonino mitologiche. Il sospetto di mitologia si estende anche alla fede in Gesù Cristo della tradizione. Possiamo ancora onestamente riproporre l’annuncio che Dio scende dal cielo, assume una figura umana, nasce da una vergine, compie miracoli, dopo la morte scende nel regno dei morti, al terzo giorno viene risuscitato ed elevato alla destra di Dio, e continua, per mezzo del suo Spirito, ad essere presente nella predicazione e nei sacramenti della chiesa?
Tutto questo non rientra forse nella sfera di un linguaggio, ma anche di un contenuto, tipico di un’immagine del mondo ormai superata? La nostra onestà intellettuale ed una concezione più pura di Dio non ci costringono a demitizzare l’intero discorso?”.
C’è di più. Per entrare più onestamente nel dialogo con le religioni del mondo, la rigidità dogmatica non sembra davvero di buon auspicio.
Lo stesso teologo cattolico scrive: “per i cristiani come per i musulmani, solo il Dio di Gesù, il motore di tutti gli uomini, è l’assolutamente unico. Gesù non è una emanazione di Dio. Senza rinnegare la fede che ha trovato la sua espressione a Nicea e Calcedonia, sarebbe senza dubbio possibile tentare un dialogo fecondo con l’Islam a partire da una cristologia narrativa di Gesù servo di Dio... Gesù testimonia una relazione assolutamente unica con Dio, Dio che egli chiama suo Padre, e tuttavia la maggior parte degli esegeti oggi sono d’accordo nel dire che Gesù non ha mai applicato a se stesso il titolo di Figlio di Dio”. Del resto la metafora ”figlio di Dio” non ha affatto il significato di “essere divino”, ma esprime ed indica la persona alla quale Dio ha affidato una particolarissima funzione e missione.

Percorsi cristologici
Nicea e Calcedonia, pur con tutte le loro ambiguità, hanno il grande “merito” di aver tentato di “tenere insieme” Dio e Gesù nel senso che, per noi cristiani, Gesù è la via che conduce a Dio e la strada e la causa di Gesù sono la strada e la causa di Dio. Nell’esistenza storica del profeta di Nazareth noi incontriamo davvero il testimone di Dio, colui che ci manifesta la volontà, le scelte e l’amore con cui Dio ama. Ma è del tutto evidente che, fermarci a tali formulazioni, significa imbalsamarle, mentre siamo chiamati a ridire la fede riscrivendola nei linguaggi del nostro tempo. Da queste constatazioni nascono la libertà e l’impulso verso nuovi sentieri.
Infatti le costruzioni teologiche sono ‘case’ in cui vivere per un tempo, con finestre semiaperte e porte socchiuse; diventano prigioni quando non ci consentono più di andare e venire, di aggiungere una stanza o di toglierne una o, se necessario, di lasciarle e costruirci una casa nuova .

La prospettiva continuista

Per molti cristiani, sulla scia dell’insegnamento ufficiale, le formule dogmatiche cristologiche e trinitarie sono la fedele traduzione ed esplicitazione delle Scritture. Una parte, in verità molto consistente e pubblicizzata, delle trattazioni dogmatiche si esprime in questa direzione, senza lasciar spazio alcuno a quelle domande che emergono dalla consapevolezza della storicità del dogma, dalla “contingenza e parzialità” dei linguaggi e degli immaginari umani.
La visione storica dell’intrecciarsi continuo di mille ricerche e la permanente realtà plurale delle teologie cristiane vengono completamente rimosse.
Questa operazione continuista, un vero e proprio falso storico, trova ampia diffusione perchè la censura vaticana pratica la sistematica persecuzione o emarginazione dei dissenzienti, ma anche perché la maggioranza degli intellettuali “laici”, quando si addentra in argomentazioni religiose e in ambiti dogmatici, recita le formule del catechismo di prima comunione, con qualche abbellimento linguistico.
Ma la tradizione cristiana è molto più ricca, molto più variegata, molto più viva, bella e plurale. Le teologie che hanno costruito la grande e contradditoria tradizione cristiana sono la smentita più sonora del monolitismo e dell’uniformità.

Ebollizione mai sedata
Attorno a Gesù, al suo ministero, alla sua funzione, alla sua persona, alla sua storia, al suo messaggio... la discussione non si è mai spenta. Ad onta di tutte le versioni ufficiali e di tutte le definizioni conciliari, le cristologie non sono mai diventate uno stagno, ma sono rimaste sempre un mare aperto, mosso e vitalmente attraversato da molte correnti diverse, ora visibili ora sotterranee, e da forti conflitti.
Quello che Dio ha operato e manifestato nell’uomo Gesù di Nazareth sembra far scoppiare i nostri presuntuosi contenitori dogmatici. Il dibattito sulle teologie cristologiche e, conseguentemente, trinitarie sta esplodendo con grande vivacità e consapevolezza.
Le grandi accademie dell’ufficialità cattolica, protestante e ortodossa continuano a recitare, difendere e reinterpretare le formulazioni dogmatiche di Nicea, Costantinopoli e Calcedonia, ma i più fecondi laboratori storici, esegetici e teologici sembrano aver “cambiato casa”. Centinaia di teologi e teologhe lavorano in modo più sotterraneo, coraggioso e documentato in ben altre direzioni, valorizzando al massimo livello sia gli strumenti degli studi accademici, sia le domande poste dai credenti e, soprattutto, dalle credenti di oggi. Il giusto rispetto per le tappe del passato si congiunge alla responsabilità dei nuovi linguaggi con cui dire Dio oggi.

Il Kairòs
La ricerca cristologica vive da almeno cento anni una stagione straordinariamente viva e feconda. Dunque, pur in mezzo a guerre e drammi, anche se stretti da tutte le parti da una politica vaticana oppressiva, Dio non ha cessato di offrirci nuove opportunità.
Tutto questo travaglio e questo fermento possono rappresentare un Kairòs.
Kairòs è un punto della storia in cui, a motivo della particolare costellazione di eventi e di personalità, sono latenti possibilità e progressi genuinamente nuovi. Esso non è soltanto una situazione, ma è anche una opportunità. Se lo perdiamo, perdiamo qualcosa di molto importante.
Cogliere questo Kairòs significa per il cristianesimo, secondo questo orientamento di prassi e di pensiero, valorizzare l’opportunità di crescere e di evolversi in maniera genuina e di comprendere il Vangelo in modo nuovo, in una maniera che permette alla potenza del Vangelo di continuare a brillare in forme fresche e più comprensibili.

Una rottura?
Nel corso della lunga esistenza del movimento di Gesù i linguaggi cristiani hanno più volte dovuto fare i conti con il mutevole contesto storico.
I nostri “padri" hanno cercato di dire per il loro tempo -in bene e in male - il cuore della loro fede. Noi, in un contesto completamente e radicalmente mutato, ci permettiamo di ripetere pigramente quelle formule. Storicamente situate e linguisticamente contingenti, figlie di una cultura e di un immaginario che abbiamo in larga misura alle spalle.
Quando le comunità primitive entrarono nell’area della cultura greco-romana e persero progressivamente contatto con le loro radici ebraiche, le immagini mitiche e le categorie funzionanti di “figlio di Dio” e di “incarnazione” furono ontologicizzate e trasformate in categorie assolute ed esclusive.
Il linguaggio mitico, poetico, narrativo si trasformò in prosa solida e passò da un metaforico figlio di Dio a indicare un metafisico Dio Figlio, della stessa sostanza del Padre.
Oggi siamo diventati più coscienti che questi dogmi cristologici e trinitari hanno alle loro spalle una storia e si sono storicamente “costruiti”, in bene e in male, anche in risposta a situazioni culturali, comunitarie, pastorali e politiche del tempo in cui furono redatte. Quindi lo schema trinitario che si è insediato nella dogmatica e nella liturgia va compreso ed eventualmente superato o reinterpretato a partire da questa consapevolezza.

Un percorso da capire

Si tratta di un percorso storico e culturale che oggi molti studiosi e studiose hanno ricostruito con sufficiente chiarezza. Gli studiosi del Nuovo Testamento oggi sono tutti ampiamente d’accordo, compresi anche i più conservatori fra essi, che , il Gesù storico stesso non insegnava che Egli era Dio Figlio, la seconda persona della Trinità divina, vivente una vita umana. Egli era profondamente cosciente che Dio era il Padre celeste, la sua vita (certamente durante i due o tre anni del suo ministero) era dedicata alla proclamazione dell’imminente arrivo del regno di Dio e alla manifestazione del suo potere negli atti di guarigione, era dedicata pure all’insegnamento di come vivere per poter diventare parte del regno che stava per essere stabilito. Egli probabilmente si considerava l’ultimo profeta, che aveva la missione d’essere l’araldo della fine di un’epoca. Forse si fregiò di uno dei due titoli principali che la tradizione ebraica offriva a colui che avrebbe ricoperto questo ruolo - quello del figlio dell’uomo che doveva giungere in gloria sulle nubi celesti, e quello del messia che doveva governare il mondo dal suo nuovo centro, Gerusalemme.
Nessuno dei due ruoli, si noti bene, voleva indicare la divinità; entrambe le figure erano quelle di glorificati servitori umani di Dio.
Il titolo "figlio di Dio”, che è diventato standard nella teologia della chiesa, probabilmente ebbe inizio nell’Antico Testamento e un uso più ampio si ritrovava nell’antico Vicino Oriente in cui significava servitore speciale di Dio.
In questo senso i re, gli imperatori, i faraoni, i grandi filosofi, coloro che compivano cose strabilianti, e gli altri uomini santi erano comunemente chiamati figli di Dio.
Ma quando il vangelo travalicò il suo ambiente giudaico verso il mondo non-cristiano dell’impero romano, questa poesia si trasformò in prosa e la metafora vivente venne congelata in un dogma rigido e letterale. Era per trovare un posto a questa figliolanza metafisica che la chiesa, dopo ben tre secoli di dibattiti contrastanti, si decise a teorizzare che Gesù aveva due nature, una divina e l’altra umana: attraverso quella divina era una sola sostanza con Dio Padre e in quella umana era una cosa sola con l’umanità.
Ma vi sono sempre state altre linee di pensiero cristologico, anche se le variazioni erano ufficialmente oppresse durante il lungo e relativamente monolitico periodo della cristianità medievale”.

Una cristologia epifanica e funzionale

Era naturale che le comunità primitive, nel contesto della nuova cultura, cercassero di esprimere la loro esperienza di Gesù con questi concetti filosofici e nel linguaggio degli assoluti. Quei padri conciliali parlavano da cristiani, ma pensavano da greci, ma noi non siamo obbligati ad accettare i presupposti filosofici e antropologici di quei concili greci come condizione di una fede viva. In essi l’uomo Gesù, ebreo di Nazareth, scomparve. Inoltre, ciò che quei concili intendevano dire fu essenzialmente indurito e spesso distorto nella catechesi, nella predicazione e nella teologia. Ecco perché diventa antistorico mantenere ossessivamente l’intangibilità di quelle formulazioni. Basti pensare alla distanza che esiste tra l’attuale concetto di persona rispetto all’ipostasi del passato.
Oggi, nella mutata costellazione dell’esperienza umana soggettiva e oggettiva, la dottrina cristiana delle due nature dà luogo ad una vera “fallacia ipostatica “ con “il rischio di ridurre Gesù a un semplice manichino guidato da un burattinaio invisibile. In tale modo la cristologia dei vangeli viene inserita in un modello a lei estraneo e di fatto la figura umana di Gesù è completamente falsata”.
Oggi, riprendendo un contatto mai completamente interrotto con molte cristologie di tutti i secoli passati, fiorisce una ricerca cristologica che non parte più dalla questione del rapporto tra le due nature in Gesù, ma da ciò che è centrale nella testimonianza dei vangeli: Gesù è vissuto in una comunicazione profonda con Dio e, per noi cristiani, in forza della chiamata che Dio gli ha rivolto, in forza della missione particolarissima che Dio gli ha affidato, egli è il testimone, l’epifania, la icona, la sapienza di Dio, la parabola di Dio, il “figlio prediletto”. Egli è cresciuto in totale obbedienza e dedizione al regno di Dio. Gesù non ha mai fatto della sua persona la realtà ultima e centrale. Gesù addita oltre se stesso, a un mistero carico di senso che egli chiama “Padre più grande di me”.
Gesù, dunque, non è un semidio o un essere metastorico, una persona con due nature. Egli è esclusivamente uomo “e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi. Gesù, perciò non ha rivelato Dio perché nella sua natura umana fosse divino, ma perché era stato reso così umano da diventare traduzione del progetto che Dio ha dell’uomo, era diventato così trasparente alla presenza di Dio da consentirne la piena manifestazione nella carne”.
Ecco perché è impossibile vincolare l'esperienza cristiana alla concezione teologica della divinità di Gesù e perché identificare Gesù Cristo con Dio va oltre la testimonianza delle Scritture cristiane. Sarebbe fuorviante pensare che questo orizzonte teologico “diminuisca” il ruolo e la rilevanza di Gesù nella nostra vita cristiana.
E’ proprio Gesù che ha messo i suoi discepoli sulla strada della diocentralità. Il suo richiamarsi a Dio è profondo e costante.

Il Dio più grande

Questa prospettiva, saldamente ancorata all'evangelo, che riconduce tutta l'opera e l'esistenza dell’artigiano e profeta di Nazareth nel servizio della signoria-regno di Dio, non diminuisce di un millimetro l'importanza essenziale di Gesù per un cristiano/a, ma fa propria la consapevolezza, felice e liberante, che il fenomeno cristiano non esaurisce il campo e l'azione salvifica di Dio.
Dio e la Sua salvezza sono più grandi anche del cristianesimo, sono più grandi di Gesù.
Ma, per preservare i nuovi linguaggi dalle diffuse patologie catechistiche, è importante sapere che nessuna cristologia è universalmente “parlante” e che di nessuna formulazione occorre fare un idolo. Le nostre elaborazioni restano sempre approssimazioni.
La potenza originaria dei grandi simboli cristiani è andata perduta. Ora sono delle pietre di inciampo... L’impossibilità della persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi tutti i simboli cristiani... Essi hanno perso il potere di trafiggere l’anima...” .
Non possiamo sottrarci a questo impegno di ridire, con parole sia vecchie che nuove, l’evento della salvezza, l’amore di Dio per questo mondo. Non si tratta di maledire le istituzioni ecclesiastiche, ma di accettare il rischio che la fede nel Dio di Gesù ridiventi la più radicale messa in crisi anche della religione e della dogmatica ufficiale. Senza mai dimenticare che, per noi, ciò che è decisivo non è la nostra cristologia, ma la sequela di Gesù nella vita di ogni giorno. La teologia vive a servizio dell’amore, oppure è parola vana, vuota dottrina.

Dalle cristologie alla sequela di Gesù

La “partita” non è di poco conto. Infatti le formulazioni dogmatiche, venerate come sacre ed immutabili, sono diventate simili a tanti sarcofagi. Il Gesù “vivo” è così imbalsamato, mummificato, divinizzato da diventare un tale “oggetto di culto, spesso una specie d’icona dalla quale sono stati allontanati o appianati i tratti del profeta.
La freschezza dell’immagine autentica di Gesù sembra oggi sepolta sotto uno spesso strato di detriti. Il processo di divinizzazione ha un duplice effetto, soprattutto per la grande massa dei credenti: da una parte il fondatore, grazie ai rapporti del tutto eccezionali che gli sono attribuiti con la divinità, diviene un’autorità assoluta, il che consente nel gruppo dei suoi devoti il formarsi di un’alta autocoscienza e dello stretto vincolo interno a essa collegato. D’altra parte la divinizzazione costituisce un processo di liberazione. La comunità si sente liberata dall’impegno, non sempre facile, di seguire le orme del fondatore, proprio perché questi è divenuto Dio: un uomo infatti non può seriamente misurarsi con un essere che è, per definizione, un Dio, o almeno di origine divina.
Con la divinizzazione si opera una estraniazione, un allontanamento dal fondatore: proiettato nell’aldilà, egli può essere venerato, ma non veramente imitato.
Non appena l’originaria posizione del seguace si è trasformata in adorazione, l’opera del fondatore diviene un capitale sacro, precostituito, amministrato dalla casta sacerdotale.
La mania della dogmatizzazione ha prodotto frutti nefasti.
Vogliamo aprire il sarcofago, come milioni di donne e di uomini hanno fatto in questi secoli? Certo, la conoscenza storica è necessaria, ma una conoscenza puramente storica di Gesù diventa vuota e superflua, proprio se lo considera come un fenomeno ormai concluso. Si deve invece proporre una conoscenza che porti avanti il processo iniziato da Gesù, che cammini con lui. Gesù è un evento aperto, il testimone di Dio sempre da scoprire e da seguire con la sicurezza che la sua vita, la sua testimonianza e il suo messaggio costituiscono per noi cristiani/e la via di Dio nelle strade del mondo.