STORIA DEL CARCERE IN ITALIA
UN APPROFONDIMENTO STORICO PER INQUADRARE COMPIUTAMENTE LA QUESTIONE DEL CARCERE FEMMINILE NEL CONTESTO INTERNAZIONALE


febbraio 2002, Di Maria Carla, Olga, Leila, Cristina del Martedì Femminista Autogestito


La ballata del carcere di Reading
Aveva in testa il berretto a visiera
E il suo passo appariva lieto e gaio
Ma non vidi mai alcuno guardare
Con tanta ansia la luce.
Non vidi mai alcuno guardare
Con tanta ansia negli occhi
L'esigua tenda azzurra
Che i carcerati chiamano cielo

Abbiamo voluto iniziare con questo scritto che O. Wilde elaborò nel 1895 quando era detenuto nel carcere di Reading, a scontare 2 anni di lavori forzati accusato di una relazione omosessuale con uno studente dell'Università dove insegnava.
Certo eravamo nella società borghese/vittoriana ma ancora oggi il carcere moderno conserva qualcosa del chiostro, del collegio, del reggimento nel momento in cui propone correzione, disciplina ed espiazione.
Ci sono altri luoghi dove si viene preparati ad essere compatibili con la formazione sociale di un dato periodo storico, luoghi quali la famiglia, la scuola, la fabbrica, la caserma attraverso cui si passa per essere normalizzati. Chi non ci riesce o non vuole verrà diviso/a dai normali e rinchiuso per essere corretto/a.
Uno dei meccanismi di correzione di cui si avvale il carcere è il lavoro poiché solo accettando la disciplina del lavoro e la conseguente disciplina del comportamento sociale si può essere reintegrati/e nel tessuto sociale o ancora meglio, nell'interesse generale della società che annulla l'interesse particolare cosicché il lavoro non risulta essere (come dovrebbe) attività umana creativa e diversificata che asseconda i desideri e gli intenti di ciascuno/a, ma attività astratta in quanto sottoposta al capitale che omologa le scelte di consumo e seleziona anche il campo delle relazioni.
Il lavoro in carcere ha attraversato fasi diverse a seconda della situazione del mercato del lavoro all'esterno e nello specifico negli USA, nonostante sia stato eliminato come lavoro produttivo nei penitenziari, è là rimasto come lavoro forzato ed afflittivo per educare alla disciplina.
Noi oggi riportiamo la storia del carcere italiano soffermandoci in particolare sul carcere femminile e su quello minorile.
I meccanismi di controllo e repressione di cui il carcere è il perno, sono diversi da paese a paese perché collegati a molti fattori: disordini sociali, sistemi politici, benessere economico, conflitti di classe, servizi sociali erogati. Allo stato attuale, si può dire che in Europa i sistemi di controllo e le forme legislative cominciano a parificarsi prendendo a prestito, dalla storia di ogni paese, le risposte emergenziali date a conflitti sociali. L'Italia, nei decenni che seguono il dopoguerra, ha vissuto un alto livello di scontro di classe che ha prodotto, sul piano della risposta statuale, carceri speciali ed una legislazione d'emergenza (che verrà dopo spiegata). Sostanzialmente, il carcere in Italia si è basato su una logica custodialista, ovvero in carcere si entra per restare, per soffrire e per essere degradati a cose.

Nel 1890 entra in vigore il Codice Zanardelli del Regno d'Italia che abolisce la pena di morte. Questa verrà reintrodotta dal fascismo, per cui la repressione, oltre ad avere un carattere sovrastrutturale, era un'esigenza di politica economico sociale, così che divenne repressione di massa.
Nel 1926 si approva la nuova legge di pubblica sicurezza che introduce il confino di polizia tuttora vigente.
Nel 1930 è approvato il Codice Penale Rocco, tuttora vigente con lo specifico dell'art. 270 che istituisce il reato politico di associazione sovversiva tuttora largamente applicato.
Nel 1931 è approvato il regolamento penitenziario che, tra i vari obblighi, indicava ai detenuti di restare in piedi, sull'attenti, quando in cella entrava il personale carcerario.
Nello stesso anno, è approvato il codice di procedura penale che garantiva l'impunità agli agenti di Pubblica Sicurezza per fatti compiuti in servizio.
Nel 1934 nasce il Tribunale per i minorenni. Negli anni successivi al secondo dopoguerra rimase in piedi il regolamento carcerario fascista del 1931.
Ed è sulle speranze maturate con la repubblica antifascista che iniziano le rivolte carcerarie. La prima è datata 1947, poco dopo l'amnistia che condonava tutti i delitti compiuti dai fascisti.
Nel 1950 è abrogata una norma che prevedeva il taglio dei capelli ed il numero di matricola, al posto del nome del/la detenuto/a.

Tra il '50 e il '60, in corrispondenza dello sviluppo economico accelerato ed una ridistribuzione delle ricchezza, la quantità generale dei reati cala, ma cambiano le tipologie di reato.
E' la fine degli anni '60: la nuova stagione di lotte operaie e studentesche esplode anche all'interno del carcere; i/le detenuti/e cominciano ad acquistare la coscienza di essere una frazione del proletariato sfruttato che, solo nella lotta collettiva può trovare il suo riscatto, così che le prime insubordinazioni vivacizzano le gerarchie malavitose e mafiose che spesso garantivano dentro il carcere ordine ed assenza di conflittualità.
La prima rivolta carceraria è del '69 alle "Nuove" di Torino, città operaia in cui qualche mese prima era avvenuta la prima occupazione universitaria. Il movimento di lotta dei/delle detenuti/e proseguì per anni nelle carceri delle più grandi città italiane. Si denunciavano le condizioni di vita ed i regolamenti interni varati sotto il fascismo.
La risposta alle rivolte è durissima con i trasferimenti de/delle detenuti/e nei carceri punitivi ed in manicomi giudiziari. L'altra risposta è quella legislativa del 1975 con la Riforma numero 354 che cancella l'ordinamento fascista. La riforma manifesta la mancanza di coraggio civile a rompere pienamente gli ordinamenti fascisti ed inoltre non realizza il coinvolgimento del tessuto sociale verso le questioni carcerarie. Il carcere continua a restare "cosa separata dal mondo" e che trasgredisce dovrà ancora essere punito. La riforma contiene anche l'articolo 90 che azzera la legge stessa concedendo la Governo di sospendere le regole trattamentali: sospensione di corrispondenza epistolare interna, censura per la corrispondenza esterna, sospensione di tutte le attività culturali, sportive e ricreative, delle comunicazioni telefoniche con i famigliari, dei pacchi di vestiario e cibo, dei colloqui con i propri cari. L'articolo 90 ampiamente utilizzato nelle carceri speciali sarà abolito nel 1986.
Nel '75, in contemporanea con la Riforma penitenziaria, è varata la Legge Reale, che concede alle forze di polizia di trattenere i fermati per accertamenti, di operare perquisizioni domiciliari senza autorizzazione del magistrato, di lasciare impuniti gli agenti che compiono reati inerenti al servizio; la legge viola l'articolo 13 della Costituzione italiana che afferma "la libertà personale è inviolabile".
Siamo in un momento storico caratterizzato da un forte conflitto sociale a cui si risponde con gli arresti di persone solo sospettate di appartenere a gruppi armati. Nel 1977 il sistema carcerario italiano si connota di un doppio circuito: uno normale per la massa di detenuti/e ed uno speciale per i/le politici/e e i/le comuni più combattivi/e.
Vengono riaperte carceri che si ritrovano nelle isolette del Mediterraneo e nuove carceri verranno costruite tra il '77 e l'81 in tutto 13 (10 maschili e 3 femminili).
Negli speciali si sperimentano tecniche di deprivazione sensoriale al fine di disgregare la personalità del/la prigioniero/a, isolamento individuale o in piccoli gruppi da trascorrere per 22 in cella e due ore in un cubo di cemento da cui si può vedere solo il cielo. Interposizioni di vetri e citofoni che alterano il timbro della voce ai colloqui con i familiari.
Tra il '77 e l'80 sono varati diversi decreti antiterrorismo detti leggi Cossiga, che stabiliscono aumenti di pena di oltre la metà per reati compiuti con finalità di terrorismo, aumenti di pena per reati associativi e facilitazioni per chi si dissocia dai gruppi armati denunciando i/le propri/e compagni/e.
La legislazione emergenziale si arricchì di altri provvedimenti nel corso degli anni '70: decreto ministeriale del '72 che istituzionalizzava i "braccetti di massimo isolamento" dove venivano rinchiusi i/le prigionieri/e politici ritenuti pericolosi a cui erano sospesi elementari diritti dei detenuti/e: non possibilità di acquistare generi alimentari e di conforto, sospensione dei pacchi esterni, non partecipazione alla gestione delle biblioteche e delle attività ricreative e sportive, permanenza all'aria di sei ore settimanali non continue, impossibilità di svolgere attività all'interno del carcere, sospensione dei colloqui telefonici e della visione della tv, non possibilità di ricevere o acquistare giornali e riviste, e l'ascolto di radio con modulazione di frequenza, un solo colloquio al mese con i familiari.
Dello stesso anno è la legge numero 304 detta "Sulla dissociazione" che prevedeva forti sconti di pene non per chi denunciava i/le propri/e compagni/e, bensì per chi abiurava la passata militanza e prendeva le distanze dalla ideologia di riferimento.
Vogliamo a questo punto riportare alcune cifre della stagione delle rivolte in Italia negli anni '70 e '80, per parlare di due altre leggi che hanno, in parte, trasformato il carcere.
6000 inquisiti/e per lotta armata o attività sovversive
4200 incarcerati/e per banda armata o associazione sovversiva, che hanno trascorso in detenzione, una media di 16 anni a testa
224 sono ancora in reclusione totale o parziale (oppure svolgono delle attività lavorative esterne)
190 sono i/le detenuti/e di cui un centinaio rifugiati in Francia con statuto speciale di esuli

Nel 1986 è varata la legge 663 detta Gozzini che doveva essere la "riforma delle riforme", ovvero doveva cercare di correggere le incompetenze della Riforma del '75. La Gozzini verrà svuotata di senso nel dibattito parlamentare così che risultava non più la legge che avrebbe permesso un graduale reinserimento sociale dei/delle detenuti/e attraverso un'attività lavorativa esterna e le riprese dei legami parentali ed amicali, ma una legge che "prevedeva", cioè concedeva, la possibilità di accedere all'esterno grazie ad uno "scambio", ossia i/le detenuti/e dovevano accettare il sistema carcerario così com'è per poterne uscire. Tuttora, il /la detenuto/a deve fingere l'accettazione e preoccuparsi individualmente di tessere relazioni con le associazioni di volontariato che operano nelle strutture carcerarie. Ne ricordiamo due: la Caritas di ispirazione cattolica e l'Arci, a suo tempo legata all'ex Pci. Inoltre, una volta fuori, il/la detenuto/a lavora sottopagato pur di poter riprendere le relazioni sociali esterne.
L'ultima legge parlamentare è del 1997, detta Simeoni. Questa legge si è posta contro la campagna forcaiola condotta sui mass media in merito alle scarcerazioni facili (a tal proposito ricordiamo che l'Italia è tra i paesi europei quello dove si espiano le pene quasi per intero e dove le evasioni sono in numero più basso) ma è rimasta ancorata alla logica premiale e quindi all'operato dei Magistrati di sorveglianza che, nel concedere i benefici, si avvalgono dei verbali di polizia e non di quelli dei servizi sociali. Le misure alternative al carcere, non sono in Italia, di fatto, applicate.
Allo stato attuale sono più di 50mila i/le detenuti/e nelle carceri italiane e di questi/e abbiamo al primo posto i tossicodipendenti, in maggioranza sieropositivi, e al secondo gli/le immigrati/e. Gli/le immigrati/e che si trovano in Italia sono inoltre vittime di altre misure repressive, ovvero di essere portati, se trovati privi di permesso di soggiorno, nei Centri di Accoglienza Temporanei, dove possono restare a tempo indeterminato privati dei più elementari diritti, in attesa di essere espulsi dall'Italia.

Possiamo certamente concludere dicendo che oggi il carcere è il luogo dove si trovano i soggetti più deboli e meno tutelati socialmente ed il carcere resta il posto oscuro dove ognuna può rinchiudere la rappresentazione del suo nemico principale, le proprie frustrazioni, le paure ancestrali, l'odio per il/la ribelle che ha osato sfidare l'ordine costituito.