GLOBALIZZAZIONE E QUESTIONE DI GENERE
PERCHE' LA GLOBALIZZAZIONE NON PUO' ESSERE COMPRESA PRESCINDENDO DALL'OPPRESSIONE DI GENERE


marzo 2001, di Gabriella Gagliardo, della redazione di Iemanja'.

 

Quando parliamo di donne e globalizzazione, ci riferiamo di solito agli effetti specifici che le politiche neoliberiste provocano sulla vita delle donne, su tutto il pianeta.
In questo testo, però, vogliamo soffermarci su un altro aspetto. La nostra ipotesi è che la globalizzazione si fondi, come su uno dei suoi pilastri principali, sull'oppressione di genere.
Le politiche neoliberiste non sarebbero attuabili se non potessero contare sui meccanismi specifici di oppressione delle donne, in misura diversa attivi in ogni area del mondo.
Tali meccanismi specifici vanno individuati e compresi all'interno di un complesso intreccio di relazioni:
- di classe, all'interno dei singoli Stati nazionali. Ma anche tra classi al Nord e al Sud del mondo: non è lo stesso ad esempio essere una operaia europea o asiatica;
- di etnia: non è lo stesso essere bianca, nera o india.
- e ancora dovremo tenere conto delle fasce d'età (le bambine, le giovani, le donne in età fertile, le anziane), delle preferenze sessuali e di altri fattori anche culturali.

Tuttavia tale complessità non può confondere e occultare la contraddizione principale che è oggetto della nostra indagine: l'oppressione di genere che si manifesta in modo trasversale, talvolta aperto e violento, talvolta subdolo.
Dimostrare che l'oppressione di genere è un pilastro fondamentale della globalizzazione significa contestare duramente ogni analisi che pretenda spiegare il fenomeno stesso della globalizzazione prescindendo dalla questione di genere: una tale lettura risulta necessariamente carente e fuorviante, sia che voglia individuare le cause dell'impoverimento e dell'esclusione di crescenti masse umane dai processi produttivi e sociali, sia che voglia descriverne gli effetti, sia che ricerchi alternative. Qualsiasi alternativa che non si basi su una radicale rivoluzione dei rapporti di genere ci sembra debba essere smascherata e denunciata: non merita l'appoggio delle donne.
I dati ufficiali confermano che a livello mondiale il 70% dei poveri sono in realtà donne povere. Anche le ricerche locali realizzate in diverse aree dell'Italia, da nord a sud, confermano queste proporzioni. Gli studiosi a questo proposito parlano, ormai da decenni, della "femminilizzazione della povertà". Ma, una volta stabilito che è questa la realtà da comprendere, bisogna dotarsi di strumenti di analisi adeguati a spiegare la povertà delle donne. Le categorie tradizionali dell'economia non sono infatti sufficienti a ricostruire i meccanismi di un'esperienza distinta da quella degli uomini, diversa sia nelle cause che negli effetti.

La povertà femminile risulta infatti dall'intersezione di tre elementi: biografie individuali, storia della società e mutamento economico-sociale. Il mutamento riguarda la durata della vita, la durata delle unioni di coppia, il tasso di natalità, il lavoro (occupazione e disoccupazione, condizioni contrattuali, flessibilità, eccetera), i servizi (welfare state). Ad esempio, l'aggravamento del carico di lavoro di cura (a causa di figli piccoli, o dell'accudimento di familiari anziani o malati) spinge le donne a rinunciare a un'attività di lavoro retribuito e aumenta la loro dipendenza dai redditi maschili. La dipendenza economica delle donne (dal marito, dalla famiglia d'origine, da altri maschi che percepiscono reddito, oppure persino dai servizi sociali) è una causa diretta della loro esclusione sociale. Essa assume non solo una dimensione privata, ma pubblica, ed investe pesantemente la sfera psicologica e psico-sociale.
Il corso della vita delle donne, nel quale si intrecciano simultaneamente storia lavorativa, familiare e relazioni sociali, risulta comprensibile nelle sue vicissitudini solo se riusciamo a collocarlo nel contesto storico più ampio. I processi di globalizzazione attraversano tutti gli ambiti della produzione e della riproduzione, e dell'accesso alle risorse.
La distribuzione delle risorse avviene attraverso la famiglia stessa, il mercato del lavoro, il welfare state. Ci soffermiamo qui in particolare sul primo di questi ambiti, quello più frequentemente ignorato: la famiglia.

E' al suo interno che si operano le scelte sulla distribuzione delle risorse: a partire dal cibo (essenziale nelle situazioni di carenza alimentare per determinare le possibilità di sopravvivenza, la resistenza alle malattie, lo sviluppo fisico e neurologico, la sicurezza e la stima di se'), all'investimento per l'istruzione, al tempo libero (eroso dal lavoro domestico spesso già in età infantile), alle spese personali, alle possibilità di spostamento fisico, di vita sociale, di accesso ai beni culturali.
Come ormai molti studi hanno ampiamente dimostrato, la distribuzione delle risorse all'interno della famiglia è iniqua, e questo anche nelle nostre società occidentali. Mentre le donne spendono gran parte dei propri guadagni personali a beneficio della famiglia e, ad esempio, un miglioramento del loro reddito si traduce immediatamente in un miglioramento dell'alimentazione e del tenore di vita familiare, gli uomini destinano una parte maggiore delle proprie entrate alle spese personali. In caso di redditi insufficienti, le donne sacrificano più spesso i loro stessi bisogni per proteggere altre persone all'interno del nucleo familiare. Queste rinunce hanno conseguenze sullo stato di salute e di benessere delle donne: vivere con un reddito insufficiente non significa soltanto fare a meno di beni materiali ma anche restringere le attività sociali e di svago.
Per identificare le donne povere non è quindi sufficiente analizzare i redditi familiari: dobbiamo indagare il livello individuale. Il reddito monetario individuale, però, sebbene fornisca indicazioni significative, non è ancora un dato sufficiente. E' necessario ricorrere a indicatori non monetari del benessere (o del disagio), quali ad esempio le condizioni abitative, il possesso di beni di consumo durevoli (elettrodomestici, automobile), il livello di istruzione, lo stato di salute, eccetera. Inoltre l'economia informale, il lavoro di cura, gli scambi di servizi nella rete di relazione parentale e amicale, concorrono a definire l'identità economica femminile, che di conseguenza non è affatto esaurita dalla variabile "reddito".

Il rapporto tra povertà e genere va indagato in modo dinamico: non si tratta di condizioni statiche ma di percorsi biografici in cui i rischi di deprivazione connessi ai mutamenti del mondo del lavoro (precarizzazione, flessibilità, instabilità) si intrecciano ai rischi di deprivazione connessi al lavoro di cura in ambito familiare (aggravamento del carico di lavoro dovuto alla contrazione della spesa pubblica nei servizi, alla disoccupazione o alla difficoltà di trovare un proprio alloggio da parte dei figli grandi che restano in casa, all'allungamento della vita media e quindi dei bisogni di assistenza degli anziani, eccetera).
Questi ultimi fattori di rischio che potrebbero far precipitare le donne in situazioni al di sotto della soglia di povertà, sono direttamente dipendenti dalle relazioni di potere in seno alla famiglia stessa. Sono infatti relazioni di potere quelle che impongono una determinata distribuzione dei carichi di lavoro e delle risorse disponibili. L'eccessiva responsabilità familiare induce nella maggioranza delle donne a livello planetario la tendenza ad isolarsi nelle proprie case, limitando drasticamente le occasioni di partecipazione sociale e politica e di crescita culturale. Quando non c'è un'esplicita proibizione alla partecipazione della donna, i suoi doveri familiari, le pressioni psicologiche e culturali, hanno la stessa efficacia nel relegarla ed escluderla dalle relazioni sociali. Questa emarginazione rafforza la dipendenza economica dalla famiglia, in un circolo vizioso dal quale è molto difficile uscire, dal momento che gli interessi patriarcali e maschilisti, quelli dello Stato (perseguiti ad esempio attraverso i tagli al welfare state e attraverso le politiche sociali, che stabiliscono quali situazioni siano meritevoli di sostegno attraverso l'erogazione di contributi economici e di servizi, e quali no) e quelli del mercato del lavoro globalizzato, coincidono.
La famiglia, attraverso lo sfruttamento intensivo del lavoro delle donne, ha tradizionalmente fornito un sistema di sostegno sociale all'organizzazione del lavoro degli uomini a tempo pieno. Mentre, come abbiamo visto, il soddisfacimento dei bisogni sociali di cura tende ad essere scaricato in misura crescente sulla famiglia, cioè sulle donne, il mercato del lavoro impone tempi e modalità di impiego spesso incompatibili con il lavoro riproduttivo. Una conseguenza diretta di ciò è, in Italia, l'inesorabile calo della natalità. Analoghi meccanismi demografici vengono indotti dalla globalizzazione del sistema in paesi dove le donne hanno un ben più difficile accesso alla contraccezione e ai servizi sanitari di base: il contenimento delle nascite si verifica lo stesso, ma a prezzo del sacrificio della vita e della salute delle donne.
Ma mentre un tempo la povertà delle donne rimaneva per lo più nascosta all'interno della famiglia, in modo da sancire e rafforzare la loro dipendenza, oggi la povertà delle donne si fa più visibile perché viene spesso a mancare "la protezione" familiare. Tale "protezione" svanisce con l'instabilità dei legami coniugali (separazioni, divorzi), con la vedovanza delle donne (condizione più diffusa oggi a causa del prolungamento della durata della vita femminile, maggiore di quella maschile ­ si vedano gli studi specifici sulla povertà delle donne anziane), ma anche per la presenza di un sempre maggior numero di donne che vivono sole, o sole con figli a carico. Esse sono frequentemente inserite nel mercato del lavoro secondo modalità penalizzanti, secondo la vecchia logica, come se il loro fosse un reddito accessorio all'interno di una famiglia con capofamiglia maschio, logica che non corrisponde alla realtà ma si traduce in fatti. In tutti i paesi del mondo, secondo le statistiche ufficiali, le donne vengono mantenute in situazione di inferiorità salariale. La rivendicazione "salario uguale per lavoro uguale", lungi dall'essere stata soddisfatta, resta un passaggio obbligato verso un'emancipazione economica, sociale e culturale non ancora realizzata.