ESSERCI PER PASSAGGI BREVI.
RIFLESSIONI SULLA VIOLENZA E UNA PROPOSTA PER L'ORGANIZZAZIONE DELLE DONNE


agosto 2001, di Silvana Allesti


Care compagne (chiamo così le donne che mi accompagnano in questo pezzo di strada)

aggiungo alcune osservazioni su 1) violenza 2) aspettative sul gruppo della Marcia

1) La violenza non è un incidente di piazza, voluto da alcuni. Lì può scoppiare, ma è endemica e soprattutto è il modello di rapporto cui siamo tutte/i condotti a uniformarci. Qui e ora nelle forme di sopraffazione quotidiane e altrove. E' violento il rapporto delle multinazionali, quello di lavoro, è dittatura quella del dollaro, di FMI WTO. Le donne sanno che è un modello patriarcale: gli effetti sono che 1/3 del mondo schiavizza il resto.
A Genova è diventato progressivamente evidente, fino alla macelleria, quanto il nostro sia un territorio militarizzato.
Il fatto di percepire il qui e ora come passabilmente civile o garantito è un fenomeno ottico, perché non vale per tutti/e e nemmeno in ogni momento (per le immigrate questa zona ha un tasso di violenza più forte che per me; così gli stessi italiani che vivono in quartieri marginali il senso di essere in pericolo ed esposti è maggiore del mio. Io posso andare alle manifestazioni per i migranti ANCHE perché non trovo nessuno di loro a dormire nelle cantine di casa mia. Se no, dovrei superare qualche contraddizione in più).
Il fatto di percepire dove viviamo come zona civile ci dice il GRADO di normalizzazione: cioè quanto abbiamo accettato che la terra - CHE E' UNA- abbia zone dove è inevitabile lo scatenamento totale di violenza (Jugosl- Palestina-Africa ­ e poi?) zone tranquille e difese e zone grigie. In tutte i rapporti sono violenti: cambiano le forme. Gli stupri e gli sgozzamenti sono alle soglie della nostra zona; lì il nuovo ordine usa la guerra guerreggiata e scarica i suoi arsenali, qui abbiamo una guerra non dichiarata, ma lo stesso con corpi venduti, morti sul lavoro (chi tiene il conto?) file di gente umiliata per una minestra. Normalizzati siamo noi che non li vediamo più. O a sussulti, come succede a me. Genova è stato il momento in cui abbiamo dato voci e corpo a questa mostruosa piramide e alla forza per smantellarla. Che per il potere non sia sopportabile l'abbiamo capito ?
Per percepire di nuovo come umani i corpi venduti, devo restituire a quegli uomini e donne la rabbia necessaria per scrollarsi di dosso tutte le etichette, da quelle razziste a quelle di "poverini".
Per percepirli di nuovo come umani devo GUADAGNARE CONSAPEVOLEZZA che di questo sistema violento
- faccio parte
- ne sono complice, mio malgrado. Il mio malgrado non toglie che al supermercato la frutta africana costi meno di quella italiana e vuol dire che mangio a spese di qualcuno.
Questa è una contraddizione e NON NE ESCO dicendo io- non -voglio ­la violenza.
Che io non la voglia è ininfluente perché è lo sfondo, e intanto nessuno, me compresa, è innocente.
Credo che la scomodità di questa contraddizione vada tenuta dentro di sé, come un faro: da cui farsi orientare, per stare in movimento, per capire che se non produco violenza con le mie mani, ci pensano le mie delicate mandibole e soprattutto per fare alleanza con chi non divora e non si rassegna
2) Il gruppo/ coordinamento:
è il luogo in cui trovare compagne per cui un altro mondo è possibile, di inclusione.
E dove il primo passaggio è non assorbire/rassegnarsi alla violenza di questo ordine.
Dove camminare con chi
- non si sente innocente rispetto la violenza e perciò prova a de-strutturarla
- vuol far crescere questa consapevolezza
- accetta di contaminarsi ­ almeno un po'-
- dà forma alla com-passione (in questi giorni c'è un pozzo di lacrime)
- dà forma a quella determinazione/ aggressività buona che di fronte al violento/a non umilia l'altro, non lo tratta da oggetto, ma nemmeno si rassegna alla prepotenza, ad assorbirla: è capace di affermare la propria posizione, di richiamare il limite e di rilanciare.

Ancora una osservazione, sul come nel gruppo.

Quando ci troviamo e discutiamo di globalizzazione ed effetti, stiamo facendo un gesto eversivo. La soglia della porta segna il limite tra normalità e cambiamento. Con le discussioni anticipiamo con le parole quello che poi ha bisogno di gesti e comportamenti: perché il cambiamento prenda forma. Allora abbiamo bisogno di grande precisione, perché le parole non siano fughe in avanti, o richieste paralizzanti o che altro. Perché le parole siano impegnative come i gesti .
Mi spiego meglio. Alla larga dal dover essere. Ma passiamo ad un setaccio più stretto la facoltatività: se varco la soglia, sono responsabile verso le altre della mia presenza. Non perché sia obbligata ad esserci, ma perché lo devo rendere esplicito: vengo-non vengo- prendo una pausa. Non sappiamo dove andremo,né se i nostri bisogni ci terranno assieme e per quanto. Questa grande fluidità può essere positiva se individuiamo 1 passaggio -BREVE- se su quello garantiamo l'esserci. Condotto a termine, si ricontratta: cosa fare, come,chi può.

Mi scuso se la forma risulta un po' brusca: sono grata per quello che è stato fatto da tante finora e il desiderio è di non disperderlo.
A rivederci, a risentirci e buona vita, Silvana.