LA MARCIA A NEW YORK
LA
TESTIMONIANZA DI LIA SCALICI DI GENERE E POLITICA
novembre 2000, di Lia Scalici
17 ottobre 2000, New York. È una giornata grigia e a tratti piovosa, ma uno squarcio di colori e di luce si apre su Dag Plaza, nei pressi della sede ONU, luce che si sprigiona dai volti sorridenti, emozionati, festosi di 10.000 donne che si sono radunate arrivando da ogni angolo del pianeta. 10.000 donne tutte insieme, tutte diverse: bianche, rosse, nere, gialle; chi con gli occhi a mandorla, chi con il naso all'insù e chi con le labbra carnose; bionde, more, occhi azzurri e occhi castani, anziane, giovani e di mezza età, di culture diverse del primo e del terzo mondo. Tutte insieme a gridare: so-so-so-solidarietà (in francese, inglese, spagnolo): solidarietà alle donne vittime delle guerre, delle violenze, delle ingiustizie e delle discriminazioni; alle donne irakene, chiapaneche e alle afgane che, davanti alla delegazione ONU, sfidano il potere patriarcale prendendo parola e liberandosi dello chador; alle donne vittime degli stupri, anche se indossano jeans, e delle mutilazioni sessuali. 10.000 donne a marciare nel cuore dell'impero contro le politiche di aggiustamento strutturale del FMI/BM, per l'annullamento totale del debito estero.
Un serpente che si insinua nella Big Apple, la Grande Mela: il serpente simbolo del sapere e della conoscenza nelle antiche società gilaniche (gy- da gynós, donna e an- da antrhopos, uomo, società equilibrate dal punto di vista di genere), il serpente di Eva, la donna che ha osato sfidare, rivendicando il diritto alla conoscenza e alla coscienza, il potere patriarcale nella sua proiezione simbolica divina e per questo è stata abbattuta, mentre il serpente è stato trasformato da simbolo di conoscenza in simbolo del male. Abbattuta come le sue sorelle/figlie nelle diverse epoche storiche e nelle diverse società patriarcali con modalità e violenza diverse. Dai roghi e le torture inflitte dall'inquisizione alle streghe alla moderna cooptazione che fa assumere a tante donne, come propri e liberatori, ruoli e modalità di vita che riflettono nettamente il loro carattere maschile patriarcale.
Ed è la conoscenza ed il sapere di sé come individua e come genere che ancora e sempre ci vengono negati per renderci vulnerabili e corruttibili (i media non a caso non hanno detto una parola su questa scadenza, né sulle precedenti, della Marcia Mondiale delle Donne). Conoscenza e sapere di sé che possono darci la forza per contrastare la deriva sempre più veloce e apparentemente ineluttabile del nostro pianeta. Unite fra di noi e insieme a coloro che sono "contro". Ma è indispensabile che questi ultimi siano coscienti del carattere di genere degli eventi. Ed è imprescindibile che il fare politica fra donne non si riduca a una sommatoria piatta e acritica di soggetti e di piattaforme rivendicative, animata dal tentativo di riprodurre in provetta forme e strutture dei movimenti rivoluzionari maschili, che non hanno mai tenuto conto di noi.Sarebbe una pratica sterile, non all'altezza di raggiungere il più alto livello di maturità politica, che si esprime con la capacità di convivere fra realtà diverse, per trarne ricchezza e sviluppo creativo, per individuare fra queste il "filo rosa" che può ricostruire la trama e il pensiero di un nuovo progetto di trasformazione del mondo.
Le donne della Marcia hanno coscienza e sapere di sé, e l'hanno dimostrato rispondendo all'alta funzionaria dell'ONU Louise Frenchette, che le ha ricevute al posto di Kofi Annan proponendo loro di lavorare per un incremento della globalizzazione ed estendere i "benefici dello sviluppo".
Hanno risposto denunciando la scarsa rappresentatività dell'ONU, che esclude le popolazioni indigene di interi continenti e che è in balia del veto di poche potenze, denunciando la BM e l'FMI, il debito, il capitalismo liberista insieme con il patriarcato, tutte le forme di violenza e di controllo sul corpo delle donne; denunciando l'aggravarsi delle condizioni delle donne anche nell'occidente privilegiato, ma in solidarietà con le donne del Sud del mondo. Hanno dimostrato di sapere che la loro vita non migliorerebbe affatto esportando a forza (se anche fosse realmente possibile farlo!) un modello di sviluppo basato su bisogni indotti il più delle volte artificialmente, su sprechi e distruzione dell'ambiente.
Le donne sanno che si può cambiare il mondo solo a partire da sé; che primo, secondo, terzo, ennesimo mondo devono poter scegliere il proprio modello di sviluppo disponendo liberamente delle proprie risorse e tenendo conto delle compatibilità ambientali.
Ed è con questo spirito che anch'io ho voluto essere alla Marcia delle Donne di New York, come a Praga, a Genova e a Davos. Con l'idea che vada ridefinito il concetto di "sviluppo" occidentale e che cessi di essere un parametro per lo sviluppo altrui.
Adesso si tratterà di costruire, a partire dalla preziosa rete che si è creata intorno a questa prima Marcia mondiale, iniziative, riflessione ed elaborazione che diano un respiro maggiore e un orizzonte più vasto alla progettualità alle donne.
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