MESSAGGI NELLE BOTTIGLIE
DONNE PALESTINESI ED EBREE CONTINUANO INSIEME A IMPEGNARSI PER LA PACE


Dicembre 2000, da Bat Shalom, traduzione di Floriana Lipparini

 


Il sole sta tramontando dietro le colline all'incrocio dell'autostrada che porta a Nazareth. Sono le auto dei pendolari israeliani che tornano a casa. Alcuni rallentano suonando colpi di clacson, e si sporgono gridando. Non è un ingorgo di traffico che li blocca, ma è una lunga, serpeggiante fila di donne in piedi su un lato della strada.
In silenzio, le donne reggono striscioni sui quali sta scritto: "Stop all'occupazione", "Rispetto degli accordi internazionali", "Fine della discriminazione contro gli arabi israeliani".
Vetture della polizia passano di frequente, come per missioni di sorveglianza. Una si ferma, e una voce autoritaria tuona dall'interno: "Arretrare di sei passi!". Le donne, già a distanza di sicurezza dalla strada, obbediscono agli ordini della polizia.
Le donne che protestano silenziose, in piedi, rappresentano un'azione pacifica che non può più a lungo essere ignorata da un'opinione pubblica profondamente divisa, in attesa della guerra. La loro presenza silenziosa è minacciosa, così minacciosa che le notizie dei loro raduni hanno causato anonime minacce di morte nei loro confronti.
A differenza delle analoghe proteste verificatesi a Tel Aviv e Gerusalemme, dove donne ebree manifestano in nome dei diritti degli arabi palestinesi, qui ci sono donne ebree e arabe che stanno insieme, l'una vicina all'altra, affrontando la collera degli incolleriti israeliani.
Non sono venute qui per reazione alle due settimane di violenza e spargimento di sangue. Sono donne ebree e arabe ­ Lily, Samira, Vered, Maryam, Yehudit, Fatchiya­ che hanno lavorato insieme attraversando i confini etnici e religiosi per molti anni.
Sono le donne di Bat Shalom nella valle di Jezreel. Donne ebree di Afula e dei kibbutz dei dintorni; donne arabe di Nazareth e dei villaggi arabi circostanti. Da lungo tempo consapevoli che i rispettivi destini sono inestricabilmente intrecciati, queste donne hanno affrontato un duro lavoro lottando per la giustizia e per porre fine all'oppressione, sia nei Territori Occupati sia nello stato di Israele, poiché non può esservi pace nell'uno senza che vi sia pace nell'altro.
Qualsiasi sia la conseguenza politica delle prossime settimane e mesi, queste donne sanno che la "separazione" (separazione tra israeliani e palestinesi), che il primo ministro Barak indica come un obiettivo nazionale, è una pericolosa semplificazione della realtà. Come può esservi "separazione" quando gli insediamenti ebraici circondano e soffocano città e villaggi sotto la giurisdizione dell'Autorità Palestinese? Persino se lo stato palestinese venisse infine proclamato, come potrebbero lavorare i palestinesi "separati" fra Nablus e Gerusalemme, fra Tulkarem e Ramallah?
Sebbene l'esplosione della violenza nei Territori Occupati abbia prodotto rabbia e condanna da parte della maggioranza dell'opinione pubblica di Israele, è stata la protesta degli arabi israeliani a provocare choc e offesa. Le manifestazioni per chiedere la fine dell'eccesso di violenza scatenata contro i palestinesi dei Territori Occupati, ai quali sono legati dall'appartenenza etnica e religiosa, e contro la loro condizione di cittadini israeliani di seconda classe, hanno sconvolto e fatto vacillare lo status quo.
Una donna ebrea, a cui un osservatore internazionale aveva chiesto quali fossero i suoi sentimenti, ha risposto: "Lavoro ogni giorno in un villaggio arabo. Ora c'è un problema. Ho finito di credere nella coesistenza, nella pace. E gli arabi israeliani non ci credono allo stesso modo." Alla domanda se lavorerà ancora per la pace, accenna di sì col capo, ma è un gesto assai poco convinto.
Sono queste le dure verità che passano nei pensieri e nei sentimenti delle donne mentre depongono i loro striscioni di protesta ­ la programmata manifestazione di un'ora si è conclusa ­ e passano nella "Succat Shalom" (la tenda della pace) che hanno eretto poco distante.
Questa è la seconda delle tre serate di interventi e discussioni, un evento organizzato ogni anno dalle donne di Bat Shalom nella Jezreel Valley. Sebbene sia sempre stato denso di contenuto politico, Succat Shalom è per tradizione anche un momento di festa. Capitando in una settimana in cui molti israeliani sono in vacanza, Succat di solito trabocca di residenti della zona e di israeliani in vacanza da Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme.
Stasera c'è solo gente del posto. A parte una piccola delegazione di attiviste di Bat Shalom di Gerusalemme, nessun israeliano in vacanza le raggiunge. E stasera non c'è aria di festa. Guardando le facce, osservando il linguaggio dei corpi, si potrebbe parlare di un'atmosfera di calma tesa. Per quanto sconvolte, le donne non esprimono la paura e l'angoscia con grida o litigi. Invece si raccolgono ­ una donna araba velata vicino a un vecchio ebreo ­ in attesa di ascoltare il primo intervento.
Il suo nome è Arrabia. Residente a Nazareth e cittadina di Israele, le sue parole sono un misto di tristezza e angoscia. Mentre Arrabia parla, tutti guardano i grandi poster appesi all'interno della tenda. Sono pieni delle foto e degli articoli sui quattordici arabi israeliani uccisi nelle ultime due settimane. Diversamente da quel che accade nei reportage della tv israeliana, qui i morti arabi hanno un nome: Inazaret Inesrink Jourmalfa Alannasser Jaber.
Ci si potrebbe chiedere: dove sono le fotografie e le storie degli ebrei uccisi? Sono certamente note, ripetute continuamente dalla tv e dai giornali. Ma non è la saturazione dei loro nomi nei media che ha provocato la decisione di non includerli in questa tenda di pace. Le donne di Bat Shalom nella Jezreel Valley hanno scelto gli arabi esclusivamente perché sono accomunati da una particolare condizione: solo loro sono stati uccisi dalla polizia e dalle forze di sicurezza. Cittadini di Israele, come gli ebrei caduti, ma diversamente dagli ebrei solo loro sono stati selezionati per l'aggressione da parte di uno stato che esiste per proteggerli.
Un tale crimine sembra impensabile in una democrazia di tipo occidentale. Si verificano violente proteste anche nel Nord America e in Europa, ma le forze di sicurezza mandate a contenere la violenza riescono a farlo senza uccidere i propri concittadini. Bisogna tornare indietro più di 30 anni (gli ultimi anni 60 e i primi 70) per trovare democrazie occidentali così minacciate dai propri cittadini.
Ma, con questa digressione, stiamo dimenticando le appassionate parole di Arrabia: "Quando i bambini di questa Intifada lanciano pietre, le pietre sono come messaggi infilati nelle bottiglie e inviati a persone lontane. Apri la bottiglia e leggi il messaggio. Leggi il messaggio adesso. Per il tuo stesso bene. Ho soltanto otto o dieci o quindici anni. Se mi uccidi con le tue pallottole, l'immagine di me che cado, ferito, che muoio all'ospedale o al checkpoint resterà con te, tormentandoti ogni giorno della tua vita Siamo donne. Noi diamo la vita a questi bambini. Dobbiamo porre fine a questa follia. Tocca a noi dire basta. Gli uomini non lo faranno mai."
I discorsi di altre donne seguono quello di Arrabia. Ebree israeliane, arabe israeliane. Sono voci di attiviste, di parlamentari, di madri. Sono tutte colme di angoscia e confusione, e sorprendentemente di speranza.
Speranza perché, a dispetto della guerra non ufficiale e asimmetrica scatenata fra i loro due popoli, ogni donna ha preso la decisione di venire stasera, a questa celebrazione annuale di coesistenza e di pace. A volte il semplice gesto di prendere l'auto o il bus è un potente gesto di sfida. Noi, le donne, non lasceremo distruggere il nostro futuro e il futuro dei nostri figli. Non lasceremo trionfare il razzismo.
Mentre la sera finisce, le donne che si conoscono da cinque, dieci anni, o forse da più tempo, si dicono reciprocamente buonanotte. Forse perché hanno avuto la possibilità di esprimere le proprie opinioni liberamente, forse perché ora è davvero tardi, ma la tensione di prima sembra dissipata. C'è vera familiarità nei saluti.
Alcune si mettono a preparare la tenda per il raduno di domani. Una donna sta raccogliendo i poster per la protesta silenziosa di domani sera all'incrocio dell'autostrada. In una mano tiene uno striscione con la scritta "Abbiamo già vissuto la guerra". Nell'altra una rosa rossa.