OLTRE IL VELO
RECENSIONE
DEL SAGGIO DI LEILA AHMED SULLA DONNA NELL'ISLAM DA MAOMETTO AGLI
AYATOLLAH
settembre 2003, Di Gabriella Gagliardo
Leila Ahmed "Oltre il velo", La nuova Italia, I edizione in lingua inglese: 1992
Docente in un paio di università americane, l'autrice ha un nome inconfondibilmente arabo e una preoccupazione: arginare l'ondata di razzismo antislamico che utilizza il discorso femminista e l'alibi della lotta all'oppressione femminile per giustificare l'aggressione ai paesi islamici. Questione di genere, questione nazionale anticoloniale e lotta di classe risultano inestricabilmente intrecciate in questa accurata ricostruzione storica, circoscritta all'Egitto, alla penisola arabica e ai paesi del Medio Oriente, a partire dalle civiltà mesopotamiche pre-islamiche, all'epoca in cui Maometto elaborò il nucleo della nuova religione, fino ai nostri giorni. L.A. intende dimostrare che la società islamica non fosse alle origini più misogena e oppressiva di quelle limitrofe, e che il suo sviluppo in senso negativo per le donne fu influenzato dall'assimilazione di tratti delle culture dei popoli via via conquistati, secondo dinamiche dovute alla lotta per il potere a cui una configurazione più androcentrica del patriarcato risultava funzionale. Fin dalle origini alcune donne che accolgono il messaggio spirituale dell'islam, svolgono un ruolo attivo e lottano contro la segregazione e le norme discriminatorie che successivamente l'elite al potere tenta di imporre alle donne. L'autrice rintraccia la testimonianza della resistenza delle donne fin dai testi sacri del Corano e degli hadith, racconti-testimonianze su Maometto tramandati dopo la sua morte da varie fonti, spesso dalle sue stesse mogli, e poi trasmessi oralmente prevalentemente da donne, fino alla loro selezione e trascrizione scritta in epoche successive in un canone "ufficiale". Diverse personalità femminili, sfruttando la propria posizione di classe, riescono ad imporre individualmente clausole nei contratti matrimoniali che le garantiscono dal rischio della poligamia e dei divorzi facili concessi ai mariti; altre proseguono nella tradizione antica di alcune tribù partecipando attivamente alla guerra o capeggiando rivolte armate contro fazioni islamiche nemiche.
Tuttavia l'autrice rileva il progressivo affermarsi dei meccanismi di segregazione delle donne, della poligamia e delle disposizioni giuridiche (contratti matrimoniali, diritto di famiglia, diritti economici e civili) sempre più oppressive e ingiuste, mentre altre consuetudini più favorevoli alle donne, sia nelle culture delle diverse tribù arabe tra cui opera Maometto e i suoi immediati discendenti, sia nelle culture dei popoli limitrofi via via conquistati, non vengono applicate, e i valori soggiacenti di uguaglianza, giustizia, pari dignità umana, sono relegati alla sfera spirituale. L'autrice giudica "sorprendente" la rapidità con cui i tratti culturali (idee e pratiche) misogeni si siano diffusi e affermati da una cultura all'altra, mentre i tratti favorevoli alle donne siano stati soffocati. Esula dalla sua indagine la spiegazione di questo fenomeno che è una delle questioni chiave della ricerca storica. Le preme semplicemente dimostrare che questa evoluzione non è connaturata all'Islam, come non lo è alle altre culture. I sistemi vigenti nel momento in cui si afferma l'Islam sono tutti sistemi patriarcali, e la loro evoluzione avrebbe potuto sviluppare l'implicito egualitarismo radicale presente nel giudaismo come nel cristianesimo, e infine nell'Islam, oppure le tendenze più androcentriche. Nei secoli precedenti la nascita dell'Islam una feroce misoginia ha prevalso nella cultura mediterranea, giudaica, greca, romana e cristiana: l'Islam l'ha incorporata, benchè la sua concezione etica sia "irriducibilmente egualitaria anche nei riguardi dei sessi".
La sconfitta storica delle donne è innegabile. Nell'evoluzione in senso fortemente misogeno delle società islamiche, infine, negli ultimi secoli hanno svolto un ruolo determinante il colonialismo europeo e lo sfruttamento imperialista. A questo proposito è ben documentata la politica inglese nei confronti dell'Egitto, e gli effetti delle scelte che hanno fortemente penalizzato l'istruzione e l'accesso al lavoro per tutti, e in modo particolarmente drammatico per le donne, proprio mentre a parole il governo inglese proclamava la necessità dell'emancipazione femminile dal giogo della cultura maschilista locale, allo scopo di giustificare l'oppressione dei movimenti nazionali di liberazione. Screditare la cultura locale e l'identità nazionale della popolazione e presentarsi come i paladini della democrazia, dei valori liberali e della liberazione della donna: un gioco già sperimentato dalla fine dell'Ottocento a cui l'Europa e l'Occidente ricorrono con successo fino ad oggi. Il discorso dei colonizzatori fa breccia anche tra i suoi detrattori e influenza il dibattito sulla questione femminile e le diverse correnti di pensiero, sia maschili sia specificamente femministe. Lo riconosciamo persino nei movimenti femministi in Medio Oriente, attivi fin dalla fine dell'Ottocento con posizioni talvolta filoccidentali, talvolta radicalmente anticoloniali e ancorati alla tradizione culturale nazionale. E persino nei contemporanei movimenti integralisti che esercitano un notevole fascino sulle giovanissime studentesse, pronte a riappropriarsi del velo in città moderne e dinamiche, come il Cairo, dove esso era stato ormai bandito da decenni.
I capitoli sui femminismi in Medio Oriente sono forse tra i più avvincenti perchè aprono una finestra su un mondo largamente ignorato nel nostro Paese. L'autrice indaga quasi esclusivamente sull'Egitto, e ricostruisce la storia del femminismo in tre fasce cronologiche: 1900-1930, 1950-1970, dagli anni '70 agli anni '80. All'inizio del '900 in Egitto sorsero diverse riviste femminili e numerose organizzazioni di donne intellettuali, che promuovevano cicli di conferenze all'Università e attività di beneficienza in campo sanitario. Le donne, aristocratiche, studentesse, dei settori popolari urbani e rurali, a partire dagli anni '10 e soprattutto durante la I guerra mondiale, parteciparono a lotte politiche, scioperi e sommosse contro la dominazione britannica. E in seguito raggiunsero visibilità le mogli degli esiliati delle classi alte, in grado di organizzare marce di protesta di centinaia di donne: le esponenti delle classi elevate apparivano in pubblico velate, le prostitute a volto scoperto, come da tradizione.
Fu in questi primi decenni che si delinearono le due correnti principali del femminismo. La predominante, era espressione delle classi elevate, occidentalizzante e laica. L'altra "cercava una via per affermare una specifica soggettività femminile all'interno di un discorso islamico, autoctono, e precisamente nei termini di un generale rinnovamento sociale, culturale e religioso, inteso come un processo rigeneratore per l'intera società, e non solo per le donne, i cui diritti non apparivano, pertanto, come l'unico e neppure l'obiettivo primario dellla riforma, ma come uno fra i tanti."
La principale esponente della prima corrente fu Sha'rawi che fondò l'Unione Femminista Egiziana e partecipò al congresso dell'Alleanza Mondiale Femminile a Roma nel maggio 1923. Nello stesso anno l'Egitto aveva ottenuto una sorta di "indipendenza" dagli inglesi, i quali avevano mantenuto però il diritto di controllo assoluto in alcuni campi, tra cui la difesa nazionale e la protezione degli interessi stranieri. L'Unione Femminista Egiziana lottò per il suffragio femminile e per riforme relative alle leggi sul matrimonio e sull'istruzione, ottenendo alcuni successi legislativi. Organizzò una scuola elementare femminile con tasse minime o nulle, formazione professionale per ragazze povere, e inviò giovani a studiare in università europee con borse di studio. Gestì un dispensario sanitario che si occupava di disturbi ginecologici e della gravidanza, oltre che di malattie intestinali e oculari. Ciò dimostra che, malgrado l'origine di classe delle promotrici dell'organizzazione, la sensibilità nei confronti delle masse era notevole. Sha'rawi tenne sempre stretti rapporti con le femministe occidentali ed utilizzò la sua esperienza per promuovere il femminismo arabo, a difesa della causa palestinese in particolare. Nel 1944 fu la prima presidente dell'Unione Femminista Araba, che riuniva donne di diversi paesi arabi. Sha'rawi era politicamente nazionalista e impegnata contro la dominazione britannica, aveva una visione laica dello stato e un orientamento culturale filoccidentale. A tredici anni aveva rotto il suo matrimonio, in aperta sfida al marito e alla famiglia. L.A. critica però la sua scarsa appartenenza alla cultura araba, al punto da non saper parlare e scrivere correntemente nella propria lingua, essendosi formata sui testi francesi.
La principale esponente della corrente allora minoritaria, fu Nassef (1886-1918). Era contraria all'abbandono del velo, che avrebbe esposto le donne ad aggressioni nelle strade: gli uomini egiziani erano troppo "corrotti" e le donne troppo "ignoranti" per un simile cambiamento. Nassef era infastidita dai discorsi sul velo degli uomini "con la loro pretesa di dettare alle donne come comportarsi" e dava priorità a questioni quali l'istruzione e le leggi sul matrimonio.
A cavallo tra le due metà del secolo, L.A. segnala l'attività politica delle donne identificandole in tre correnti: conservatrici radicali, nazionaliste e femministe islamiche; nazionaliste impegnate a favore dei diritti delle donne e per l'indipendenza; intellettuali di sinistra e comuniste. Nell'analisi delle posizioni e dell'opera delle due principali esponenti del femminismo anni '50, Zeinab al-Ghazali e Doria Shafik, L.A. utilizza lo schema già prospettato per il primo periodo: la prima rappresenta la corrente islamica, la seconda quella filoccidentale, che ora è diventata minoritaria. La valutazione delle loro rispettive posizioni risulta molto controversa. Al-Ghazali è molto vicina ai Fratelli Musulmani, che avrebbero anzi voluto inglobare la sua organizzazione, l'Associazione delle Donne Musulmane. Sul ruolo della donna ha posizioni, ai nostri occhi, molto conservatrici e L.A. rileva diverse contraddizioni, anche se apprezza la sua capacità di far valere i diritti delle donne all'interno della tradizione islamica che conosce approfonditamente.
D'altro canto Shafik, che fondò nel 1948 l'Unione delle Figlie del Nilo, utilizzò forme di lotta drammatiche come gli scioperi della fame a oltranza, e assusse posizioni "rigide" criticando anche Nasser come un dittatore, senza tener conto del consenso popolare di cui godeva. Finì denunciata pubblicamente come traditrice dalle sue stesse compagne e subì gli arresti domiciliari e diversi esaurimenti nervosi, fino a morire suicida nel 1976.
L.A. cita poi, quali esponenti femministe degli anni '50, '60 e '70, diverse scrittrici di romanzi, che affrontano argomenti tabù come la contraccezione e la clitoridectomia. Negli anni '70 e '80 inizia a diffondersi l'uso del velo: le prime avvisaglie dell'integralismo islamico vengono fatte risalire dagli studiosi al 1967, l'anno della sconfitta dell'Egitto da parte di Israele e del declinio di Nasser, della sua ideologia laica e del suo programma "socialista". Egli morì nel 1969 e i gruppi integralisti si rafforzarono sotto il regime di Sadat. Su quest'ultimo periodo, in cui le giovanissime universitarie vengono attratte nell'orbita dei movimenti integralisti, L.A. fornisce diverse osservazioni illuminanti per comprendere gli aspetti psicologici e sociali di questo fenomeno.
Le studentesse che aderiscono a queste organizzazioni provengono in grande parte dalle campagne e il livello di istruzione dei genitori, specialmente della madre, è basso. In città moderne e disgregate come Il Cairo, esse vivono sensi di inferiorità rispetto alle "cittadine" e rischiano l'isolamento. L'abbigliamento "islamico", che in realtà non recupera una reale tradizione ma reinventa una nuova "uniforme" in parte mutuata dagli abiti locali, in parte da quelli occidentali, le identifica subito come ragazze rispettabili, intellettuali, con un'identità culturale solida: i valori della famiglia d'origine, invece di essere fonte di vergogna, sono esibiti quale garanzia di appartenenza nazionale, mentre la loro origine di classe viene occultata dall'uniforme a buon mercato. E' proprio la protezione del velo che consente loro di circolare liberamente in ambienti altrimenti "pericolosi", di mostrarsi in pubblico a passeggiare e conversare con persone dell'altro sesso senza venire giudicate ragazze facili, e di trovarsi così da sole anche un marito, ora che non sono più le famiglie a provvedere alla scelta dello sposo. Gli uomini che le avvicinano non sono autorizzati a farsi illusioni sul loro conto: sanno che dovranno vedersela con intellettuali impegnate che discutono alla pari, e che magari sono disponibili per un matrimonio, non per facili relazioni. Queste ragazze realizzano in questo modo la propria emancipazione e possono permettersi di costruire rapporti camerateschi con i loro compagni. Dalle indagini - poche purtroppo - riportate dall'autrice, risulta che sia esse che gli studenti maschi delle stesse organizzazioni, ignorano quasi completamente le norme legali misogene che i loro movimenti vorrebbero riportare in vigore in Egitto e proclamano un'ingenua fiducia nei principi spirituali egualitari dell'Islam.Per un pubblico occidentale, la lettura dello studio di Ahmed ha l'effetto di produrre un certo senso di straniamento di fronte a procedimenti intellettuali molto simili a quelli applicati da intellettuali occidentali nell'identico intento di individuare possibili piste evolutive all'interno della propria cultura, in modo da superarne gli aspetti più odiosi e deleteri, e valorizzarne gli elementi progressivi. Ricorda soprattutto la preoccupazione delle tendenze cristiane femministe impegnate a dimostrare quanto la misoginia non sia connaturata al cristianesimo, ma sia da circoscrivere a una sua interpretazione teologica discutibile e da contestare, e sia il frutto di una evoluzione storica complessiva da analizzare con gli strumenti della moderna storiografia. Osservazioni senz'altro legittime e intellettualmente corrette, ma che pongono immediatamente una sequenza di altri problemi - a cominciare dalla questione del potere all'interno delle istituzioni religiose, alla questione della laicità dello stato e della radicale separazione della sfera religiosa da quella politica - che non possono essere ignorati, a meno di non rassegnarsi a fare il gioco di coloro che si vogliono contrastare.
Leila Ahmed prospetta quindi la possibilità di riformare dall'interno la cultura islamica affermando non solo nell'etica quanto nella politica e sul piano psico-sociale i diritti umani delle donne, così come accade nei paesi occidentali, in cui comunque vige tuttora un sistema patriarcale e asimmetrico nella relazione tra i sessi, sebbene la cultura dominante e i sistemi socio-politici abbiano dovuto accogliere almeno in parte le istanze delle donne. In Occidente le donne hanno combattuto e combattono il patriarcato, ma nessuno ha mai chiesto loro di rinunciare per questo alla loro cultura nazionale e di sostituirla con un'altra. Le donne occidentali hanno saputo sfruttare le idee e le istituzioni democratiche, prodotte dai maschi non certo in funzione delle donne. Grazie a questo la cultura occidentale appare oggi meno androcentrica, anche se "le idee e i diritti politici e civili sono altra cosa dai codici psicologici e culturali che regolano la vita di una società". Al contrario, il modello del femminismo europeo è stato posto come un'alternativa globale alla cultura d'origine per le donne dei paesi islamici, attraverso una propaganda deliberata in tal senso da parte delle potenze coloniali (il caso dell'Egitto colonia britannica ne è un chiaro esempio), influenzando alcune correnti femministe arabe guidate da intellettuali che avevano studiato all'estero, proprio mentre cresceva la coscienza anticoloniale e si organizzavano lotte per la liberazione nazionale. Il dibattito è stato posto nei termini che le potenze coloniali hanno stabilito, e ad esempio la questione del velo ha assunto il valore simbolico che le è stato conferito dal discorso dei dominatori e in questa trappola sono caduti tutti, sia coloro che lo rifiutavano come emblema della segregazione femminile, sia coloro che lo invocavano quale simbolo di una presunta tradizione islamica da contrapporre all'imposizione culturale dei dominatori occidentali. Paradossalmente, anche i detrattori del velo ne hanno proposto l'abrogazione per legge, con l'identica logica che ignora il diritto alla libera scelta individuale di ogni donna.
Un limite che ci sembra di riconoscere nel discorso di L.A. è insito nel suo moderatismo. L'insistenza sulla gradualità delle riforme, la cautela nel proporre innovazioni rispettose del grado di coscienza acquisito dalle masse, se da un lato sono giustificate come attenzione e rispetto nei confronti delle classi inferiori e del mondo contadino, dall'altra parte circoscrivono i limiti del contestabile. Perchè, ad esempio, presupporre che la cultura araba mediorientale debba evolvere all'interno di una visione religiosa islamica? Non può essa appropriarsi di altri tratti culturali, come la laicità dello stato e il rispetto di determinati diritti umani che attualmente non riconosce come propri, integrandoli nel proprio sistema, come ha sempre fatto nella storia integrando i tratti che di volta in volta le servivano? Il rispetto di determinati diritti umani, sia chiaro a scanso di equivoci, non è affatto dato neanche in Occidente, dove l'integralismo è sempre in agguato, disparità sociale e violenza permangono, e dove si pianificano sistematicamente atroci misfatti ai danni degli altri popoli del mondo. Gli integralisti islamici, osserva acutamente L.A., non sono affatto impermeabili ad alcuni valori dell'Occidente, solo che scelgono quelli che fanno loro comodo: la tecnologia e la mentalità capitalista. Le donne di qualsiasi area del mondo potrebbero scegliere i valori che, nel villaggio globale, riconoscono come i più validi per loro, senza per questo dover rinunciare in toto alla propria cultura di origine. La stessa L.A. cita Virginia Woolf, che affermava che l'Inghilterra apparteneva agli uomini, mentre le inglesi non avevano alcuna patria. La cita a proposito di un'altra femminista egiziana del '900, Ziyada, che morì "pazza" e suicida nel 1976 dopo una vita difficile di esilio interiore, per aver oltrepassato, come altre intellettuali, i limiti consentiti alle donne. I conflitti interiori, le crisi di identità, sono inevitabili per chi è oppresso all'interno della propria cultura che pure si vorrebbe affrancare dalla soggezione ad altre forze - la dominazione coloniale straniera, nel caso del mondo islamico; ma anche l'androcentrismo, componente-cardine di tutte le culture attualmente note. Queste crisi fanno parte del conflitto da agire. Un'adesione piena alla propria cultura nazionale, alla propria religione, ai valori della propria classe sociale, come potrebbe essere compatibile con un femminismo che non si accontenti di emendare gli eccessi dell'organizzazione androcentrica, ma pretenda di distruggerla radicalmente? Non è un problema delle femministe arabe, ma di ogni femminismo. Le comuniste, le cristiane, le militanti di organizzazioni miste (in cui sono presenti uomini e donne), le donne con diverse appartenenze, in una parola tutte, devono fare i conti con questo, e il confronto tra chi si muove in contesti molto diversi non può che aiutare ad aprire gli occhi.