POTERE E VITTIMIZZAZIONE
INTERVISTA A TERRY MCGOVERN, ATTIVISTA PER I DIRITTI UMANI E FONDATRICE DI "MODELS OF RESISTANCE PROJECT" (PROGETTO MODELLI DI RESISTENZA)


Marzo 2006. Da WHR net, traduz. a cura di M.G.Di Rienzo



WHR net: Qual è stata la forza motrice dietro al Models of Resistance (MOR) Project, cosa ti ha spinto in quella direzione?

TM: Ho lavorato per molti anni, come avvocata, con le donne affette da HIV e ho scoperto che le iniziative più riuscite erano spesso il risultato dello sforzo delle donne direttamente investite dal problema. Il cambiamento sovente avviene quando le donne sieropositive si uniscono ad altri attivisti e chiamano il governo ad un confronto. Le donne creano autonomamente soluzioni a ciò che devono affrontare e hanno successo nel lavoro politico. Molte organizzazioni che si occupano di sostegno e prevenzione non vedono questa forza.
All'inizio dell'epidemia, quando le donne sieropositive venivano invitate agli incontri, mentre gli uomini stavano attorno al tavolo a discutere questioni sostanziali, la partecipazione delle donne si limitava al racconto delle loro storie di sofferenza: il descrivere come si erano infettate, o la morte dei loro bimbi.Io trovavo questo molto disturbante, e riflettevo sul fatto che bisognava riequilibrare lo sbilanciamento di potere che vedevo. Ma prima che il cambiamento avvenisse c'era necessità di condividere saperi e informazioni con le donne sieropositive. Io feci questo lavoro, e appresi anche che le vittime, in particolar modo le vittime di sesso femminile, sono trattate in modo abbastanza uniforme dalle persone e dai media, ovvero solo come narratrici di dolore.
Sviluppammo un programma di training per le donne affette da HIV che riguardava le leggi e le politiche vigenti, e le vedemmo raggiungere, nel contesto statunitense, più risultati di quelli che credevamo possibili. Fu questo che in origine mi rese consapevole della forza di queste donne, ma capii anche che era necessario dare un colpetto alla "narrazione della vittima", di modo che le donne fossero percepite come persone capaci di dare un contributo sostanziale.
Alcuni anni dopo, mia madre fu uccisa nel disastro delle Due Torri, e da avvocata per i diritti altrui divenni io stessa "vittima". Scoprii che per sopravvivere usavo alcune delle tecniche che le mie amiche sieropositive mi avevano insegnato nel corso degli anni.
Dopo l'11 settembre ho visto un gran numero di donne, che non si erano mai interessate di politica precedentemente, seccarsi di essere intervistate solo su come erano morti i loro cari, mentre erano arrabbiatissime per il modo terribile in cui venivano trattate, o perché i membri della loro famiglia non potevano ottenere i visti d'ingresso nel paese per venirle a trovare.
Nel marasma patriottico che è seguito, molte donne sopravvissute hanno invece sviluppato la percezione che il governo sapeva ciò che stava per accadere e che avrebbe dovuto intraprendere azioni diverse, proteggere i loro cari, e certamente avrebbe potuto trattarle meglio dopo l'accaduto.
Furono infatti per lo più le donne a chiedere l'istituzione di una commissione sui fatti dell'11 settembre. Questo accadde in un contesto che definirei di patriottismo selvaggio, dove da un lato la gente ti diceva che non potevi sfidare il governo perché eravamo sotto attacco, e dall'altro la sinistra ti diceva che non dovevi sorprenderti, viste le cose orribili che gli Usa fanno in giro per il mondo.
In questo scenario, le famiglie degli scomparsi si sentivano sfruttate dal governo mentre venivano lasciate ad arrangiarsi da sole, e molte erano famiglie di immigrati, di gente di colore.
Nel mezzo di questa confusione, ci fu un gruppo, in maggioranza di donne, che chiese una commissione di indagine. Io partecipai agli stadi finali di questo processo e vidi all'opera, di nuovo, le stesse tecniche: le donne che sedevano e dicevano "Oggi niente interviste sul nostro dolore, rifiuteremo di discutere i dettagli della morte dei nostri cari. Invece faremo noi delle domande, sulla responsabilità dei fatti, e chiederemo, per esempio, perché Condoleezza Rice è andata in televisione a dire che la cosa era del tutto inaspettata, ed ora ci dicono che da un anno avevano allarmi
e segnalazioni."
Vedendo all'opera questa forza, mi sono interessata ancora di più allo studio del fenomeno: le "vittime" che chiedono siano accertate le responsabilità, che chiedono giustizia, in un contesto di violenza fondamentalista o politica. Ero interessata al fatto che le donne sopravvissute si organizzavano e facevano richieste, non solo in ambito legale: in effetti, chiedendo responsabilità, esse chiedevano un cambiamento politico di notevole portata. Cominciai a domandarmi come funzionava, se il fenomeno avveniva all'interno della cornice dei diritti umani, eccetera.

WHR net: Spiegami meglio la relazione fra "potere" e "vittimizzazione".

TM: Quando cominciai a guardare con attenzione, vidi numerosi esempi di donne che guidavano gruppi e che avevano canalizzato la loro vittimizzazione non appena ne avevano avuto l'opportunità. Le donne usavano i media per chiedere giustizia. In tutto il mondo cercavano di narrare qualcosa di più che l'orrore di cui avevano fatto esperienza. Ci sono un mucchio di esempi, in cui le donne hanno detto di non voler essere solo le testimoni di ciò che è accaduto a loro o ad altri, vogliono parlare del contesto più ampio, della giustizia.
Generalmente la gente salta questo tipo di narrazione, ed il fenomeno è ancora scarsamente studiato. Ovviamente il tutto è complicato dai privilegi relativi alla razza ed allo status socioeconomico, e dalla continua violenza, ma ci sono tratti comuni e sistemi che possono transitare da un gruppo a un altro, i gruppi possono imparare l'uno dall'altro.

WHR net: Cosa pensi della rappresentazione delle vittime fatta dalle Ong o dai gruppi per i diritti umani, è diversa?

TM: I media del mainstream ci bombardano con immagini di dolore e sofferenza, dobbiamo cominciare a chiederci se stanno diventando semplice intrattenimento. Le tv e i giornali sono pieni di immagini di genocidi, lo tsunami, l'11 settembre, e finisci per chiederti se questo ha ancora un impatto sulle persone. Certamente, nel contesto statunitense, tu puoi fare centinaia di interviste di cui finiranno in televisione (purché non siano in diretta), solo gli aspetti del dolore e della sofferenza. Sono rimasta sorpresa quando ho tentato di porre in luce l'evidenza di gruppi che domandano giustizia in Ruanda o in Sri Lanka, e ho visto che era molto difficile persino per chi si occupa di diritti umani accettare e mostrare che queste "vittime" hanno un'agenda, che chiedono risposte sul perché è accaduto ciò che è accaduto. Tutto quello che trovavo era la rappresentazione della narrazione e della testimonianza della vittima.
Naturalmente c'è bisogno che le vittime diano testimonianza, ma pochi riconoscono che c'è bisogno che queste stesse vittime partecipino alla discussione delle istanze sostanziali, relative al problema. C'è invece la tendenza a concentrarsi su dettagli orribili, in particolar modo per quel che riguarda la violenza sessuale. Filmati di questo tipo vengono spesso usati per raccogliere fondi. A me disturbava il fatto che potevo trovare ore e ore di filmati in cui le donne descrivevano stupri e torture, ma nulla su che cosa queste donne avessero ottenuto.
Per esempio, c'è un gruppo in Ruanda che si chiama "Avega", è un gruppo di vedove. Queste donne hanno costruito un villaggio per i bambini sieropositivi, hanno chiesto accesso ai trattamenti sanitari, ed hanno contestato i tribunali quando hanno visto che i giudici ridicolizzavano le vittime di stupro. Sono politicamente assai determinate, eppure ogni reportage che le riguarda non fa che descrivere le violenze che hanno subito, c'è veramente poco delle tecniche che hanno usato, e di quello che hanno raggiunto.

WHR net: Quali altre cose vorresti condividere con le organizzazioni che lavorano per i diritti umani, che si interessano della loro violazione e dei sopravvissuti?

TM: Quando parli di questi argomenti, un bel po' di volte quello che va perduto è il potere dei sopravvissuti, la credibilità che possiedono. Le uniche a poter sfidare Bush dopo l'11 settembre e l'orgia di patriottismo negli Usa, erano proprio le vedove. Un certo tipo di credibilità muove verso il cambiamento molto di più della mera narrazione di ciò che è accaduto. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, quello che la gente ci sente dire è solo il semplice racconto della violazione dei diritti umani.
Questa è una parte della faccenda: non ci si sente bene a non essere più una persona intera, ma solo un narratore di sofferenza, ma la cosa più importante è essere capaci di vedere cosa siamo in grado di ottenere se ci muoviamo oltre la narrazione del dolore.

WHR net: Stai dicendo che la sinistra ha perso un'opportunità dopo l'11 settembre?

TM: Penso di sì, perché erano così impegnati a rispondere sulle invasioni dell'Afganistan e dell'Iraq che non hanno visto come l'amministrazione Bush stava sfruttando e impoverendo le famiglie delle vittime. La sinistra ci ha sostenuti solo quando abbiamo cominciato ad avere un po' di successo con la commissione d'indagine, ma pensa a cosa sarebbe potrebbe accadere se, in situazioni simili, i gruppi per i diritti umani invece di guardare ai sopravvissuti solo come narratori fornissero loro un po' di assistenza tecnica.
Le donne non avevano alcuna informazione tecnica su quel tipo di commissioni, o sulle differenti opzioni che avrebbero potuto chiedere al governo. Una cosa che è venuta fuori dall'incontro internazionale che abbiamo tenuto lo scorso ottobre a Bangkok, era il bisogno di condividere le informazioni: le donne del Ruanda, dello Sri Lanka, e degli Usa si scambiavano informazioni su cosa aveva funzionato, e in quali contesti le donne avevano raggiunto i maggiori successi.

WHR net: Parlaci un po' del meeting di Bangkok.

TM: Prima di tutto bisogna chiarire che, ovviamente, ci sono gruppi di vittime che non cercano giustizia sociale o riforme, alcuni stanno cercando vendetta. Noi volevamo identificare e lavorare con gruppi di donne che erano state vittime di violenza politica ed avevano usato la loro esperienza per chiedere giustizia o prevenire ulteriori violenze. Ci sono molte differenze fra i gruppi di vittime, ma alcune cose sono universali.
Una sembra essere un vero senso dell'umorismo: so che suona strano se pensi alla rappresentazione della vittima, all'essere relegate in un ruolo fisso, eccetera, eppure era familiare a tutte. Per me è stato magnifico essere circondata da queste donne che avevano perso così tanto, ed erano ancora così resistenti. Perseverano, fanno piani. Il fatto che questo fenomeno occorra in così tanti paesi è una cosa che dà speranza. Non penso sia un generatore di speranza il vedere una donna dopo l'altra che descrive violenze orribili, senza che possa anche raccontare com'è sopravvissuta, e cosa è stata capace di ottenere in termini del dare vita ad organizzazioni o ricevere risposte. Udire le storie di queste donne, ed imparare cosa aveva funzionato e cosa no nelle loro esperienze è stata una fonte di grande ispirazione.
Ci sono state un bel mucchio di discussioni sui conflitti che nascono con i gruppi per i diritti umani, ed una delle cose più potenti che sono uscite dall'incontro fu questa dichiarazione delle donne: "Se vuoi le nostre storie, allora noi abbiamo il diritto di partecipare in qualche modo alla pianificazione di quel che fai."
Abbiamo anche parlato di come sviluppare una carta dei diritti delle "vittime" (e abbiamo usato la parola proprio fra virgolette), dove si attesti come non sia accettabile usare e basta le nostre immagini nel dolore, vogliamo prendere parola. Ci sono queste donne in tutto il mondo che hanno sopportato cose orribili, sanno ancora ridere, e non si sono mai arrese. Io penso che questo sia un messaggio importante che va troppo spesso perduto, se non cominciamo a guardare anche a questi modelli.

WHR net: Quali sono i prossimi passi del Models of Resistance (MOR) Project? E se le donne che leggono questo testo ne sono ispirate, come possono partecipare?

TM: A breve faremo circolare gli atti dell'incontro del 25 ottobre 2005. Le co-organizzatrici del meeting erano le organizzazioni di donne AWID, CREA e WLUML. E' probabile che si tenga un altro incontro, per fare piani e mettere insieme gli esempi di resistenza che sono stati usati in tutto il mondo. E' difficile raccogliere fondi, perché il fenomeno della vittima che guida il cambiamento non è molto riconosciuto. Ho parecchia esperienza con le fondazioni, che mi hanno sempre ridotta a narratrice di dolore, e quando gli esponevo la mia proposta rispondevano come se io stessi suggerendo di formare gruppi terapeutici, invece di gruppi per l'analisi strategica.
Io vedo quello che stiamo facendo come l'inizio di un movimento più ampio, in cui le persone cominciano ad apprendere le une dalle altre, a conoscersi, e quindi a sviluppare una voce che sappia negoziare con la comunità che si occupa di diritti umani. C'è tutto un linguaggio sulla partecipazione e l'agenda, in tale comunità, che penso possa entrare in contatto diretto con le proposte del MOR. Ci servirà ad aprire un dialogo: riconoscete questo fenomeno? Come possiamo cominciare a vedere le vittime/sopravvissuti in una luce diversa, e come queste persone sono significative?
Un altro aspetto importante di cui dobbiamo discutere è quello che non ha funzionato, i piani che sono falliti, la cooptazione delle vittime da parte di sistemi e governi. Quest'ultimo lato della
questione è complesso, ma dobbiamo discuterne.
Parlare è l'inizio del processo.