CARCERE FEMMINILE
UNA RIFLESSIONE CHE PONE DOMANDE DI FONDO SULLA PENA A PARTIRE DALLA STORIA E DAI DATI ATTUALI


febbraio 2002, Dal Martedì Femminista Autogestito

Non dimenticare
di chiudere le porte
ed aprirle
quando lascerai
queste mura
Non dimenticare
di incollare le buste
non avrai più censure
Non dimenticare
di lavarti
e di mangiare
Non dovrai più chiedere
l'ora
Non dimenticare
di ricordare
come si comunica
senza farsi scoprire
Non dimenticarti
di scrivere
Non dimenticarti
di scegliere
lame adatte
al rancore.

Geraldina Colotti

 

La storia del carcere femminile non è mai stata veramente ricostruita da nessuna storica, criminologa, sociologa, soprattutto non è mai stata ricostruita dal pensiero femminista, poichè, così come è accaduto per il carcere minorile, ad occuparsi di carcere sono state, inizialmente, associazioni volontarie di donne colte e cattoliche che, spinte da un motivo filantropico, si proponevano di proteggere soggetti considerati fragili e perduti nel vizio, poichè esse erano pervase dalla logica moralistica maschile che tuttora guarda alle donne come a soggetti incapaci di commettere reati e capaci solo di commettere errori, sbagli, che hanno poi un costo penale. Fu proprio il nascente movimento delle donne che, in Inghilterra, chiese l'istituzione di carceri femminili che venissero gestiti da altre donne in modo che le detenute potessero essere protette dalla brutalità delle guardie maschili. Si ottenne una diversa forma di violenza che, sostanzialmente, disciplinò le donne della working class poichè da quel contesto le donne ree provenivano.
In tempi più lontani, donne e minori erano lasciati/e alla violenza di detenuti e guardie, ma effettivamente, donne, minori e matti erano in maggioranza internati in conventi dove si ritrovavano insieme poche donne che avevano commesso reati (quasi sempre furti, infanticidi e omicidi del padre o del marito) e molte donne che avevano tradito il marito, abbandonati i figli, che avevano mendicato o che si erano prostituite. Vogliamo ricordare che sotto il fascismo mendicare era un reato e l'esercizio della prostituzione non più un reato nel nostro paese dal 1958; inoltre fino al 1990, nonostante la riforma del '75, le superiori delle agenti penitenziarie erano le suore cattoliche, che hanno gestito la detenzione femminile per svariati secoli. La riforma del '75 ha sconvolto questo mondo ed ha, in modo criticabile, avvicinato l'universo carcerario maschile a quello femminile, nel senso che quest'ultimo è stato laicizzato ed il primo ha assunto caratteristiche rieducative che permettono non tanto la risocializzazione ma la rigenerazione morale del reo. Alle rivolte che precedettero la riforma del '75 non parteciparono le detenute che erano poche e sparse in diversi carceri italiani e quindi impossibilitate ad organizzarsi. L'unica rivolta si ebbe nel 1976 al San Vittore di Milano, seguita da un documento di richieste di cambiamento di vita interna che le detenute comuni, insieme alle detenute politiche, inoltrarono all'attenzione delle parlamentari degli ex partiti socialista e comunista. La risposta alle loro domande arrivò alla fine degli anni '80, con una indagine parlamentare che andò a verificare le condizioni in cui le donne vivevano nelle carceri. In quella occasione si appurò che le detenute non accedono facilmente a tutte le agevolazioni previste dalle due riforme, del '75 e dell'86, poichè nelle carceri e nelle sezioni femminili vi è molto spazio, vi sono poche detenute ma non si svolgono nè attività ricreative e culturali, nè attività formative, né attività risocializzanti per mancanza di operatrici/ori, di volontarie/i, di fondi pubblici e di progetti. L'arrivo delle detenute politiche nelle carceri comuni dalla fine degli anni '60 in poi, portò ad un salto di qualità nei termini di discussione sul carcere in generale ma non sulla detenzione femminile in particolare, nonostante i cambiamenti di tipologia di reati avvenuti nel corso degli anni '70 e '80. A questo proposito vogliamo fornire alcune cifre che rimandano a molti quesiti. Nel corso degli anni che vanno dalla fine della 2° guerra mondiale ad oggi, la percentuale di donne detenute è rimasta immutata, sono il 5% della popolazione detenuta e sono sparse nelle sezioni femminili dei carceri maschili ed in 6 carceri femminili che si trovano tutti, tranne uno, nel centro/sud dell'Italia; invece la percentuale delle donne recluse nei manicomi (chiusi in Italia nel 1978 con la L.180 detta Basaglia ed oggi oggetto di controriforma) e negli OPG manicomi giudiziari tuttora esistenti, è maggiore della presenza maschile. Il 33% sono detenute per reati legati alle tossicodipendenze, sono molto giovani e sono percentualmente più degli uomini detenuti per gli stessi reati, le donne detenute per traffico di stupefacenti sono quasi tutte straniere, le tossicodipendenti in maggioranza italiane. Il 22% ha
commesso reati contro il patrimonio, si tratta di donne relativamente giovani che hanno cercato di raggiungere un'autonomia economica lontano dalla famiglia o devono sobbarcarsi l'onere dei figli piccoli senza un compagno e senza il sostegno dei servizi sociali; il 12% ha commesso reati contro le persone, è questa una percentuale bassa rispetto a quella degli uomini rinchiusi per gli stessi reati. 33 donne sono dentro per reati mafiosi ed anche questo è un dato particolare perchè le donne della mafia hanno coperto sempre e solo un ruolo di madri e mogli esemplari. Il 50% delle detenute ha figli con cui hanno spezzato una relazione e molte di loro, in particolare donne zingare, hanno bambini sotto i 3 anni che vivono con loro la detenzione. La questione mamma detenuta/figlia propone una visione chiara del carcere, cioè un luogo che offre una immagine speculare in cui, si riflette ribaltato, tutto quello che viene imposto come valore positivo nel sociale e l'esempio storicamente più noto è quello del ruolo della madre. Tenendoli ambedue detenuti (madre e figlia) si riconferma il rapporto simbiotico ma spogliandolo di tutto e facendolo vivere nel completo isolamento, dove la sola dimensione della donna è specchiarsi nel bambino in un rapporto di reciproca oppressione. Nel corso degli anni si è intervenuti con nuovi strumenti di legge che hanno permesso a madri e bambini/e di vivere la detenzione in case famiglia o nella propria abitazione; noi vogliamo qui riportare un caso emblematico che ha fatto incontrare per un momento alcuni soggetti: il movimento delle donne, le donne dei gruppi armati e le detenute comuni. E' il caso di Franca Salerno, ex militante dei NAP (Nuclei Armati Proletari) oramai in libertà dopo aver scontato più di 15 anni di reclusione, che in carcere partorì suo figlio. Poichè viveva una gravidanza a rischio di morte, per sè e per il nascituro, si portò avanti una battaglia per un adeguato trattamento sanitario. Un altro episodio emblematico è la battaglia per la chiusura del carcere di Voghera, battaglia portata avanti da diversi movimenti, incluso il movimento femminista, che hanno caratterizzato la lunga stagione di lotte che in Italia si è protratta dal '68 al '78.

Il carcere di Voghera (cittadina del nord Italia) nacque come carcere speciale esclusivamente femminile, dove furono sperimentate particolari tecniche di deprivazione sensoriale. Dentro il carcere non era consentito nessun tipo di attività, si era costrette a restare 24 ore chiuse in cella, in isolamento, non si potevano spedire o ricevere nè lettere nè pacchi, non si poteva usare un fornelletto in cella, non si potevano leggere libri o riviste, che si potevano solo aquistare, le luci interne erano accese giorno e notte e i muri erano insonorizzati, i locali docce erano provvisti di telecamere. Furono aboliti solo alcuni divieti e Voghera ebbe anche una sezione maschile. L'ultimo argomento che qui proponiamo, lo prendiamo a prestito da una sociologa italiana Tamar Pitch che si è ampiamente occupata di carceri minorili e femminili. Constatando che il carcere femminile è diverso da quello maschile, ci si chiede: quale pena si addice alle donne? Domanda che rimanda ad un'altra questione : ci deve essere pena? Ci deve essere carcere? Problemi che noi intendiamo solamente suscitare e non risolvere. Quale pena? La stessa che vale per gli uomini, diversa da quella che si applica agli uomini, la stessa che vale per uomini e donne?

Nel primo caso il maschile è considerato norma a cui adeguarsi, così che, quando le donne pongono la questione dell'uguaglianza vengono assimilate alla norma maschile. Nel caso della pena le donne chiedono di essere giudicate per i reati commessi e non per i loro comportamenti che sono definiti patologici. Chiedono inoltre di avere le stesse opzioni risocializzanti degli uomini. Queste domande rimandano ad altre due questioni : quando si giudicano i reati e non i comportamenti si allunga il tempo del carcere, quando si parla di opzioni risocializzanti, bisognerebbe mettere innanzitutto in discussione il loro carattere premiale. Nel secondo caso, si assume che l'intero sistema giustizia sia maschile sia rispetto al personale lavorativo che all'utenza. Se si incappa nel sistema maschile si è sottoposte ad una sofferenza aggiuntiva, perchè non verrebbero prese in considerazione le circostanze particolari in cui le donne commettono reati. In questo caso l'uguaglianza è fonte di ulteriore disuguaglianza. Nel terzo caso si muove da una critica riguardante due modelli criminologici statunitensi: il justice model formalista, retributivo, che guarda ai diritti ed è maggiormente interiorizzato dagli uomini, ed il care model, orientato alla rieducazione ed alla presa in carico che guarda all'etica della responsabilità di cui sarebbero portatrici le donne. Il primo modello è garantista ma severo, il secondo è discrezionale e deresponsabilizzante. In realtà i due modelli interagiscono e si supportano quando si passa all'astrattezza del soggetto penalmente responsabile all'applicazione della pena ed allora così come avviene per matti, minori e donne, anche per gli uomini adulti si tiene conto non del reato ma del colore della pelle, della loro età, del contesto sociale da cui si proviene, e questo è ciò che la critica femminista americana ha voluto mettere in luce. In Italia il care model ha sotteso le riforme penitenziarie ('75 ed '86) nel senso che ha favorito la logica dell'utilizzo di permessi premi che dovrebbero essere diritti e sono elargiti solo per buona condotta: questo regime premiale ha esteso agli uomini ciò che era stato costruito per donne, minori e matti, nel senso che ha prodotto un trattamento differenziale che tiene conto del sesso, dell'età, dello stato di salute, delle circostanze in cui è avvenuto il reato e, soprattuto dell'adesione al trattamento da parte del/la detenuta ed è quindi discrezionale e poco garantista.
Tutti gli elementi elencati, invece di sottrarre liberta, dovrebbero concretizzarla per tutte/i, se si ponesse effettivamente la questione alternativa al carcere, poichè ciò che finora d'alternativo ad esso è stato pensato, non l'ha sostituito ma si è solo aggiunto. Bisognerebbe cominciare a pensare a sentenze di condanna senza carcere, ossia a potenziare le offerte alternative sganciandole dalla logica premiale.