riceviamo e pubblichiamo

DI PONTI E RAGNATELE
SUL MITO DI ANTIGONE FATTO PROPRIO DALLE DONNE IN NERO


settembre 2000, riflessioni di Stefania Cherchi di Piacenza

 

Velata di nero, curva sotto il peso del dolore, Antigone esce dalle mura di Tebe, la sua città, per raccogliere dal campo di battaglia il corpo di uno dei suoi fratelli, traditore, violento, transfuga e aggressore, morto sul campo di battaglia. Il re suo padre ha proibito di dargli sepoltura, condannando quei miseri resti a rimanere esposti alle intemperie, alle fiere e agli uccelli rapaci, e l'anima a rimanere fuori per sempre dai campi Elisi. Ma non per questo Antigone ha dimenticato che quello è suo fratello, perché nessuna legge può cancellare la memoria, e l'amore.
Da sempre le donne riassumono nel loro lutto il dolore di tutta la società per le conseguenze della violenza. Gli uomini non piangono, recita un vecchio adagio: il pianto resta alle donne, ed esse piangono. Davanti ai cadaveri dei "fratelli" non ricordano più le ragioni della guerra, "santa", "etica", "giusta", e "umanitaria". Le donne sono estranee alla guerra; e anche se molte volte l'hanno sostenuta, e hanno gridato d'odio insieme ai loro uomini, anche se ancor oggi molte di loro plaudono alle ragioni della guerra, la loro storia non è quella delle armi.
Sottraendosi ai presunti vincoli della biologia che le definisce come madri e basta, le donne si riconoscono però nella ricchezza di una storia millenaria di dedizione agli esseri umani più deboli e bisognosi, e di conservazione della vita. Della loro storia scelgono consapevolmente la tradizione di facilitatrici del dialogo, e ne fanno uno strumento di rivoluzione pacifica e nonviolenta nei rapporti umani, in quelli sociali e internazionali. Con forza e con passione le donne ricercano in altre donne doti analoghe alle loro, sviluppate in destini biografici di non-prevaricazione, di generosità e di creatività. Si parlano attraverso i confini, da donna a donna, costruiscono minuziose reti di contatti personali fondati sull'ascolto reciproco e sul riconoscimento delle reciproche ragioni, rifondando la politica su basi che escludono tassativamente il ricorso alla violenza.
Negli ultimi anni del travagliatissimo Novecento le donne hanno dato vita ad esperimenti politici che non vogliono essere "il nuovo", anzi, che si ricollegano a una tradizione antichissima, testimoniata fra l'altro dal mito di Antigone: ma che risultano assolutamente inediti in un mondo che sembra aver rinunciato a parlare, rinunciato alla memoria, rinunciato al rispetto per la vita umana per correre a gettarsi nuovamente nelle braccia della guerra.

Proprio dove il dialogo sembra impossibile, proprio quando ogni possibilità di comprendersi sembra svanire. Allora è quando le donne possono stupire il mondo con una residua capacità di inventare percorsi che le mettono in contatto. In Palestina, dove dopo incomprensioni e violenze dalle profonde radici donne israeliane e palestinesi si sono confessate reciprocamente il loro desiderio di pace e di serena convivenza. Nei Balcani, fra donne di etnie differenti che non considerano questo un ostacolo insormontabile per l'amicizia. E in mille altre circostanze in cui le donne hanno saputo sottrarsi, con immensa fatica e superando oceani di dolore, a vecchie abitudini di pensiero che avevano insegnato l'odio a popoli interi. Ambasciatrici di pace, si sono dette, reinventando una diplomazia dei popoli che non delega, ma si riappropria della possibilità di inventare un modo per vivere insieme.
In un mondo aggressivo e violento questa voce delle donne stenta ancora a farsi sentire. Anzi, il secolo e il millennio si sono chiusi con molti passi indietro, in tante parti del mondo. Isolate, segregate, aggredite, le donne vivono una situazione di straordinaria gravità, e sono le più colpite anche nei paesi che si vantano del loro livello di civiltà. In molti non vogliono vedere, e anche molte donne, dopo essersi faticosamente arrampicate fino ai vertici della decisionalità politica, dimenticano le priorità enucleate dalle loro sorelle, irretite dai giochi di potere e dalla logica interna al potere stesso.
Eppure, l'esempio dei ponti costruiti nei luoghi difficili che abbiamo visitato ci spinge ad andare avanti, nella convinzione di essere sulla buona strada. Non ci convinceranno mai che i nemici vadano eliminati con la forza delle bombe, che ci siano esseri umani così diversi da noi da dover vivere tutta la vita dietro le sbarre, che non ci sia un modo di far arrivare a chi muore di fame un po' della ricchezza sprecata da chi ruba le risorse del mondo. Non ci convinceranno mai a portare il lutto solo per i morti della parte "giusta". Né che le leggi del mercato reggano armoniosamente il migliore dei mondi possibili. E continueremo a costruire ponti finché non avremo messo la guerra fuori dalla Storia.