LA GLOBALIZZAZIONE E LE DONNE
MATERIALI DI RIFLESSIONE VERSO IL CONVEGNO


maggio 2001, di Lidia Cirillo

 

L'indifferenza del movimento italiano contro la globalizzazione alle tematiche di genere non è solo incomprensione grave dei problemi politici posti dalla relazione di potere tra uomini e donne. Questa indifferenza mostra soprattutto che sfuggono la natura, il senso e gli effetti del fenomeno stesso a cui ci si vuole contrapporre. La globalizzazione è infatti affare di donne, come poche altre cose al mondo lo sono mai state.

Per effetto del trasferimento al Sud delle produzioni ad alto tasso di manodopera, le donne rappresentano oggi in molti paesi di recente industrializzazione la grande maggioranza del nuovo lavoro salariato. Tra il 1970 e il 1990 nel Sud Est asiatico l'occupazione femminile è passata dal 25 al 44%; in Bangladesh su 1 milione e mezzo di nuovi posti di lavoro, creati negli ultimi venti anni, il 90% sono stati occupati da donne; nella produzione di T-shirt, scarpe, pulci elettroniche (prodotti classici di ingresso sul mercato del lavoro) la percentuale di donne varia dal 70 al 90%.

Né questa composizione sessuale della forza lavoro, né le sue ragioni di fondo rappresentano una novità: anche in Europa al tempo del capitalismo nascente le donne sono state privilegiate nello sfruttamento perché il loro salario veniva considerato solo un'integrazione del reddito familiare, perché la loro periodica scomparsa dal mercato del lavoro per gravidanze e compiti di cura si traduceva in
flessibilità e infine perché più duttili e più ricattabili.

All'altro capo dell'economia mondializzata le società postindustriali sono diventate società di prestazioni di servizi e anche i servizi sono affare di donne. Negli Stati Uniti, in cui il fenomeno ha assunto le dimensioni maggiori, il 72% della forza lavoro è concentrata nei servizi; nell'Unione europea il 79% delle donne attive lavora nei servizi. Nei servizi pubblici, nella salute, nell'educazione si concentra tradizionalmente il lavoro delle donne, mentre negli uffici, nell'amministrazione, nel fast food la loro presenza continua a crescere, anche dove prima era in maggioranza quella maschile.

Una prima considerazione si impone con evidenza: oggi come mai prima nella storia il proletariato è donna. La composizione spesso tutta maschile dei tavoli in cui si dibatte e si progetta mostra, forse meglio di qualsiasi altro segno, l'ottica sostitutista di uomini che ancora non si sono nemmeno posti il problema di come rendere protagoniste e protagonisti prima di tutto gli attori sociali della globalizzazione.

Proprio dall'angolo di visuale delle donne la globalizzazione appare come un fenomeno contraddittorio.
In tutto il Sud le nuove occasioni di lavoro rompono antichissime segregazioni e dipendenze totali, attivizzano sul piano sindacale e politico un numero senza precedenti di donne, mettono in crisi le strutture più costringenti del patriarcato. D'altra parte, il lavoro salariato delle donne, nelle condizioni in cui la globalizzazione lo impone, è fatica allucinante, sfruttamento, ricatto, incertezza e paura. Orari
interminabili a causa delle ore supplementari obbligatorie, salari miserabili, mancanza di qualsiasi garanzia, insufficienti protezioni contro gli incendi, punizione da campo di concentramento, utilizzazione di prigionieri e bambini come schiavi della produzione sono le condizioni di grandissima parte del mercato globalizzato nel Sud del mondo. Due secoli dopo il capitalismo rinnova i suoi fasti e ritrova il
paradiso perduto della totale disponibilità dei corpi e del tempo degli esseri umani.

Nel Nord del mondo le condizioni di vita e di lavoro sono ovviamente diverse, ma anche da noi l'ingresso più massiccio delle donne sul mercato del lavoro ha come condizione la disponibilità ad adattarsi. Le donne del Nord devono adattarsi prima di tutto al lavoro a tempo parziale: in Europa il 78% dell'occupazione part-time è coperta da donne e in alcuni paesi della Comunità (per esempio in Germania) la percentuale si avvicina al 90%. In Gran Bretagna negli anni '90 2/3 dei nuovi posti di lavoro sono stati a tempo parziale e occupati al 90% da donne. E' stato prima di tutto la forza lavoro femminile a essere investita dalle molteplici forme della precarizzazione, dall'assunzione a tempo determinato alla prestazione di servizi indipendenti, al lavoro a domicilio, al telelavoroe lo smantellamento dello Stato sociale tende a rendere le donne più disponibili alle occupazioni che consentono di conciliare guadagno e famiglia.

L'altra faccia della medaglia della maggiore possibilità di lavoro non consiste solo nel peggioramento delle sue condizioni ma anche nel riproporsi di antiche disuguaglianze. Dal momento che i nuovi posti di lavoro sono meno pagati dei vecchi e che le donne sono in maggioranza nel lavoro cosiddetto atipico (in realtà sempre più tipico), si accentua la divaricazione tra le remunerazioni maschili e quelle femminili. E comunque il profilo vincente della globalizzazione non è un profilo femminile. Se ciascuno/a dovrà sempre più lottare per restare a galla in un mercato del lavoro in cui la competizione tende a farsi sempre più aspra, se ciascuna/o dovrà costruirsi da sé le proprie fortune e la propria carriera allora vincenti non saranno le donne. Nei paesi emergenti le équipe di direzione sono maschili e la tecnica allontana le donne, mentre nel Nord non aumenta in proporzione la percentuale delle donne dirigenti e la stessa intensità della competizione privilegia un tipo umano che non ha altra preoccupazione che la carriera, non partorisce, non si prende cura e scarica su altre persone i compiti della riproduzione perfino di se stesso. L'affermazione di Engels che la donna è il proletariato e l'uomo la borghesia dovrebbe intendersi un po' meno in senso analogico e un po' più in senso letterale rispetto al passato.

LA VIOLENZA GLOBALE E LE DONNE.

Non bisogna credere che la globalizzazione si fondi sulla guerra più di quanto sulla guerra si siano fondati altri processi storici nel passato recente e lontano. Una considerazione del genere sarebbe gravemente viziata da eurocentrismo, perché la vera novità degli ultimi decenni è che la guerra è tornata in Europa e alle sue porte. Il potere del neoliberismo non è nelle bombe ma nella sua capacità di seduzione, nella sua natura di Fata Morgana e di promessa di superamento dell'arretratezza e della miseria. Ciò non toglie che la globalizzazione abbia richiesto una ridefinizione dei termini in cui l'uso della violenza si esercita. Per quanto infatti le guerre siano una costante della storia e un'espressione della dominazione maschile, le forme in cui si manifestano, i discorsi che le giustificano, la logica a cui rispondono mutano col mutare dei processi storici di cui sono funzione. Così anche sul piano militare, come su quello economico, agisce la combinazione tra la replica di fenomeni già visti e il contesto assolutamente inedito in cui questa replica ha luogo, per cui non è possibile pensare in termini di corsi e ricorsi.

All'assimilazione strutturale del Sud corrispondono infatti forme di riarmo e riorganizzazione militare già viste in Europa nel XIX secolo, dominate da logiche nazionalistiche e di competizione tra Stati. Sul piano politico e ideologico il modello di riarmo del Sud replica la mobilitazione popolare, il ricorso agli stereotipi del patriottismo, l'enfatizzazione delle proprie reali o presunte specificità nazionali e anche i tentativi contraddittori di modernizzazione. Ma anche da questo punto di vista si registrano allarmanti novità, perché la tecnica corre molto più in fretta del livello di civiltà e dell'etica degli uomini che la utilizzano e il nazionalismo europeo del XIX secolo non conosceva gli ordigni nucleari, disseminati sull'intero globo negli ultimi decenni.

Quanto alla società postindustriale, essa è anche capace di rinunciare in parte agli orpelli del militarismo classico, alle fanfare, alle coccarde, all'amore di patria, per diventare efficiente scorta armata di merci, materie prime e capitali.

Le caratteristiche del militarismo del Nord nell'era della globalizzazione vanno adeguatamente inquadrate per evitare che bersagli della lotta delle donne diventino i fantasmi del passato. Da una parte, le tecniche, il capitale finanziario, le merci, le materie prime, la forza lavoro circolano oggi a una velocità inconcepibile anche in un recente passato; dall'altra, l'interdipendenza tra le diverse zone del
mondo non tollera interruzioni, vie ostruite, ostacoli al nomadismo della produzione. L'intervento militare deve essere perciò rapido ed efficace, non dispone dei tempi della mobilitazione di massa (tutt'altra cosa è l'adesione passiva al cosiddetto intervento umanitario), non può permettersi resistenze, campagne pacifiste, mutamenti politici o anche solo le accidentali lentezze della democrazia formale. Non a caso la guerra della primavera del 1999 contro la Repubblica federale jugoslava ha dovuto violare contemporaneamente il diritto internazionale dei trattati ONU, la convenzione di Ginevra, i principi del diritto internazionale applicati a Norimberga, le costituzioni statali Ma le violazioni dei più forti rapidamente diventano nuovo ordine: nelle stesse settimane in cui bombarda la Jugoslavia, la NATO prende atto che l'impegno, preso con la creazione dell'ONU dopo la seconda guerra mondiale, a regolare pacificamente le crisi e i conflitti, è superato.

La progressiva professionalizzazione degli eserciti delle società postindustriali risponde a un'esigenza di velocità e di efficienza, le cui conseguenze sono forse destinate ad agire a fondo sulla loro identità culturale. Come ai tempi dell'affermazione degli Stati nazionali, il monopolio della violenza da parte del sovrano mutò i costumi dell'aristocrazia femminilizzandola, così la fine della leva obbligatoria e
dell'iniziazione militare alla mascolinità possono produrre una parziale smilitarizzazione psicologica del genere maschile-eterosessuale. Tuttavia, poiché la violenza non è estirpata ma solo dislocata, i suoi effetti non saranno rispetto al passato meno potenti ma solo dislocati, si manifesteranno cioè in altro modo e altrove.

Non è compito di questo testo analizzare gli effetti delle guerre sulla vita degli esseri umani e delle donne in particolare, ma solo accennare a ciò che la globalizzazione porta di nuovo per le donne nell'uso della forza legalizzata. Da questo punto di vista due elementi vanno segnalati, la cui novità consiste soprattutto nelle dimensioni.

Nel Sud la trasformazione delle violenze tradizionali degli eserciti contro le donne mima la logica del decentramento produttivo, per cui le multinazionali trasferiscono a ditte locali il lavoro sporco dello sfruttamento selvaggio e della repressione. Dovunque arrivino le cosiddette missioni di pace e i loro missionari nel giro di poche ore sorgono giganteschi mercati del sesso con prostitute spesso bambine o adolescenti, talvolta rapite e altre volte costrette alla prostituzione con il consenso dei loro familiari.

Più difficile cogliere le variazioni della guerra contro le donne nelle società postindustriali, dove non arrivano eserciti di occupazione o bombe intelligenti. Una violenza latente perché dislocata in un corpo separato tradizionale, ma anche maggiore per intensità e concentrazione, si scarica nella società soprattutto sotto la forma di violenza di persone di sesso maschile contro persone di sesso femminile.
Privati dell'apprendistato alla virilità, del nazionalismo, della celebrazione degli attributi maschili, del nonnismo, delle marce, delle urla, dell'irregimentazione, una parte del genere degli uomini eterosessuali si è già da tempo disaffezionata al militarismo e una parte molto minore ma non più invisibile subisce una metamorfosi simile a quella dell'aristocrazia europea del XVIII secolo. Ma nei settori sociali e negli individui in cui l'aggressività è quotidianamente stimolata dalle frustrazioni, dalle difficoltà della vita, dalla verifica della propria impotenza e dall'ignoranza la violenza deflagra incontrollata nel corpo sociale.

LA GLOBALIZZAZIONE, L'AMBIENTE E IL FUTURO SENZA TERZA VIA

Gli aspetti demenziali di uno sviluppo economico che non si è mai posto realmente il problema della compatibilità con l'ambiente appaiono in tutta la loro evidenza proprio nell'era della globalizzazione.
Esportato in ogni angolo del mondo il modello occidentale si rivela assolutamente incompatibile con gli equilibri naturali che garantiscono la sopravvivenza della specie umana. Il neoliberismo diffonde l'inquinamento e lo spreco, divora materiali e persone, usa e getta risorse, brucia, consuma distrugge la natura, accumulandone gli avanzi in immense montagne di detriti e di spazzatura.

Anche in questo caso la combinazione del già visto e vissuto in Europa e del diverso contesto internazionale genera paradossi senza altra soluzione che un radicale cambiamento di ottica, di cultura e di interessi che guidano le dinamiche economiche e sociali. Di fronte ad altri fenomeni la specie umana ha sempre trovato vie di scampo e di fuga, per quanto profonde potessero essere le difficoltà o la barbarie. Per la prima volta nella sua storia l'alternativa tra cambiare o morire è netta, priva di altre possibilità e di strade intermedie.

La globalizzazione prima di tutto estende al Sud la dimensione, se non la specificità, delle devastazioni ambientali. Le leggi della liberalizzazione consentono alle imprese minerarie occidentali, per milioni di ettari e decine di anni, di sventrare la terra alla ricerca di rame, di oro, di stagno e di altri minerali. Decine di chilometri di foreste vengono distrutti in poche ore da multinazionali o da imprese di paesi emergenti, prima che proteste o interventi di istituzioni possano ostacolare i lavori.

Insetticidi, pesticidi e prodotti chimici in generale vengono gettati nell'ambiente con una crescita delle quantità del tutto fuori controllo: le 7600 tonnellate di prodotti chimici agricoli utilizzati nel 1989 erano diventate 20.000 solo due anni dopo. L'occupazione da parte del mercato delle terre più feconde riduce l'agricoltura di sopravvivenza caratterizzata da prodotti ecologicamente adattati; la coltura intensiva e una utilizzazione ad alte dosi dell'agrochimica distruggono le sostanze organiche della terra, mentre cresce la quota del sale per le inondazioni provocate nei campi dall'irrigazione artificiale.
L'acquacoltura per i mercati occidentali (diffusa soprattutto in Thailandia, nel Bangladesh e in India) abbassa il rendimento del riso, danneggia l'allevamento di anatre e polli, diffonde grandi quantità di antibiotici e di pesticidi. Ma, contrariamente all'Europa della rivoluzione industriale, il Sud del mondo non può più contare su una campagna della stessa vastità e ancora incontaminata. Le città del Sud, che già boccheggiano per l'avvelenamento dell'aria, non sono le zone urbane di un retroterra agricolo; sono le periferie delle città postindustriali, produttrici senza soste di gas e di rifiuti. Come avviene già per le armi e per le guerre, la stessa demenza e la stessa imprevidenza possono utilizzare scoperte scientifiche e tecniche, mezzi di inquinamento e di distruzione sconosciuti ai tempi del capitalismo di Manchester.

Gli effetti della globalizzazione sull'ambiente non cambiano allo stesso modo la vita delle donne e degli uomini. In numerose zone del mondo sono le donne a occuparsi del cibo, dell'acqua, degli animali. In Africa il 75% dei lavori agricoli vengono compiuti da donne e, quando il mercato devasta le terre circostanti rende l'acqua imbevibile, riduce gli spazi per l'agricoltura di sopravvivenza, sono le donne a
cercare acqua a chilometri di distanza o a difendere la coltura di prodotti agricoli tradizionali. A causa della divisione sessuata del lavoro, il degrado ambientale rappresenta una delle cause principali dell'aumento della mole di lavoro delle donne. Per gli effetti immediati delle devastazioni ambientali sulla loro vita, al Sud sono state soprattutto donne le protagoniste attive di episodi di resistenza. A tutte è nota l'esperienza del movimento ambientalista di donne indiane Chipko, a cui si ispirano le tesi della fisica Vandana Shiva e che hanno avuto una grande risonanza nelle ONG per lo sviluppo. Sia il movimento sia Shiva hanno difeso le specie arboree tradizionali sostituite da vaste piantagioni per il mercato, mostrando le conseguenze nefaste della sostituzione sull'ambiente e sulla vita delle popolazioni locali. Nelle società postindustriali gli effetti della globalizzazione neoliberista agiscono naturalmente in maniera diversa sulla vita delle donne. Ma è indubbio che anche al Nord essi agiscono più sulla vita delle donne che su quella degli uomini.

Dal momento che a occuparsi del nutrimento e della salute delle famiglie sono le donne, a Nord non meno che a Sud, le preoccupazioni per il cibo che mangiamo, l'acqua che beviamo, l'aria che respiriamo sono delle donne più che degli uomini, condizionano la vita delle donne più che degli uomini.
Registreremo probabilmente tra qualche decennio che la "mucca pazza" ha rappresentato una svolta nell'immaginario sociale, capace di trasformare il cibo, un tempo bisogno e piacere, in minaccia, veleno, ricettacolo di malattie sconosciute e mortali. Certamente, l'innocente animale ha rappresentato una svolta nell'esistenza delle donne, mettendone ancora una volta alla prova il grande talento di acrobate. Sollevate dalla fatica di cercare l'acqua a chilometri di distanza o di difendere la piccola agricoltura di sussistenza, le donne delle società postindustriali sono investite dalla responsabilità di aggiornarsi, di cercare di indovinare quali prodotti siano meno pericolosi, di controllare che cosa bambini e bambine mangino ogni giorno nelle mense scolastiche Nella parte femminile delle popolazioni delle metropoli c'è oggi una grande disponibilità alla resistenza, che in Italia nessuna raccoglie e che si disperde in ansia e impotente malessere.

LA MONDIALIZZAZIONE DEL MOVIMENTO DELLE DONNE

Il movimento delle donne (articolato in differenziatissimi movimenti di donne, ma unificato da una base di preoccupazioni comuni) è stato negli ultimi decenni il più internazionale dei movimenti politici. Si tratta di un importante punto di partenza perché la globalizzazione non consentirà più a nessuna e a nessuno di difendere davvero le proprie condizioni di vita e di lavoro su scala solo nazionale, anche se
questa dimensione resta naturalmente inaggirabile. Dappertutto, alle lotte delle lavoratrici del Sud i gruppi transnazionali o le aziende dei paesi emergenti reagiscono con il decentramento nel decentramento, dislocando la produzione verso piccole ditte che assumono interinali senza contratto o immigrate e immigrati clandestini. Più spesso i tentativi di organizzazione sindacale e l'aumento del costo del lavoro provocano il trasferimento delle aziende in altro luogo. Gli spostamenti delle industrie di calzature in una prima fase concentrate nella Corea del Sud, a Taiwan e a Hong Kong, in una seconda nelle Filippine, in Thailandia e Indonesia e infine in Vietnam e in Cina seguono le vicende del costo del lavoro, che attira capitali laddove è più basso e dove l'attività sindacale è interdetta.

Nelle società postindustriali la concorrenza di una quantità sterminata di forza lavoro disposta a vendersi a qualsiasi prezzo è stata una delle cause, anche se non l'unica, della sconfitta del movimento operaio occidentale negli anni '80 e '90. A fare le spese della crisi dei settori più esposti alla concorrenza ancora una volta le donne, per l'ovvia ragione che la forza lavoro femminile è concentrata al Nord come al Sud negli stessi settori. Nel settore tessile, per esempio, l'automatizzazione e la concorrenza hanno prodotto in alcune regioni d'Europa una riduzione del 70% di una forza lavoro in larga misura femminile. Inutile insistere poi sull'assoluta impossibilità di affrontare in una dimensione
solo nazionale la questione della riorganizzazione militare e della violenza, così come quella della devastazione dell'ambiente o della manipolazione genetica.

Il movimento internazionale delle donne è una realtà di molte migliaia di organizzazioni, di associazioni, di reti, di collettivi, di gruppi. Uno spaccato forse ancora molto parziale di questa realtà è stato visibile a Hairou, dove erano presenti donne di Organizzazioni non governative, gruppi d'azione locali, rappresentanti dei villaggi e delle bidonvilles, organismi internazionali, reti di giornaliste o scienziate,
gruppi di donne di organizzazioni sindacali e partiti, associazioni per l'educazione delle prostitute sul tema dell'AIDS, lesbiche dell'America Latina, contadine indiane, piccole coltivatrici svizzere e africane, ecc. Malgrado l'estrema frammentazione, la diversità dei bisogni e degli interessi, esiste dai primi anni '80 un progetto o dei progetti per far convergere la grande quantità di energie sprigionata dalle donne
verso obiettivi comuni. Questo progetto, sostenuto da reti e Organizzazioni non governative diverse, ha avuto come principale punto di riferimento le quattro Conferenze dell'ONU sulle donne e si è tradotto nello sforzo di rendere più avanzati i documenti e le piattaforme, rivendicando nello stesso tempo competenze e responsabilità con un'azione di lobbyng.

Per quel che riguarda i documenti, l'opera di pressione ha registrato un indiscutibile successo, anche se sarà utile non dimenticare che grazie alla pervicace resistenza della Santa Sede l'orientamento sessuale non è ancora un diritto della persona. Tuttavia è evidente e riconosciuto ormai quasi da tutte che i successi non hanno oltrepassato la carta scritta, mentre la situazione concreta continua ad essere caratterizzata da dinamiche in senso diametralmente opposto a quello dei documenti e delle piattaforme.

Nel movimento delle donne si è sviluppato negli ultimi anni un dibattito per alcuni aspetti simile a quello che si è svolto in altri tempi nel movimento operaio. Alcune reti, le più importanti delle quali nordamericane e legate al Partito democratico, insistono sull'importanza per le donne di entrare nelle "stanza dei bottoni", di essere là dove si decide, di acquistare potere, di ottenere posti di responsabilità all'ONU, nella Banca Mondiale, nel Fondo Monetario, nell'Organizzazione mondiale per il commercio.
Altre ritengono invece che documenti dell'ONU più avanzati possano solo aiutare un po' il lavoro reale, che è la costruzione di una capacità di pressione e di una forza in seno alla società civile; non credono che la presenza delle donne nella Banca Mondiale o nel Fondo Monetario possa mutare le logiche di mercato; distinguono tra i parlamenti, a cui è utile che le donne abbiano accesso e organismi che per loro natura hanno tutt'altra funzione che rendere migliore l'esistenza delle donne.

Dopo la quarta conferenza (Pechino 1995) il movimento internazionale delle donne ha comunque conosciuto una svolta. La Marcia mondiale delle donne del 2000 contro la povertà e le violenze ne è stata l'espressione e il suo progetto è appunto la costruzione di una forza reale nella società civile. Lanciata dalla Federazione delle donne del Quebec, la Marcia ha avuto alla fine l'adesione di 6200 organizzazioni di 161 paesi; centinaia di migliaia di donne hanno partecipato alle iniziative, alle manifestazioni e agli incontri.

MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE E MARCIA MONDIALE DELLE DONNE

La Marcia mondiale, cioè la rete organizzativa costruita per la marcia e che non si è sciolta il 17 ottobre 2000, si propone oggi come parte femminista del movimento antiglobalizzazione. L'incontro, peraltro recente, era inevitabile perché le due reti, anche se partite da luoghi politici lontani, hanno gli stessi obiettivi di fondo.

Il movimento antiglobalizzazione nasce dalla crisi delle vecchie forme organizzative delle classi popolari e delle minoranze oppresse, da un intellettuale organico diffuso che cerca di ricostruire una prospettiva internazionale e un progetto di società dopo la crisi dei punti di riferimento del XX secolo. A Porto Alegre rappresentanti della sinistra antiliberista nelle istituzioni, aree del sindacalismo più radicale, movimenti contadini ed ecologisti, Organizzazioni non governative, forme di autorganizzazione della società civile, ecc. si sono incontrati per andare oltre ciò che aveva unito in un primo tempo le varie parti del movimento e che era stato soprattutto il rifiuto dell'esistente e il desiderio di contribuire a trasformarlo.

La Marcia è stata riconosciuta come espressione legittima del movimento internazionale delle donne per l'ampiezza delle adesioni, il numero delle donne che hanno partecipato alle principali iniziative, l'importanza delle reti e delle organizzazioni che continuano a garantire il loro sostegno. Le sue rappresentanti sono state presenti ai forum, ad alcuni tavoli, nel comitato che ha steso il testo finale; i limiti della sua presenza sono legati ai limiti di discussione e di elaborazione di una rete di recente formazione, molto differenziata al suo interno e che ha avuto la possibilità di un numero ancora ridotto di incontri a livello mondiale. Contrariamente a ciò che avviene nel movimento italiano contro la globalizzazione, la disponibilità ad ascoltare e ad accogliere il contributo del femminismo internazionale è evidente.

La manifestazione italiana di giugno contro i G8 rappresenta per il movimento delle donne (ci auguriamo per grande parte del movimento delle donne) del nostro paese l'occasione a) per consolidare i rapporti stretti con la Marcia del 2000 che continuano a vivere nel Coordinamento nazionale e nell'altra rete, la Convenzione di donne contro le guerre, costruita nel tentativo di rimettere in moto anche in Italia una dinamica di movimento; b) per elaborare analisi, progetti, rivendicazioni, domande da un angolo di visuale di genere che diventino parte del movimento italiano contro la globalizzazione, sviluppando anche una critica di contenuti e metodi non condivisi; c) per costruire un
altro momento di opposizione ai G8 e di critica alla globalizzazione neoliberista, sperimentando forme di manifestazione del dissenso e di presenza nella città diverse o anche alternative a quelle del movimento nel suo complesso.