MATRIMONI FORZATI
IMMIGRATI IN GRAN BRETAGNA, LA LOTTA DELLE FIGLIE, LA POLITICA DELLO STATO


Novembre 2005. Di Kavitha Rao. Traduz. M.G. Di Rienzo

 

Jasvinder Sanghera fuggì di casa quando i suoi genitori, immigrati indiani in Gran Bretagna, tentarono di forzarla ad un matrimonio con uno sconosciuto nel 1975. "I miei genitori mi dissero: o sposi chi vogliamo noi, o ai nostri occhi sei morta.", racconta. Rigettata dalla propria famiglia, ancora oggi riceve regolarmente minacce di morte da sorelle, zie, cugini e parenti acquisiti. Sanghera dirige "Karma Nirvana", un rifugio per le donne nella città di Derby, che conta 220.000 abitanti ed ha una grande comunità di immigrati dal sud est asiatico. "Mi dicono che sono un‚impostora perché critico la mia comunità, aggiunge, Ma io non ho intenzione di smettere."
Il governo britannico sta in questo momento considerando la possibilità di punire legalmente le famiglie che costringono i propri figli a matrimoni indesiderati. Dal 5 settembre u.s., il "Foreign and Commonwealth Office" e l' "Home Office" sono impegnati in una consultazione trimestrale al cui termine si deciderà se introdurre lo specifico reato nel codice penale. L‚estensione del problema è ancora sconosciuta. Le statistiche del "Foreign Office", che sovrintende all'immigrazione, parlano di 250/300 casi l'anno, ma si stima che molti non vengano denunciati. Ragazze e ragazzi di non più di tredici anni vengono rapiti e imprigionati, stuprati, picchiati e, in alcuni casi, uccisi per salvare l'onore della famiglia. La maggior parte dei matrimoni forzati si danno in famiglie provenienti dall'India, Pakistan e Bangladesh (che insieme formano il 3,5% della popolazione britannica), ma alcuni casi hanno visto coinvolte famiglie mediorientali ed africane. Molti immigrati del sud est asiatico pensano che un matrimonio contratto all'interno di una comunità chiusa sia un bene per i figli. Ma i figli la pensano spesso diversamente. "Sovente ragazze giovani, che mostrano di desiderare una maggiore indipendenza o di essere interessate a ragazzi inglesi, vengono etichettate come immorali e forzate di fretta al matrimonio", dice Sanghera.
"Le donne che vengono da noi vogliono solo un posto sicuro dove stare.", racconta Shaminder Ubhi, direttrice di "Ashiana", un rifugio per le donne con base a Londra, "Ciò che non vogliono è vedere i loro familiari andare in prigione." Piuttosto che spendere denaro pubblico per creare una nuova legislazione, Ubhi preferirebbe vederlo destinato alla creazione di case per le donne che fuggono dall'abuso e dalla violenza domestica: "Riceviamo richieste da 300 donne ogni anno, e abbiamo solo 11 letti." Ubhi sottolinea che i familiari che adottano comportamenti violenti possono già essere perseguiti mediante le leggi in vigore. Alcune donne che hanno subito gli abusi, però, ritengono sia importante che il governo dia un segnale chiaro. "Io ho a che fare con ragazze di 14 anni che vengono stuprate, battute, e date in mogli ad uomini che hanno il doppio della loro età. Alcune vengono uccise. Questo lo vedo. Quello che non vedo sono i responsabili chiamati a rispondere delle loro azioni. Se un messaggio forte viene mandato a costoro, può fungere da deterrente", argomenta Jasvinder Sanghera.
Narina Anwar, che è scampata per un pelo ad un matrimonio forzato, spera che la legge verrà emanata: "Se i matrimoni imposti vengono riconosciuti come contrari alla legge, ciò darà alle persone come me uno strumento per opporsi ad essi". Quando aveva 21 anni, Narina fu portata con le due sorelle in Pakistan dai genitori, ufficialmente per far visita alla nonna, ma là le ragazze furono informate che sarebbero state date in mogli. Furono sorvegliate notte e giorno per cinque mesi, e fu loro detto che sarebbero state uccise se avessero tentato di scappare. Le ragazze ci riuscirono comunque, e si rifugiarono al Consolato britannico che le rimandò in Inghilterra. Vissero in un rifugio per le donne per sei mesi, dopo di che il governo garantì loro un'abitazione. Dopo altri quattro mesi contattarono i genitori e si riconciliarono con loro.
Il governo britannico, dopo aver tollerato per anni la pratica, in nome della "sensibilità culturale", sta prendendo atto del problema. "E' una faccenda che tocca settori diversi della vita pubblica: istruzione, salute, e servizi sociali", dice Vinay Talwar, responsabile dell'unità "Forced Marriage" stabilita all'interno del "Foreign Office" nel gennaio di quest'anno. L'unità soccorre e riconduce in patria le vittime portate oltre oceano per essere sposate contro la loro volontà. Conduce anche campagne di informazione nelle scuole, nei centri comunitari ed attraverso video e siti web.
Nel marzo 2004, il governo suggerì delle "linee guida" a polizia, insegnanti e lavoratori dei servizi sociali per rispondere al problema, fornendo formazione per il trattamento delle persone vittimizzate. I critici di questo programma dicono che le autorità britanniche sono ancora confuse rispetto alla differenza fra "matrimoni combinati", che sono molto diffusi ma implicano un certo grado di scelta fra i contraenti, e "matrimoni forzati", in cui le persone non hanno modo di scegliere ne' chi sposare, ne' quando farlo. "I servizi sociali spesso non intervengono perché hanno paura dell'accusa di razzismo", nota Sanghera, "Sì, tu puoi avere le linee guida, ma a cosa servono, se nessuno le mette in pratica?"
Dopo l'attacco terroristico del 7 luglio, ed il susseguente impegno del governo britannico a promuovere maggior integrazione delle minoranze, ogni interferenza del governo nelle istanze sociali è attentamente vagliato dalle comunità di immigrati. I musulmani britannici hanno già bollato come "discriminazione" i requisiti imposti alle persone che vengono da fuori per sposare immigrati: ad esempio che le spose e gli sposi sono ammesse/i ad entrare nel paese se hanno compiuto i 18 anni. Vinay Talwar dice che queste preoccupazioni sono dirette al bersaglio sbagliato: "I matrimoni forzati sono un'istanza che riguarda i diritti umani, non un'istanza culturale. E non sono diretti a nessuna comunità in particolare." Anwar, che è un devoto musulmano, sostiene che nozioni false sull'Islam e sull'onore della famiglia vengono usate come ragioni per forzare le donne al matrimonio: "Un matrimonio forzato non è cultura, non è religione, è solo un brutto abuso avvolto nei cosiddetti legami familiari. I genitori devono considerare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e non sacrificare i loro figli all'onore della famiglia."
Jasvinder Sanghera, da parte sua, è molto chiara su ciò che il governo dovrebbe fare: "Io pensavo che i miei genitori avessero il diritto di farmi quello che mi stavano facendo. Avevo quattordici anni. Allora mi sarebbe piaciuto poter dire loro: non potete farmi questo, perché è contro la legge."

Maggiori informazioni: il sito di Narina Amwar per l'aiuto alle vittime dei matrimoni forzati:
http://www.missdorothy.com/

Nota sull'autrice:
Kavitha Rao è una giornalista indipendente che vive e lavora a Londra. I suoi articoli appaiono sul Daily Telegraph, il South China Morning Post, la Far Eastern Economic Review e Asiaweek. Può essere contattata all'indirizzo kmohanrao@yahoo.com)