IL DOMINIO MASCHILE
RECENSIONE-RIASSUNTO
DEL SAGGIO DI PIERRE BOURDIEU EDITO DA FELTRINELLI, 1998
settembre 2000, IEMANJA'
L'oggetto di questo saggio sociologico-antropologico è, come enuncia il titolo, il dominio maschile.
L'autore parte da una constatazione: l'ordine del mondo così com'è, con i suoi obblighi e le sue sanzioni, con i suoi rapporti di dominio, i suoi diritti e i suoi abusi, i suoi privilegi e le sue ingiustizie, si perpetua abbastanza facilmente, e le condizioni d'esistenza più intollerabili possono apparire spesso accettabili e persino naturali.
L'antropologo non può non vedere anche la "straordinaria autonomia delle strutture sessuali rispetto a quelle economiche", tale da permettere il perpetuarsi del dominio maschile attraverso i secoli malgrado le travolgenti trasformazioni dei modi di produzione e delle organizzazioni sociali.
L'esistenza dell'oppressione di classe viene data per scontato, come un dato ben cosciente tra gli ipotetici lettori a cui questo saggio è rivolto, ma correttamente le osservazioni relative ai comportamenti delle donne nelle società americana ed europea contemporanee vengono contestualizzate rispetto all'appartenenza a una o all'altra determinata classe sociale.
L'analisi viene quindi focalizzata su un'altra dimensione dell'oppressione: quella simbolica. Questa chiave di lettura può facilitare la comprensione di tutte quelle dinamiche di dominio non riducibili a una lettura economicista: il razzismo, l'omofobia, l'oppressione nazionale, e così via.
Il dominio maschile è "l'esempio per eccellenza di questa sottomissione paradossale".
L'autore sostiene che la sottomissione sia effetto della "violenza simbolica", una forma di violenza che si esercita in modo invisibile "essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza". Per svelarne i meccanismi, analizza le strutture di una società distante dalla cultura europea, quella dei berberi di Cabilia, nell'Algeria contemporanea, individuando di volta in volta tratti culturali che svolgono funzioni analoghe nelle nostre società occidentali.
L'intento dichiarato è quello di svolgere un'analisi materialista "dell'economia dei beni simbolici".
"Simbolici" va qui inteso non come "astratti": ordine simbolico, violenza simbolica, capitale simbolico, mercato dei beni simbolici, forza simbolica, sono espressioni che indicano realtà effettive proprie dell'esperienza soggettiva dei rapporti di dominio.
L'ordine simbolico su cui si fonda la cultura cabila, e non solo quella!, è organizzato intorno alle opposizioni maschile/femminile che forniscono la struttura di pensiero attraverso cui percepire, cogliere, comprendere l'intero universo.
Lo spazio, il tempo, il cosmo vengono percepiti secondo schemi di opposizione tra maschile e femminile. Ad esempio: alto/basso, secco/umido, duro/molle, fuori/dentro, sopra/sotto, giorno/notte, luce/buio, attivo/passivo, sole/luna, fuoco/acqua, e così via, secondo una logica talmente universale da apparire naturale.
"Questi schemi di pensiero, di applicazione universale, registrano come differenze di natura, inscritte nell'oggettività, scarti e tratti distintivi (in materia corporea per esempio) che essi stessi contribuiscono a far esistere e contemporaneamente "naturalizzano" inscrivendoli in un sistema di differenze, tutte altrettanto naturali all'apparenza. Ne deriva che le anticipazioni generate da tali schemi vengono incessantemente confermate dal corso del mondo, da tutti i cicli biologici e cosmici in particolare." (pag. 16). Alla radice di tali schemi, invece, c'è il rapporto sociale di dominio che si è affermato storicamente e che si mantiene a costo di un incessante lavoro di riproduzione delle strutture sociali e delle attività produttive e riproduttive organizzate secondo la divisione sessuale del lavoro. La differenziazione dei generi maschile e femminile è quindi una costruzione sociale arbitraria, perseguita costantemente attraverso la riproduzione di schemi di pensiero che oppongono maschile e femminile.
La divisione dei sessi trae la sua forza dal sembrare naturale, nell'ordine delle cose, dall'apparire così ovvia da non dover essere giustificata. Le presunte strutture "oggettive" della realtà, cioè le strutture sociali determinatesi storicamente, concordano con le strutture cognitive, cioè con gli schemi di pensiero, di percezione, con cui vengono osservate, proprio perché sono quelle strutture sociali che hanno imposto quelle strutture cognitive, e continuano a forgiarle in forma precocissima e continua in tutti i soggetti. I dominati guardano il mondo dal punto di vista dei dominatori: la loro conoscenza si risolve in un ri-conoscere l'ordine dato secondo gli schemi appresi, in un rovesciamento di cause ed effetti.
Si instaura "un rapporto di causalità circolare che rinchiude il pensiero nell'evidenza di rapporti di dominio inscritti a un tempo nell'oggettività, sotto forma di divisioni oggettive, e nella soggettività, sotto forma di schemi cognitivi che, organizzati secondo tali divisioni, organizzano la percezione di quelle divisioni oggettive." (pag.20)
Non è possibile allora agli oppressi, nel nostro caso alle donne, sviluppare una propria conoscenza, un proprio punto di vista, proprie categorie di interpretazione del reale in una prospettiva di liberazione?
L'autore parla a questo proposito di "lotta cognitiva", ma ciò che gli preme sottolineare è la difficoltà di questa operazione:
"Quando i dominati applicano a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del dominio o, in altri termini, quando i loro pensieri e le loro percezioni sono strutturati conformemente alle strutture stesse del rapporto di dominio che subiscono, i loro atti di conoscenza sono, inevitabilmente, atti di riconoscenza, di sottomissione c'è sempre posto per una lotta cognitiva sul senso delle cose del mondo e in particolare delle realtà sessualiuna possibilità di resistenza contro l'effetto dell'imposizione simbolica."
Più avanti (pag. 50) l'autore torna a precisare che "è del tutto illusorio che la violenza simbolica possa essere vinta con le sole armi della coscienza e della volontà". Ancora più ingenuo è addebitare l'oppressione solo alle costrizioni esterne: "quando i vincoli esterni vengono meno e le libertà formali diritto di voto, diritto all'educazione, accesso a tutte le professioni, anche politiche- sono acquisite, l'autoesclusione e la "vocazione" finiscono col sostituirsi all'esclusione dichiarata: l'espulsione dai luoghi pubblici" diventa "agorafobia socialmente imposta che può sopravvivere a lungo all'abolizione degli interdetti più visibili e porta le donne a escludersi spontaneamente dall'agorà."
Il potere infatti sarebbe "inscritto durevolmente nel corpo dei dominati sotto forma di schemi di percezione e di disposizioni (ad ammirare, rispettare, amare, ecc.) che rendono sensibili a certe manifestazioni simboliche del potere". Mentre "il riconoscimento del dominio presuppone sempre un atto di conoscenza, ciò non significa affatto che si abbia ragione di descriverlo nel linguaggio della coscienza". La questione che oppone costrizione e consenso è mal posta, bisogna invece fare un'analisi delle limitazioni delle possibilità di pensiero e di azione che il dominio impone alle oppresse.
La tesi dell'autore è quindi la seguente: "Poiché il fondamento della violenza simbolica risiede non in coscienze mistificate che sarebbe sufficiente illuminare, bensì in disposizioni adattate alle strutture di dominio di cui sono il prodotto, ci si può attendere una rottura del rapporto di complicità che le vittime del dominio simbolico stabiliscono con i dominanti solo da una trasformazione radicale delle condizioni sociali di produzione delle disposizioni che portano i dominati ad assumere sui dominanti e su se stessi il punto di vista dei dominanti". Bisognerebbe quindi trasformare "la struttura del mercato dei beni simbolici" (pag. 53)
Ma cos'è questo "mercato dei beni simbolici"? Questo concetto fa riferimento agli studi antropologici sugli scambi tra le diverse tribù che compongono popoli a livello etnologico. In queste economie precapitaliste è molto evidente che il valore delle merci scambiate non può essere misurato secondo le categorie dell'economia occidentale. L'antropologo Levi Strauss ha il merito di avere scoperto per primo che il principale bene oggetto di scambio tra le tribù conosciute sono le donne, che circolano tra i gruppi sanzionando alleanze e rapporti tra i maschi. Il tabù dell'incesto, nelle sue varie versioni, regola questi scambi. Tutta l'organizzazione familiare, sociale, economica dei gruppi ruota intorno a queste transazioni in cui gli uomini sono i soggetti e le donne l'oggetto di scambio. Il valore di questo bene è certamente materiale ma anche fortemente simbolico. L'autore lo esamina in riferimento alla società cabila, mostrando il legame tra corpo ed etica (valori morali/portamento/abbigliamento/verginità/"vocazione"/eccetera) e sottolineando come attraverso il matrimonio l'uomo possa accrescere, salvaguardare, rischiare il proprio capitale simbolico che gli garantisce uno status di fronte alla società cabila.
Tutto il lavoro di socializzazione delle ragazze tende a imporre loro dei limiti che riguardano il corpo: l'atteggiamento "corretto" è infatti inseparabilmente corporeo e morale.
Gli atti di conoscenza e di riconoscimento dei limiti imposti assumono spesso la forma di emozioni fisiche, come vergogna, umiliazione, timidezza, ansia, senso di colpa, o la forma di passioni e sentimenti, quali amore, ammirazione, rispetto. Tali emozioni si manifestano spesso fisicamente, attraverso rossori, balbettii, goffaggine, tremiti, rabbia impotente, tutti modi di riconoscere e quindi sottomettersi al giudizio dominante, vincendo la resistenza del proprio corpo, magari a prezzo della scissione dell'io.
L'apprendimento è silenzioso: si impone essenzialmente attraverso una disciplina di ogni istante, che investe tutte le parti del corpo, attraverso i vincoli dell'abbigliamento e dell'acconciatura, nei diversi modi di atteggiare il corpo, di camminare, di volgere lo sguardo. Come se la femminilità si misurasse dall'arte di "farsi piccola", le donne restano chiuse in una sorta di recinto invisibile, di cui il velo è solo la manifestazione visibile. Il confinamento simbolico non si limita a dissimulare il corpo perché venga nascosto dai vestiti, ma lo richiama continuamente all'ordine. Una cosa non poi molto dissimile da quanto accade nei paesi occidentali, senza alcun bisogno di veli, quando ci si trova a camminare su tacchi altissimi, con gonne strette, scollature vertiginose e la preoccupazione continua di aggiustarsi addosso i vestiti troppo succinti perché non scoprano il corpo al di là dei limiti consentiti. I modi di atteggiare il corpo vengono infatti ugualmente associati al contegno morale, e l'esibizione controllata del corpo che si offre e si nega, è tale da fare onore agli uomini al cui punto di vista si subordina.
"Le donne esistono innanzitutto per e attraverso lo sguardo degli altri, cioè in quanto oggetti attraenti, accoglienti, disponibilie la pretesa femminilità non è spesso altro che una forma di compiacenza nei confronti delle attese maschili, reali o supposte, soprattutto in materia di esaltazione dell'ego." (pag.80)
Il mercato dei beni simbolici è quello quindi in cui gli uomini si misurano, si scambiano riconoscimenti e onori, si valutano, disputano i loro giochi di potere, prestigio, riconoscimento delle gerarchie. Alle donne, con tutto ciò che concorre alla loro apparenza, è affidato il capitale simbolico della famiglia, la gestione della sua immagine pubblica, la sua rispettabilità etica-estetica. Le donne si fanno strumenti di esibizione del capitale simbolico.
I rapporti sociali di dominio vengono inscritti nei corpi, somatizzati. Il corpo viene socialmente differenziato in maschile o femminile, e questo avviene solo in minima parte per mezzo di un'azione pedagogica esplicita ed espressa. Sono infatti molto più efficaci le ingiunzioni tacite presenti nella routine dei riti, collettivi e privati, e nella divisione del lavoro. "Si pensi ad esempio ai comportamenti che le donne devono osservare per tenersi in disparte, per via della loro esclusione dai luoghi maschili"(pag. 33).
Anche nelle società dove sono da lungo tempo scomparsi i divieti formali che impedivano alle donne di accedere a determinate occupazioni, si osserva la tendenza di massa delle donne a "scegliere" mestieri e professioni consoni con la "vocazione" femminile. Sottomissione, gentilezza, docilità, devozione e abnegazione, disposizioni ritenute prettamente femminili, incontrano felicemente le corrispondenti possibilità lavorative a cui le donne hanno la possibilità di accedere. Il posto di lavoro autorizza e favorisce certe condotte, sessualmente connotate. "Il mondo del lavoro è così pieno di piccoli isolati professionali, reparto ospedaliero, ufficio ministeriale ecc., che funzionano come quasi-famiglie in cui il caporeparto, quasi sempre un uomo, esercita un'autorità paternalistica, fondata sul coinvolgimento affettivo o sulla seduzione e, sovraccarico di lavoro e nel contempo sempre pronto a farsi carico di tutto ciò che accade nell'istituzione, offre una protezione generalizzata a un personale subalterno in gran parte femminile, infermiere, assistenti, segretarie, che viene così incoraggiato a un investimento intenso, a volte patologico, nell'istituzione e in colui che la incarna" (pag.71)
Le donne vengono spinte, senza averne coscienza, secondo una "legge universale", quella dell'adattamento delle speranze alle opportunità, delle aspirazioni alle possibilità, a non intraprendere azioni che non ci si attende da loro. L'autore riporta la testimonianza di un transessuale americano che racconta come egli si fosse sorprendentemente adattato alle aspettative che gli altri avevano rispetto alle sue capacità e possibilità una volta divenuto donna: "Se si presumeva che fossi incapace di fare una retromarcia o di aprire una bottiglia, sentivo, stranamente, che non ne ero effettivamente capace. Se qualcuno pensava che una valigia fosse troppo pesante per me, inspiegabilmente, anch'io la ritenevo tale" (pag.75).
Le professioni tradizionalmente maschili in cui le donne hanno accesso sono o già squalificate o in declino, e a parità di titolo di studio sono meno pagate e più a rischio di precarizzazione. Il ricorso al lavoro part-time ha l'effetto sicuro di escludere le donne dai giochi di potere e dalle possibilità di carriera.
Oltre alla divisione sessuale del lavoro, i richiami all'ordine muti vengono comunicati attraverso i cosiddetti "riti di istituzione". Essi sono presenti come riti di passaggio nella famiglia e nella comunità, nelle chiese, nella scuola, nello Stato e sanciscono non solo il passaggio ad esempio del giovane da una condizione di esclusione e minorità al mondo adulto, ma anche la separazione tra maschi e femmine.
Il "marchio distintivo" fornito dal rito separa da chi non è ancora socialmente degno di riceverlo (ad esempio i maschi troppo giovani per essere circoncisi) ma soprattutto da chi non sarà mai degno, cioè le donne. I maschi celebrano la rottura con il mondo materno (con la caccia, o tra noi con determinati sport e giochi virili, ecc.) da cui le figlie sono esentate. Nelle culture occidentali contemporanee questi riti si esprimono in certe forme di "coraggio",richieste o riconosciute ad esempio dagli eserciti o dalle forze di polizia, dalle bande di delinquenti, ma anche da tanti collettivi di lavoro: per appartenere al gruppo dei veri uomini e rafforzare la solidarietà virile bisogna rischiare, sfidare il pericolo, respingere le misure di sicurezza. I comportamenti temerari esibiscono così una forma di "coraggio" che nasce piuttosto dalla viltà, dalla paura di perdere la stima del gruppo, di non essere giudicato all'altezza di appartenervi. I veri uomini, i duri, resistono alla sofferenza non tanto alla propria quanto alla sofferenza degli altri - e lo fanno davanti agli altri maschi che devono convalidarne la virilità.
Il maschio è "addestrato a riconoscere i giochi sociali che hanno come posta una qualsiasi forma di dominio e in cui è designato molto presto, soprattutto attraverso i riti di istituzione, come dominante Per parte loro le donne hanno il privilegio, tutto negativo, di non lasciarsi irretire dai giochi che hanno per posta i privilegidi non lasciarsene coinvolgerepossono persino scorgerne la vanità" . A meno che non si ritrovino a partecipare "per procura", cioè a causa della solidarietà affettiva con il giocatore non si trasformino in "sostenitrici accanite ma spesso male informate della realtà e della posta in gioco"(pag. 91)
A questa analisi impietosa dei meccanismi dell'oppressione, non sfuggono neanche le presunte virtù femminili quali ad esempio la famosa "intuizione femminile". L'autore la definisce "forma particolare della speciale lucidità dei dominatiinseparabile dalla sottomissione oggettiva e soggettiva che invita o costringe all'attenzione o alle attenzioni, alla sorveglianza e alla vigilanza necessarie per prevenire i desideri o anticipare i disaccordila particolare perspicacia dei dominati, e delle donne in particolare (soprattutto di quelle doppiamente o triplicemente dominate, come le governanti di colore): più sensibili agli indizi non verbali (in particolare al tono della voce) degli uomini, le donne sanno meglio identificare un'emozione rappresentata non verbalmente e decifrare l'implicito di un dialogo." (pag. 41)
L'autore quasi si scusa di essersi abbandonato al "piacere di disilludere", espressione attribuita da Virginia Woolf al personaggio del padre nel suo romanzo "Al faro". Ed effettivamente riesce a rendere in modo drammatico la profondità dell'oppressione di genere così come ancora oggi è radicata nella nostra cultura e a smascherare illusioni e facili soluzioni. Il fatto stesso che il legame strutturale tra questa oppressione e l'insieme del sistema di dominio venga assunto come un problema cruciale per tutto il genere umano, e non solo per le donne, e che la prospettiva di un suo superamento venga inquadrata consapevolmente come un rivolgimento totale della cultura e della realtà, ci sembra un saldo positivo di questo approccio.