DONNE VERSUS G8. DAL SUD AL NORD: UN CHADOR MODELLO NORD OVEST
CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE IN PREPARAZIONE DELL'EVENTO DI GENOVA DEL 15 E 16 GIUGNO


maggio 2001, di Maria Grazia Campari dell'Osservatorio sul Lavoro delle Donne di Milano

 

 

Il club di Stati che si riconosce attraverso la sigla attuale di G8 è, sulla scena mondiale, garante e responsabile massimo della mercatizzazione planetaria, cioè dell'aggressione anche militarizzata che viene condotta contro il tenore di vita, spesso contro lo stesso diritto alla vita di intere popolazioni in nome del libero dispiegarsi del mercato globale.
L'agenda di distruzione si articola attraverso la pratica dei cosiddetti aggiustamenti strutturali imposti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, altri due club non proprio benemeriti, visto che, per stare ai fatti di casa nostra, nel solo 1999 si sono appropriati del 78% delle risorse destinate ai Paesi meno sviluppati (un esiguo 0,15 del PIL).
Nell'esperienza di molti fra i meno fortunati, il mercato si presenta come una sorta di arena ove si agisce una guerra quotidiana a bassa intensità, condotta dai forti contro i deboli, senza vincoli di osservanza di qualsivoglia regola.
Per quanto riguarda in particolare le donne, l'esperienza degli ultimi anni ci dice che la globalizzazione dei mercati e la conseguente adozione di un'ottica mercantile totalitaria, ne cagiona spesso la morte prima ancora della nascita, attraverso l'utilizzo massiccio degli aborti selettivi di feti femminili: un moderno olocausto, come è stato definito, che si compie in molti paesi asiatici (Cina, India, Corea) nel sommo disinteresse e nel totale silenzio dei molti loquaci tutori dell'embrione (l'attuale detentore della cattedra di Pietro, l'ex Presidente del Consiglio dei Ministri, i leaders dei movimenti per la vita).
I dati a livello mondiale, quali emergono da rilevamenti e statistiche delle Nazioni Unite, dicono che le donne costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione a rischio di povertà estrema non solo nel terzo e quarto mondo, ma anche nel florido Occidente.
L'appartenenza di sesso appare così, a tutt'oggi, un dono negativo della natura per moltissime donne, un passaporto verso l'emarginazione nella lotta per l'aggiudicazione delle risorse.
Anche in Italia, recenti statistiche confermano che le donne entrate nel mondo del lavoro guadagnano mediamente la metà dei loro colleghi maschi, che è loro prevalentemente riservato il lavoro precario: in affitto, a tempo parziale, a termine (anche un solo giorno), parasubordinato. Niente di meglio per le pensionate: i loro redditi che nello scorcio del ventesimo secolo toccavano un insoddisfacente 60% di quelli maschili, ora declinano verso un inferiore 58%.
In questo periodo, l'Osservatorio sul Lavoro delle Donne si confronta sempre più spesso con casi di lavoro femminile tanto flessibile da apparire frantumato e tale da frantumare le vite in frammenti invivibili perchè duttili alle mutevoli esigenze della produzione per il mercato.
Aziende di sondaggi che ingaggiano centraliniste a giornata, aziende chimiche che immettono in produzione operaie che non assumono, ma fanno retribuire da cooperative di lavoro mutanti che compaiono e scompaiono nel giro di pochi mesi, impiegate amministrative del settore metalmeccanico o edile che, avendo pattuito un orario part time per accudire i figli piccoli, vengono spedite in missione per mesi in cantieri da un capo all'altro del territorio nazionale! Fino al caso di un importante corriere internazionale che per la consegna di plichi e merci in Milano e provincia non opera direttamente, ma subappalta il servizio ad un "padroncino" proprietario di automezzi. Questi, a sua volta, ingaggia una coppia di addetti per ogni furgone, i quali devono provvedere alla consegna dei pacchi. O meglio, il "padroncino" subappalta il lavoro ad un autista che viene retribuito direttamente a fattura, come lavoratore autonomo e l'autista utilizza come secondo autista e materiale trasportatore di merce dal furgone al recapito, la sua compagna, da lui stesso retribuita "in nero".
La donna non riceve un compenso proprio per il lavoro svolto, ma solo una parte del compenso altrui, senza mai essere titolare di un qualsiasi contratto, nè mai diventare visibile come parte di un rapporto di lavoro.
Il furgone, strumento di lavoro, è per la donna una sorta di chador che la rende socialmente invisibile, pur mentre opera per il mercato internazionale per conto di una società multinazionale.
E' facile capire che in situazioni simili i diritti sanciti sulla carta, sfumano nell'inesistenza perchè la loro effettività richiede un'opera fortemente in contro tendenza, una cooperazione e un sostegno del partner che ne assicurano la preminenza nei rapporti personali e che, in ogni caso, non possono certo essere dati per scontati. Anzi.
Il caso illustra una situazione in cui alla donna è riservata l'invisibilità sociale nel luogo stesso dei commerci sociali.
Esso mostra l'imitazione del modello famigliare, nel quale alle tensioni interne corrisponde una rappresentazione esterna unitaria, che cela relazioni di dipendenza e di conflitto.
Esso mostra, in particolare, gli esiti incivili cui si perviene attraverso la pratica della reductio ad unum che meriterebbe riflessioni e azioni politiche di contrasto.
Con quali modalità?
Secondo noi operando in varie direzioni.
Sul piano sociale, si dovrebbe finalmente dare corso ad una pratica che contempli la creazione di un agente contrattuale femminile ponendo fine al monopolio maschile della rappresentanza nei luoghi di lavoro (monopolio che si giova di innegabili complicità femminili). Modificare quella forma pretesamente naturale per cui ogni aggregazione inevitabilmente ripete il modello famigliare che vede l'uomo come delegato permanente alla rappresentanza dellíintero nucleo verso il sociale. Scuotere l'acquiescenza femminile (spesso solo apparente) al modo della rappresentanza per cui, ricevuta la potestà a rappresentare, il soggetto (unico-maschile) rappresentante ingloba il rappresentato, senza articolazione relazionale fra i soggetti, senza possibilità di mediazione fra esistenze e aspirazioni differenziate e asimmetriche. Praticare un'altra via rispetto a quella scontata e perdente che vede la donna delegante incapsulata nella complementarietà subordinata all'uomo delegato, meccanismo che produce un esito di fissità del potere nell'uno e, nell'altro, svuotamento di autonomia e autorappresentazione. Meccanismo che paralizza ogni possibilità di ricerca a due di una possibile via di uscita radicale dalla scena predisposta dei rapporti sociali.
Sul piano politico, costruendo pratiche di contrasto alla perdurante inferiorizzazionre del sesso femminile, escluso dal potere di elaborare le regole che presidiano al vivere associato e che riguardano, quindi, tutti, donne e uomini.
Infatti, fondamentale garanzia di libertà è la partecipazione alla costruzione dell'ordine che ci governa.
Come possiamo pensare di essere libere se altri da noi prendono le decisioni che ci riguardano, escludendoci? In tal modo si viene inglobate, misconosciute, si scompare nell'anonimato, come chi non ha potere scompare nell'impersonalità del mercato, visto come rapporto fra cose che nega il rapporto fra esseri umani.
La dissidenza rispetto all'esistente, per essere, dev'essere un laboratorio di esperienze multiple che si intrecciano e valorizzano; il presupposto è che la percezione del mondo sia scomposta nell'esperienza umana dei due sessi, condizione predisponente per il superamento delle esclusioni e delle gerarchie sociali.
"La globalizzazione non è l'interazione culturale tra le diverse società, ma l'imposizione di una specifica cultura su tutte le altre.
E' la rapina messa in opera da una classe, una razza, spesso un solo genere, nonchè da una singola specie su tutte le altre.
In questi tempi di pulizia etnica, mentre le monoculture si diffondono nella società e nella natura, riconciliarsi con la diversità diventa un imperativo per la sopravvivenza" (Vandana Shiva "Biopirateria")