ACTION FOR PEACE
- MISSIONI CIVILI PER LA PROTEZIONE DELLA POPOLAZIONE PALESTINESE
LA
DELEGAZIONE DAL 3 - 10 MARZO ORGANIZZATA DALLE DONNE IN NERO CON
YA BASTA E I GIOVANI COMUNISTI PER I "DISOBBEDIENTI"
aprile 2002, di Corinne delle
Donne in Nero.
Gerusalemme 4 marzo 2002 , il nostro primo giorno.
All'aeroporto, siamo uscite con patemi d'animo ma tutto è stato molto veloce. Fuori ci aspettava Mike, una presenza sicura per noi. Luisa Morgantini lo conosce dal 1986, è diventato un nostro punto di riferimento costante. Una volta lavorava al National Palace Hotel, l'albergo simbolo della prima intifadah a Gerusalemme est e che oggi è chiuso per fallimento. Mike è anche un metro di misura importante per conoscere la situazione e gli umori della popolazione palestinese e ci dice subito della follia e della disperazione di tutti. Luisa aveva già definito dall'Italia gran parte del programma con organizzazioni palestinesi e israeliane e gli appuntamenti con il Gipp nell'ambito della campagna italiana Action for Peace. Il nostro primo giorno in Palestina è stato organizzato dal GIPP Grassroots International Protection for the Palestinian People. Al nostro arrivo, come concordato ci hanno raggiunto in albergo Joudeh e Mohamed. Il GIPP è un'organizzazione-ombrello fondata circa otto mesi fa per le missioni civili che riunisce gran parte delle associazioni, comitati, singoli palestinesi che si occupano di difesa dei diritti umani, di solidarietà, di sostegno al popolo palestinese. Hanno due portavoce, uno per Gaza e uno per la West Bank, e molti comitati locali in tutto il territorio palestinese. Il loro scopo è lavorare con la gente, in un'ottica di democrazia dal basso, collaborando con le organizzazioni e associazioni internazionali nell'attuazione di azioni dimostrative, di protesta, di interposizione nei luoghi di conflitto. L'obiettivo: la fine dell'occupazione israeliana.
Stamattina di buon ora Mahmoud è venuto a prenderci per un lungo giro nella città vecchia. Una breve storia tanto per capire come Gerusalemme si è trasformata nei secoli, e poi la realtà odierna: 150.000 palestinesi vivono all'interno delle mura senza alcuna possibilità di restaurare le loro case né tantomeno di costruirne di nuove. La municipalità di Gerusalemme non ha mai rilasciato ad un palestinese una concessione edilizia, per cui chiunque abbia bisogno un intervento edilizio non ha alcuna possibilità di attuarlo legalmente. In questo modo qualsiasi casa viene considerata abusiva e passibile di abbattimento a seconda della scelta del potere amministrativo israeliano.
Dall'alto delle mura, su cui ci siamo arrampicate clandestinamente scavalcando un'inferriata (ormai tutti gli ingressi alle mura sono chiusi), abbiamo potuto constatare l'opera dei bulldozer israeliani: meno di un mese fa hanno letteralmente raso al suolo una casa palestinese ampliata "abusivamente". La famiglia vive ora in una tenda, lì accanto, fornita dall'UNRWA. In un'altra area su cui il governo israeliano vorrebbe costruire un complesso residenziale per oltre 200 famiglie, dopo averlo confiscato a palestinesi in quel momento assenti da Gerusalemme, un comitato locale si è organizzato e ha occupato lo spazio costruendovi un asilo nido, un campo di calcio, e, solo in parte, un centro per anziani. Non sono riusciti a portarlo a termine, i bulldozer lo hanno raso al suolo. Ma il comitato non si arrende e per ora ci hanno realizzato un'area giochi per i bambini. I palestinesi residenti a Gerusalemme hanno una situazione anagrafica molto particolare anche rispetto agli altri che vivono nei territori. Infatti hanno una carta di identità, un documento che permette loro di restare all'interno della città, ma che non permette loro di uscire, poiché per una legge di recente applicazione chiunque lasci Gerusalemme anche per periodi molto brevi perde il diritto alla residenza e non può più rientrare nella propria casa né ricongiungersi alla famiglia. Diventa automaticamente un profugo. Il disegno politico è ovviamente quello di allontanare il maggior numero di palestinesi dalla città e sostituirne la presenza con israeliani. Lo stesso Sharon, quando nel 1985 ha comprato un palazzo nel cuore della città vecchia, lo ha fatto per esortare gli israeliani a "riprendersi" Gerusalemme. A lettere cubitali ha scritto sul muro del palazzo: se mai mi dimenticassi di Gerusalemme, tagliatemi una mano.
Ben 65 altre case nella città vecchia sono occupate da israeliani e riconoscerle è molto facile: una grande bandiera bianca e azzurra sventola dalle finestre.
Non c'è discriminazione invece quando si tratta di pagare le tasse. I Palestinesi versano alle casse del comune il 25% del gettito totale della città e ne ricevono in cambio solo il 5% in servizi. Non è chiaro in cosa consistano questi servizi: l'immondizia abbonda lungo i vicoli, le cannelle dell'acqua sono a secco, il consumo d'acqua consentito ad ogni palestinese è di 100 litri al giorno contro gli oltre 300 concessi ad ogni israeliano; questo rapporto scende a 20-30 litri contro i 400 nei territori occupati.
Mahmoud riesce a farci entrare in una scuola (solo maschile, le ragazze hanno scuole separate) dalle cui finestre riusciamo a vedere la spianata delle moschee molto da vicino. A nessuno che non sia mussulmano è ormai permesso entrarci né affacciarsi agli ingressi.
A mezzogiorno, alla porta di Damasco, ci incontriamo con Hassib e Bahia per un giro negli insediamenti che circondano Gerusalemme come una morsa. Ras-al Amud, 200 abitazioni, Ma'ale Adumin, 400.000 persone, Neve Ya'acov, 25.000 persone, e molti altri. Tra un insediamento e l'altro qualche residuo di villaggi o case sparse ancora abitati da palestinesi. Gerusalemme est è sempre più isolata dalla West Bank. Le bypass road (ce ne sono in costruzione a decine ovunque) suddividono ulteriormente il territorio palestinese e rendono i trasferimenti quotidiani sempre più difficili. Il numero dei check-points aumenta ogni giorno, e le code sono interminabili. In uno veniamo fermati. Un attimo di panico: Bahia ha dimenticato i documenti in ufficio. La facciamo sedere dietro nel pulmino e quando ci obbligano a scendere e mostrare i documenti, facciamo una tale confusione che a lei non vengono chiesti e evitiamo che sia trattenuta per ore sotto il sole al bordo della strada come abbiamo visto capitare a un gruppo di palestinesi a un precedente check-point.
Torniamo in città, con gli occhi pieni di costruzioni abnormi e devastanti, e alla sede del Palestinian Medical Relief un panino e qualche chiacchiera con le donne che gestiscono il centro e i ragazzi che lavorano come volontari sulle ambulanze riesce comunque a farci tornare un po' di allegria.
Hanno, nonostante la situazione, una tale positività e voglia di andare avanti che ci contagia inevitabilmente.
Alle 5 incontriamo Jeff Halper in albergo. E' un antropologo, responsabile del ICAHD, il comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi la cui azione non è solo di protesta ma anche di resistenza. L'unica possibilità di fermare la spirale di violenza è l'intervento internazionale. I vertici politici israeliani sono, a suo parere, molto lontani dalla reale volontà della popolazione. E dall'interno non può venire alcuna soluzione di pace. Il problema fondamentale è che il triangolo stato ebraico-democrazia-totalità del territorio non può realizzarsi. Solo due dei tre elementi possono essere raggiunti insieme, uno dei tre deve comunque sempre essere abbandonato. Sharon vuole invece ottenerli tutti. D'altra parte, a suo parere, nessuno dei governi di Israele ha mai davvero voluto una soluzione di pace, nessun accordo conteneva il riconoscimento di uno stato palestinese indipendente. E ben poco conta la percentuale di territorio "concessa", il 42% di Sharon o il 95% di Peres rappresentano comunque soltanto una definizione più o meno ampia di un bantustan sempre controllato nei confini, nell'economia, nei movimenti interni, dallo stato israeliano che punta alla sostituzione di Arafat con leaders locali disposti a svendere la sovranità dello stato palestinese.
Chiudiamo la giornata con un forte rumore di aerei, bombe e sirene: stanno bombardando contemporaneamente Betlemme, Ramallah e Gaza. La spirale di violenza e morte continua. Domani mattina cercheremo di raggiungere Betlemme, Beit Jala e Beit -Sahour.Betlemme, Beit Sahur martedì 5 marzo 2002
Con un po' di tensione e il rumore delle bombe di ieri sera ancora nelle orecchie, partiamo per Betlemme con un taxi collettivo. Non vi abbiamo detto chi siamo, ieri sera eravamo troppo stanche per connettere. Siamo in undici: Teresa, Eliana, Maria Teresa, Elvira e Roberto di Roma, Erminia di Perugia, Daniela di Reggio Emilia, Lorenza di Trento, Manuel di Cesena, Carmen di Padova e Corinna di Grosseto. Ieri sera in realtà eravamo molto sconvolte dalle immagini che correvano in televisione e dal rombo degli aerei che ci passavano sulla testa. Gli israeliani hanno bombardato ovunque: Betlemme, Gaza, Ramallah. Una notte piena di ansia e di angosce e alle otto e mezza prendiamo il taxi dalla Porta di Damasco che in pochi minuti ci porta al check-point. Scendiamo e naturalmente attraversiamo a piedi. Noi non incontriamo particolari difficoltà mentre i palestinesi in uscita vengono fermati in malo modo, con i mitra puntati e i toni arroganti del potere. Dopo soli dieci minuti il check-point viene chiuso, anche un'ambulanza viene rimandata indietro, solo un prete e un pulman delle UN riescono a passare. Ci colpisce l'abitudine con cui i palestinesi subiscono ormai i mitra puntati a pochi centimetri dal viso e la violenza verbale con cui i soldati israeliani gli intimano di girare le macchine e tornare indietro.
Ci avviamo in direzione della città incontro a Jihan che ci ha organizzato la giornata. L'abbiamo già conosciuta in Italia, ha lavorato al Parlamento Europeo con Luisa e Debby. Ovviamente, baci e abbracci a non finire. Ci portano con un pulmino alla sede del governatorato di Betlemme dove un folto numero di funzionari (tutti uomini!) ci danno un caloroso benvenuto. I rappresentanti dell'amministrazione ci ringraziano della nostra presenza, soprattutto in questa drammatica situazione, poi il dr. Jad Isaac ci spiega con molta chiarezza e abbondanza di documentazione visiva la disposizione degli insediamenti nell'area. E' molto chiaro il disegno politico che ci sta dietro: Betlemme, come Gerusalemme, è circondata totalmente e le nuove bypass road in costruzione chiuderanno l'anello che la isolerà e la ridurrà a una prigione a cielo aperto. I dati che il dr. Isaac ci fornisce sono esattamente coincidenti con quelli che già ieri sera ci aveva detto Jeff: tutta la West Bank verrà suddivisa nei piani di Sharon in 64 cantoni non comunicanti tra loro, 145 check-points renderanno la vita dei palestinesi letteralmente impossibile, 480 Km di bypass roads collegheranno tra loro e con Israele tutti gli insediamenti che, nel frattempo, si amplieranno ulteriormente fino a formare delle vere e proprie città. Tutto questo grazie ai finanziamenti che ogni anno il governo americano garantisce ad Israele: 3.200.000.000 di dollari! Il commento del nostro ospite: in Sudafrica non hanno ridotto il territorio e la popolazione in questo stato, eppure tutto il mondo l'ha definito apartheid; qui non viene neanche definita discriminazione razziale. La distruzione ambientale è naturalmente all'ordine del giorno: 40.000 alberi abbattuti dal 1997 per costruire gli insediamenti, quella foresta era l'ultimo grande polmone verde di Betlemme. Kaled Abed El-Fatah, responsabile del Comitato per la Difesa della Terra, ci dice che per la costruzione della nuova bypass road che unirà Gilo agli altri insediamenti a sud di Betlemme (in tutto 8 km di lunghezza e 150 metri di larghezza) sono stati confiscati 720 ettari di terreno agricolo, abbattuti 300 alberi di ulivo e distrutti 7 pozzi. Per l'agricoltura della zona non c'è più possibilità di sopravvivenza. La pace di Sharon è costruita con i bulldozer!
I numeri assurdi ci lasciano esterrefatte. Ma ancora peggio è vedere poco dopo ciò che resta della postazione militare palestinese e delle case civili attorno dopo i bombardamenti di ieri sera e dell'altro ieri con gli F16. Da sei mesi ormai i militari non hanno più un luogo sicuro in cui dormire, e sono in allerta 24 ore su 24. Le voci attorno a noi si fanno concitate, tutti vogliono farci vedere cosa è stato distrutto, i vetri sfondati, la sede della croce rossa lì accanto pesantemente danneggiata, e arriva la notizia che i carri armati sono a meno di due km da noi e stanno avanzando. Le emozioni si sovrappongono, ci rendiamo conto che la nostra presenza lì, in questo momento, è per tutti loro molto importante. Stiamo in qualche modo rompendo l'isolamento in cui i palestinesi si sentono costretti, stritolati, ed è l'unica cosa che dà anche a noi il senso del nostro essere qui. Con il pulmino raggiungiamo il presidio permanente che il Comitato per la difesa della terra ha da tempo organizzato nel luogo in cui la nuova bypass road dovrebbe essere costruita abbattendo case e fattorie. E' una tenda beduina, anche qui sono in tanti a riceverci e a ringraziarci del nostro essere qui, con loro. Ci chiedono di essere la loro voce fuori, nelle nostre città, con la nostra gente, per raccontare che non sono terroristi, sono solo un popolo che lotta per la propria libertà e il proprio stato, libero e indipendente. Questa volta l'emozione è davvero incontrollabile, e gli occhi di molte di noi si fanno lucidi. Intanto i carri armati sono entrati a Betlemme e sono a meno di cento metri dal luogo del bombardamento in cui ci trovavamo meno di mezz'ora fa.
La nostra presenza massicciamente femminile ha comunque sconvolto un po' l'assemblea, che, salvo le nostre accompagnatrici, è totalmente maschile. Ci definiscono "loro fratelli" e alla nostra correzione in "sorelle" reagiscono con una risata un po' imbarazzata. Il nostro radicato femminismo non si ferma mai, neppure sotto questa tenda!
Continuano raccontandoci che oltre a case e alberi, questa strada distruggerà anche dei cimiteri. I morti palestinesi sono molto meno sacri di quelli israeliani: i coloni infatti non seppelliscono i loro morti all'interno degli insediamenti, li portano in "terra di Israele" dentro i confini del '48. Un riconoscimento piuttosto chiaro dell'occupazione di una terra che non è loro!
(Mentre scriviamo sentiamo di nuovo il rombo degli F16: chi e dove colpiranno stasera?)
La strada troppo dissestata ci costringe a rinunciare a visitare alcuni siti archeologici che, come tutto, verranno seppelliti dalla devastante bypass road. Altri siti, che costituiscono una delle risorse economiche principali della zona, passeranno invece nelle mani dei coloni. Per tutto il comprensorio di Betlemme il turismo è la base dell'economia, ovviamente intifada e isolamento stanno portando povertà e togliendo ogni possibilità di sviluppo. Nonostante la situazione molto difficile, tutto ciò che gli israeliani distruggono (reti idriche, telefoniche, elettriche) viene ogni volta ricostruito, anche e soprattutto con aiuti della Comunità Europea. Lungo la strada ne abbiamo la dimostrazione: le tubazioni dell'acqua sono lì, pronte per essere sostituite per l'ennesima volta.
Beit Sahur. Al Palestinian Center for Rapprochement between people incontriamo Ghassan Andoni. Lui, che abbiamo conosciuto sempre molto pacato, tranquillo, sempre capace di raccontare con calma e serenità anche le situazioni più difficili, lui, da sempre pacifista convinto e sicuro, ci appare subito molto teso e preoccupato nonostante i toni e le parole che usa siano controllati e calibrati. Esordisce rivendicando la legittimità della lotta del popolo palestinese, anche se non tutte le modalità di azione sono condivisibili. Sottolinea la disparità tra le due parti, anche nell'identità delle persone coinvolte: da una parte soldati, coloni armati, dall'altra per lo più civili disarmati. E' proprio per questo che i palestinesi hanno bisogno di un'immediata protezione internazionale, è arrivato il momento di decidere da che parte stare per tutti noi, questo massacro va fermato subito o succederanno cose per le quali tutti potremmo sentirci colpevoli troppo a lungo. Ci ricorda che proprio ieri Sharon, davanti alla Knesset, ha dichiarato che i palestinesi (e non l'ANP, o Hamas, o Al Fatah) devono soffrire così tanto da non avere più nessuna velleità di resistere. Ed è per questo che, come nei giorni scorsi, vengono uccise madri che portano i figli a casa dopo la scuola o, come oggi, vengono fatte esplodere bombe all'interno di una scuola. Non riusciamo neanche a fargli una domanda, non abbiamo parole, ed è lo stesso Ghassan che cerca di rompere la tensione e il dolore raccontandoci una storiella.
Dobbiamo abbandonare l'idea di proseguire per Beit Jala, è troppo pericoloso. Ritorniamo al Governatorato, mentre poco lontano procedono i carri armati e sale la tensione. Incontriamo le donne del Women's Affair Center, che ha sedi in tutta la Palestina. Ci raccontano le loro attività che sono soprattutto rivolte al sostegno alle donne e ai bambini, procurano lavoro a chi non ne ha, aiutano i bambini ad affrontare e risolvere il terrore che ormai sconvolge quotidianamente la loro infanzia negata. Ci chiedono aiuto, aiuto concreto, le loro risorse economiche sono ridotte al minimo e corrono il rischio di dover chiudere alcuni centri. Parlano con molta calma e dolcezza ma una frase ci colpisce particolarmente: abbiamo avuto molta, molta pazienza, abbiamo sopportato molto, ma la nostra pazienza sta ormai per finire. Aiutateci!
Il Governatore di tutta l'area fa una breve entrata, ci saluta cordialmente (togliendo la parola alla donna che stava parlando!) e ci ringrazia della nostra presenza. Due parole e se ne va. L'intervento di Jihan ci coinvolge decisamente di più. Ci parla dell'attuale situazione femminile nella società palestinese. Dopo Oslo sembravano essersi aperti spazi e ruoli nella politica e nell'amministrazione per le donne. Con questa intifada, la situazione ha cominciato a involversi. Le donne sono state ancora una volta relegate al lavoro di cura, in politica e nella stessa struttura sociale hanno perso quel peraltro ancora limitato riconoscimento che erano riuscite ad ottenere. Un problema che si ripresenta purtroppo con insistenza è quello della violenza all'interno della famiglia. La frustrazione degli uomini che hanno perso il lavoro, che subiscono umiliazioni quotidiane, che si rendono conto di non essere più la figura di riferimento per la famiglia, viene riversata sulle donne con molta facilità. "E noi, che vediamo i nostri figli feriti, uccisi, che dobbiamo subire un dolore insopportabile e inaccettabile per qualsiasi donna, noi che avremmo bisogno di aiuto, dobbiamo invece darlo a chi accanto a noi soffre e vede negata la propria dignità" così conclude Jihan, ed è impossibile per ognuna di noi non sentirsi profondamente coinvolta.
Diana, ministra degli affari sociali. Anche lei ribadisce la difficile situazione delle donne in questa realtà sociale sconvolta e distrutta dalla violenza dell'occupazione. Ci parla dei progetti preparati anche con l'aiuto della cooperazione internazionale, prima fra tutte quella italiana, progetti pronti ma che non riescono a partire perché questa situazione di continua emergenza non lo permette. I bisogni a cui dare risposte sono di vera e propria sopravvivenza: dare una casa a chi l'ha persa sotto le bombe, dare da mangiare a chi non ha più alcuna fonte di reddito, e, la cosa più terribile, cercare di costruire dei programmi di recupero proprio per i bambini. I giovani kamikaze di oggi sono i bambini della prima intifada, i bambini di oggi cosa potranno diventare domani? Questi bambini, a sei-sette anni, non hanno paura di morire! Siamo attonite.
Ahlam, segretaria generale della Women's Trade Union. La sua impostazione è nettamente politica. Ci parla di lavoro, di assistenza ai prigionieri politici e alle loro famiglie, di assistenza alle famiglie dei martiri. Obiettivo fondamentale: uno stato palestinese libero e indipendente con Gerusalemme capitale. La lotta del popolo palestinese è una lotta di liberazione e terminerà solo con la fine dell'occupazione.
Chiude Marina, la nostra amica dell'Inad Theatre che ci esprime, e non solo con le parole, il legame di affetto e condivisione che si è creato tra noi durante la loro tournée in Italia nel dicembre scorso. Ci racconta di come, attraverso il teatro, cercano di aiutare i bambini a fugare l'incubo delle bombe e dei missili, di come cercano di aiutarli a recuperare almeno un po' della loro infanzia perduta. Anche lei ci dice che la nostra presenza qui è davvero importante e ci fa sentire un po' meno impotenti, anche se il peso della responsabilità di portare con noi la loro richiesta di aiuto, la loro voce, e soprattutto di trovare risposta a questa richiesta ci spaventa un po'.
Torniamo al check-point. Nessun problema. I nostri passaporti italiani ci permettono di superarlo senza difficoltà e un taxi collettivo, dall'altra parte, ci riporta a Gerusalemme. La giornata è finita, siamo qui solo da ieri e ci pare già di essere qui da settimane.
Gaza mercoledì 6 Marzo.
Di buon ora partiamo con Mike per arrivare al valico di Eretz (l'ingresso a Gaza). Impieghiamo un paio d'ore da Gerusalemme. All'ingresso meno problemi del previsto. Attraversiamo a piedi il valico. Ad aspettarci c'è Amjad, il rappresentante del G.I.P.P. per la zona di Gaza, che ci fornisce subito il primo resoconto della giornata: morti, feriti, incursioni aeree. E sono solo le 9 di mattina!
Prima tappa Biet Lahia, le rovine della casa di un esponente di Hamas. L'hanno fatta saltare con la dinamite davanti agli occhi di tutta la famiglia. Lì vicino, il muro di recinzione di una scuola femminile non viene ormai più ricostruito, troppe volte i carri armati lo hanno distrutto per usare il cortile come parcheggio.
Ed eccoci ad uno degli incontri più coinvolgente della giornata: Nada e la sua famiglia. Ha 40 anni e 9 figli, e si è opposta alla distruzione della propria casa, a rischio della vita. Nell'ottobre scorso tre bulldozer e due carri armati hanno accerchiato la casa e Nada li ha fermati stendendosi a terra, decisa a resistere fino alla morte. Solo il pericolo di venire fulminati dal cavo dell'alta tensione ha impedito ai soldati israeliani di travolgerla con tutta la casa.
Tutto attorno le decine e decine di alberi da frutta sradicati rendono il paesaggio spettrale. Per Nada quegli alberi erano come figli e la sofferenza è stata davvero grande. Nonostante i danni e le distruzioni il lavoro continua, anche se la notte non si dorme per più di 5 ore, alle 6 di sera si sbarrano porte e finestre e si è sempre pronti a sentire il rumore dei cingoli dei carri armati e il rombo degli F16 .
Un aereo ricognitore sorvola le nostre teste. Dopo pochi minuti passano anche gli F16 e una violenta esplosione ci fa sobbalzare. Stanno bombardando. Nada, suo marito e i bambini sembrano quasi non accorgersene e continuano a raccontarci della loro impossibilità a vendere i propri prodotti ad altri che non siano gli israeliani, che li esporteranno con l'etichetta made in Israel: 15 Kg di pomodori vengono pagati mezzo euro!
Abbracci, strette di mano e ripartiamo con una cesto di fragole dolcissime per Gaza City. Lungo la strada un carro armato israeliano è appostato accanto a una scuola.
Arriviamo sul luogo del bombardamento. C'è grande caos. Un missile ha sventrato una sede della Forza di Sicurezza Palestinese. Le macerie ancora fumanti e la concitazione impotente della gente ci rende attonite. Una troupe di Al Jazira intervista Corinna. Qualche foto e ripartiamo, c'è il rischio di ulteriori bombardamenti.
La tappa successiva è ancora più sconvolgente. Visitiamo una scuola per bambini ciechi. Una imponente struttura visibilmente contrassegnata, anche sul tetto, dalle insegne delle Nazioni Unite. L'edificio è stato seriamente danneggiato dal bombardamento della sera precedente contro la sede centrale delle forze di sicurezza palestinese, proprio lì accanto. I resti del missile sono su un banco in un'aula, parecchi vetri rotti in terra, il parco giochi distrutto, gli infissi divelti. La scuola non potrà più accogliere i bambini perché i bombardamenti possono ripetersi.
La visita alle distruzioni prosegue: l'aeroporto, il porto, la casa e l'ufficio di Arafat.
Poi, un assaggio di quello che i palestinesi subiscono quotidianamente. Gaza è ormai divisa in tre zone, incomunicabili tra loro. Quando va bene si riesce a passare da una parte all'altra esclusivamente a piedi, scavalcando i cumuli di terra che bloccano la strada. Quando va male, per la strada non si passa più e allora si fa il giro dalla spiaggia, clandestinamente, rischiando i colpi dei cecchini. In questo modo sono morti, questa mattina, tre palestinesi, tra cui una donna. Non è certo una passeggiata, e anche a noi costa non poca fatica.
Torniamo al pullman e raggiungiamo la sede del Centro Palestinese per i Diritti Umani, dove incontriamo Raji Sourami. Ci fa un racconto conciso ma molto duro degli eventi delle ultime 24 ore: bombardamenti a tappeto, 10 morti, 30 feriti, diverse case demolite, ambulanze bloccate nella corsa verso l'unico ospedale di tutta Gaza. Israele sta commettendo dei crimini di guerra, sta attuando un vero e proprio genocidio, e il mondo democratico continua a tacere. Questo silenzio e il sostegno americano non fanno che rendere sempre più arroganti e violenti gli israeliani. Deve esserci un'altra Sabra e Chatila perchè il mondo intero si decida ad intervenire? L'Europa ha isolato l'Austria per l'ideologia razzista di Heider, Sharon viene accolto da tutti i governi come un presidente democratico e civile. Il suo passato e il suo presente danno una chiara idea del suo futuro, ma pare che nessuno voglia vederlo. L'Intifada è il risultato della disperazione palestinese di fronte a questo incredibile e assurdo silenzio, a questa totale cecità. Nessun governo israeliano ha mai voluto davvero la pace, da Oslo a Camp David sono sempre state solo parole, i fatti hanno dimostrato la reale politica israeliana: i palestinesi devono andarsene volenti o nolenti dalla Palestina. Nella società civile israeliana si stanno muovendo nuove posizioni contro questa politica, ma sono ancora poche e isolate voci.
Dopo uno stupendo pranzo, andiamo ad incontrare Abdel Shafi, il grande padre della lotta di liberazione del popolo palestinese. Ha ormai 82 anni, ma non ha perso nè lucidità nè capacità di analisi politica. L'incontro ci dà una grande emozione. Shafi ci sollecita a conoscere a fondo la storia per capire le radici della questione palestinese. Nei nostri futuri dibattiti dobbiamo poter spiegare con chiarezza e precisione che, a partire dal 1922, con il protettorato inglese, ogni decisione è stata imposta al popolo palestinese senza mai dargli la possibilità di scelta. Dal 1948 tre quarti del popolo palestinese è diventato profugo, una vera e propria diaspora. L'Intifada nasce dalla disperazione e l'errore dell'Autorità Palestinese è stato di non averla gestita subito, forse i kamikaze non ci sarebbero stati. Questo non è comunque un valido motivo alla mancata condanna della violenza del governo israeliano. Chiude chiedendoci cosa intendiamo fare, una volta tornate a casa, per aiutare la Palestina. Ci sentiamo inadeguate e impotenti, ma ce la metteremo tutta, glielo promettiamo. Lo salutiamo con un abbraccio, il cuore gonfio e gli occhi lucidi.
Ramallah 7 marzo 2002 , giovedì
Superato il check point di Kalandia (assistiamo alle solite scene di ordinaria arroganza e prevaricazione) incontriamo Zahira Khamal, direttrice generale del Ministero degli Affari Sociali Palestinese. Facciamo il giro dei check points di Ramallah, delle strade di accesso interrotte. E' un modo concreto di toccare con mano l'assedio e la chiusura. Quando Kalandia è chiuso, l'unica alternativa è una strada impervia e polverosa attraverso una cava di pietra. Ne percorriamo un pezzo, è terribile! E se si tenta di attraversare di notte i cecchini sparano su qualsiasi cosa si muova. Arriviamo anche alla strada che porta all'Università di Birzeit. Gli studenti, tutti giorni, devono percorrere un lungo tratto di strada a piedi per poter arrivare a seguire le lezioni, cumuli di terra alti due o tre metri sbarrano il passaggio a qualsiasi mezzo. Incontriamo una giovane donna che proprio ieri ha dovuto partorire dall'altra parte del cumulo, e, nello stato in cui può essere una donna in quel momento, ha dovuto farsi tutto il percorso a piedi per poter raggiungere l'ospedale a Ramallah. La bimba, in braccio alla nonna, dorme ignara della tragica situazione in cui è venuta al mondo.
Tornando verso la sede in cui Arafat ci sta aspettando, prigioniero in casa propria, ci fermiamo alle rovine della televisione palestinese: un cumulo informe di macerie dopo i ripetuti bombardamenti.
Eccoci all'incontro con lui, il Presidente, che al di là di critiche politiche, è e resta il simbolo della lotta di liberazione per ogni palestinese. Qui ritroviamo anche Luisa che ci ha preceduto con i quattro europarlamentari arrivati con lei ieri sera a Gerusalemme.
Il Rais, come lo chiamano i palestinesi, ci parla dell'escalation militare israeliana, degli oltre 2000 morti, dei 40.000 feriti la maggior parte dei quali avrà handicaps perenni. I danni materiali ammontano ormai a 7,5 miliardi di dollari. Gli ulivi secolari, che qui chiamano gli "alberi romani", sono stati abbattuti per più della metà. Rappresentano per i palestinesi le loro radici, la loro storia, la loro esistenza, e il danno subito va molto al di là della pura perdita economica. Arafat ribadisce la richiesta di un'interposizione internazionale che fermi immediatamente questo massacro. Esorta tutti i pacifisti a continuare la loro opera di relazione e collegamento. Il vecchio Presidente ci appare davvero aver ritrovato forza e vigore, e ancor di più quando, una mezz'ora più tardi, dopo averci salutato molto calorosamente (dobbiamo ammettere che baci e abbracci si sono sprecati, e dobbiamo anche ammettere che glieli abbiamo concessi molto volentieri!) partecipa alla manifestazione delle donne. Ce ne sono tante, con cartelli e striscioni. Cantano e gridano slogan che (ce li facciamo tradurre) inneggiano alla libertà del popolo palestinese e al suo Presidente. Gli interventi, più che altro maschili, ci lasciano un po' perplesse, ma ci spiegano che in realtà gli uomini parlano per rendere omaggio alle donne, per mostrare la loro stima e il loro rispetto. Mah! Sarà vero?
Finita la manifestazione andiamo con Lina e Resi, due italiane che vivono in Palestina ormai da oltre quarant'anni, al laboratorio di ricamo che una cooperativa di donne palestinesi ha costituito durante la prima intifada e che oggi riesce a dare lavoro e reddito a circa 300 donne. I lavori sono davvero molto belli e nessuna sfugge all'acquisto. Ci spiegano che è difficile per loro riuscire a consegnare i prodotti fuori da Ramallah, e perciò utilizzano chiunque abbia la possibilità anche solo di arrivare a Gerusalemme per spedizioni e consegne. Ci scambiamo indirizzi e e-mail, promettendo di organizzare acquisti dall'Italia. Sono ormai le quattro ed è meglio che ci avviamo al check point di Kalandia, sappiamo che con il calare del buio diventa impossibile passare.
Arriviamo con il taxi in pochi minuti e subito ci rendiamo conto che qualcosa non va. Un nugolo di ragazzini si muove con eccitazione tra lo spiazzo davanti al carro armato che blocca il passaggio e una troupe della televisione italiana, ci dicono, sta facendo un servizio proprio sui check points. Tentiamo di avvicinarci, passaporti alla mano, per tornare verso Gerusalemme ma veniamo subito bloccate dai soldati che, con il fucile puntato verso di noi, ci urlano "go back! it's closed!". Insistiamo, ripetiamo che siamo una delegazione italiana, che dobbiamo rientrare a Gerusalemme, ma non c'è niente da fare. Continuano a ripeterci "it's closed". I ragazzini che fanno un po' di confusione attorno a noi vengono minacciati pesantemente con fucili e urla molto violente, un uomo anziano che tenta di avvicinarsi viene ricacciato indietro malamente. Un altro viene spinto via con la canna del fucile. Ed ecco che partono colpi sparati in aria, è un fuggi fuggi generale. Arretriamo anche noi e ci attacchiamo al telefono. Chiamiamo il console italiano e gli spieghiamo cosa sta succedendo. Chiede di parlare direttamente con i soldati. Avanziamo lentamente, il cellulare ben alto nella mano, ma si rifiutano di parlare a chiunque. "Go back! go back!" continuano a strillare sempre più tesi. Niente da fare, accettano solo un ordine da parte del comandante in capo dell'IDF per la West Bank. Lo riferiamo al console e restiamo in attesa, un'attesa che di sereno ha ben poco. Passa ancora una mezz'ora, mentre i ragazzini continuano a fare sortite provocatorie e i soldati ribattono con urla minacciose puntando i fucili ad altezza d'uomo. Un attimo e potrebbe partire un colpo. Finalmente ci fanno cenno e, lentamente, uno ad uno, ci avviciniamo, consegniamo i passaporti e otteniamo il passaggio. Siamo però solo in otto, gli altri, Roberto, Carmen, Isadora (è arrivata ieri insieme a Luisa), Roberto Giudici, che era già qui nei giorni scorsi, sono ancora di là, sono andati a una riunione organizzativa con Mustafà Bargouti in vista dell'iniziativa di Pasqua. Lo facciamo presente ai soldati (omettendo ovviamente il nome di Bargouti) ma ci rispondono solo "vedremo, oggi siamo molto arrabbiati con gli italiani, il Milan non ha voluto venire a giocare a Tel Aviv". Siamo sconcertate. Dobbiamo però andarcene, e alla svelta, ci dicono, altrimenti ci rimandano a Ramallah. Arriviamo fino a El Ram, il secondo check point che dobbiamo forzatamente passare a piedi per essere di nuovo in territorio israeliano. Insieme a noi arriva anche un'ambulanza a sirene spiegate. Viene bloccata subito e il soldato spalanca con violenza la portiera puntando il fucile direttamente nel fianco del guidatore. Un secondo soldato spalanca le porte posteriori e, con rabbia chiaramente espressa, deve constatare che davvero c'è qualcuno che sta male. Abbiamo la netta impressione che la lascino passare perché proprio non possono farne a meno.
Torniamo in albergo con l'ansia e l'angoscia nel cuore, passando all'interno della città vecchia. Ci sembra di sentirci un po' più sicure, le facce della gente che ci sta attorno sono certo molto più amiche. In albergo ci accoglie la notizia che il resto della delegazione è arrivato qualche minuto prima di noi. Qualche momento di tensione a Kalandia, ma poi tutto bene. Un piccolo sospiro di sollievo, anche se il peso che ci opprime il cuore non riesce proprio ad andarsene.
Tel Aviv 8 marzo 2002
Oggi è la giornata della donna e andiamo ad unirci alle donne di Bat Shalom per sostenere e condividere con loro l'iniziativa che hanno preparato.
Roberto, Manuel e Carmen si sono invece uniti ai medici e ai volontari del Palestinian Medical Relief per documentare e partecipare alle loro azioni di soccorso: sono a Ramallah, dove è prevista una manifestazione all'uscita dalla moschea, dopo la preghiera. Andranno a protestare davanti al check point e, ovviamente, si temono scontri e feriti. Siamo preoccupate per la loro incolumità ma sappiamo anche che è giusto esserci.
Noi donne, invece, qui a Tel Aviv, andremo a piccoli gruppi in tutte le ambasciate a presentare il documento che Bat Shalom ha preparato per chiedere la fine dell'occupazione e l'intervento internazionale immediato affinché questa orrenda spirale di violenza abbia termine. Veniamo distribuite nei vari gruppi, chi va all'ambasciata americana, chi a quella inglese, chi a quella italiana, francese, tedesca, e via, via, a tutte quelle che hanno dato la loro disponibilità a riceverci, e sono davvero tante. Gli incontri sono mediamente buoni, qualcuno forse un po' meno, ma la cosa importante è che tutti abbiano ricevuto il documento delle donne, è molto forte e chiaro, parla di due popoli e due stati, parla di diritto al ritorno per i profughi, parla di ritiro dai territori occupati compresi Siria e Libano. Sono posizioni molto forti, posizioni su cui le donne di Bat Shalom hanno molto discusso e sofferto, ma ne è uscito un documento unitario e convinto, e questo è molto importante in una società così lacerata e contraddittoria come quella israeliana. Aver portato questa voce diversa alle ambasciate dei paesi che dovrebbero intervenire per porre fine al massacro, aver chiesto di continuare ad incontrarsi e a costruire rapporti di collaborazione è stata davvero una grande azione, e noi, con orgoglio, l'abbiamo condivisa.
Dopo gli incontri alle sedi diplomatiche ci ritroviamo tutte insieme al sit in a Ben Zion Avenue, uno dei due punti della città dove le Donne in Nero, ogni venerdì, manifestano la loro silenziosa opposizione alla politica di guerra dei governi israeliani. I clacson di approvazione si alternano agli insulti urlati dai finestrini delle automobili che passano. Normale amministrazione. Qui ci vuole davvero coraggio per restare immobili, tranquille, decise, da 15 anni, all'angolo di quella strada, a urlare silenziosamente il proprio dissenso e il proprio dolore.
Piegati gli striscioni, riposte le manine nere, salutiamo le nostre amiche. Anche loro ci ringraziano della nostra presenza qui, anche loro ci dicono quanto sia necessario che riportiamo la loro voce di dissenso e di opposizione fuori dai confini di Israele. La voce di Sharon sta sulle bocche dei cannoni, quella delle donne per la pace sta nelle strade, caparbia, da tanti anni, e noi dobbiamo raccontarlo al mondo intero.
In albergo, a Gerusalemme, ritroviamo il gruppetto che è stato a Ramallah. Sono tutti sani e salvi, non ci sono stati scontri drammatici. Altrove, invece, ancora morti e feriti. La violenza non si ferma. L'occupazione continua, inesorabile.
Atlit 9 marzo 2002 sabato
Andiamo alla stazione degli autobus, in cima alla Jaffa Road, dove ci aspetta il pullman che Yesh G'vul (C'è un limite, un po' come il nostro Ya Basta) ha organizzato. C'è gente di tutte le associazioni, da Gush Shalom a Peace Now, a New Profile, a Ta'ayush. La nostra meta: la prigione n. 6, ad Atlit, vicino Haifa. Lì sono detenuti tre Refusnik, ufficiali e sottufficiali dell'esercito che hanno rifiutato di continuare a servire nei territori occupati. E' stata una scelta dura, dirompente, molto coraggiosa, in una società in cui l'esercito fa parte della vita quotidiana di ogni cittadino, maschio o femmina che sia. E vedere tante persone, giovani ma anche tanti capelli bianchi, donne, famiglie intere con i bambini, partire insieme per un viaggio che qui viene considerato lungo e faticoso (due ore di pullman!), il giorno di shabat, è qualcosa di davvero speciale.
Arriviamo ad Atlit e saliamo, come un lungo colorato serpentone, la collina di fronte alla prigione. I Refusnik richiusi là dentro potranno vederci e sentire la nostra solidarietà. Noi manteniamo il nostro gruppetto compatto, vogliamo sottolineare una solidarietà e un sostegno internazionale. Slogan, canti,saluti, e dal cortile della prigione i Refusnik ci rispondono sventolando un drappo rosso. Ci vedono, ci sentono e questo sicuramente li aiuta.
In questo paese il fatto di essere qui ad infrangere una legge con la semplice esortazione a rifiutare il servizio militare e l'occupazione è qualcosa di grande, di importante. A noi italiani può sembrare un atto poco significativo, in fin dei conti siamo "abituati" a infrangere leggi e politiche che riteniamo ingiuste, ma per gli israeliani è diverso, è qualcosa che ci definiscono "estremo", e sono qui in tanti a farlo.
Un po' cotte dal sole e dalla non proprio agevole scalata, torniamo giù. Sotto una tenda una donna, chiaramente palestinese-israeliana, prepara una specie di crèpe, impastando e cuocendo al momento, e ce la serve ripiena di una fantastica crema a base di formaggio, origano e peperoncino: il labanè.
Stanche ma rifocillate, torniamo a Gerusalemme.
Ci resta il tempo per andare a dare un'occhiata al muro del pianto e per un breve giro nella città vecchia. Purtroppo ci imbattiamo in una nuova occasione di amarezza: un gruppo di almeno una quarantina di giovani ebrei, camicia bianca, kippà in testa e passo baldanzoso, esce dal muro del pianto e attraversa, cantando a squarciagola, tutto il quartiere arabo. E' una chiara e minacciosa provocazione a cui assistiamo esterrefatte. Una bimba palestinese (avrà cinque o sei anni), all'angolo della strada, ripone velocemente la sua scatola di datteri che cerca di vendere ai pochi turisti in giro per la città e si rannicchia di corsa al riparo di un portone. I suoi occhi spalancati ci guardano, non abbiamo bisogno di parole per leggervi dentro paura e sgomento.
Betlemme 10 marzo 2002, domenica
Stamane all'alba Roberto e Carmen sono tornati in Italia. Noi all'una abbiamo appuntamento con Mike per farci portare in aeroporto. In quattro, insieme a Luisa, decidiamo di andare di corsa a Betlemme, le altre restano a Gerusalemme, per alcune di loro l'eventualità di perdere l'aereo per un ritardo qualsiasi è davvero impossibile.
Jihan ci ha telefonato ieri sera, era disperata. I carri armati sono entrati in tutta la città, hanno bombardato ovunque e sui tetti delle case sono appostati cecchini pronti a sparare su chiunque osi girare per le strade. Oggi ci saranno i funerali di due delle tante vittime: una ragazzina di 15 anni e un ragazzo, feriti mortalmente due giorni fa durante una delle numerose e ripetute incursioni.
Al check-point c'è il deserto totale. Solo noi attraversiamo, in un silenzio irreale.
Dopo una breve camminata troviamo un taxi e raggiungiamo, facendo un lungo giro perché le strade sono bloccate dai carri armati, la piazza principale, quella della Natività. Davanti alla moschea, proprio dall'altro lato della piazza, molto uomini, con bandiere verdi e nere. Jihan, che ci raggiunge, ci spiega: le bandiere verdi sono quelle di Fatah, quelle nere sono le bandiere del dolore.
Abbiamo purtroppo poco tempo, l'aereo ci aspetta, non possiamo restare per partecipare al corteo funebre, perciò, con Luisa che indossa la sua fascia di parlamentare europea, ci avviciniamo alla moschea e, tra saluti calorosi e strette di mano, cerchiamo di esprimere in una breve ma chiara presenza la nostra condivisione del dolore e dell'opposizione a questa assurda continua violenza che la gente comune, la popolazione inerme, subisce quotidianamente.
Torniamo al check-point con il cuore a pezzi e un senso di angoscia e impotenza infinito. Passiamo, e non riusciamo proprio a non ribattere, anche se con molta calma, all'arroganza del soldato che ci controlla i passaporti. Sulle colline, tutto attorno, gli insediamenti, di cui molti in costruzione, sembrano minacciose e opprimenti fortezze che stringono d'assedio la città di Betlemme.
Camminiamo fino all'incrocio poco lontano per tentare di trovare un taxi. Di solito ce ne sono tanti, ma oggi nessun palestinese può entrare o uscire dal check-point, ed è tutto deserto.
Un'ultima, spiacevole e angosciante esperienza ci aspetta. Una squadra di una decina di soldati israeliani ha fermato un palestinese. Il poveretto indossa una giacca, e subito è stato sospettato di nascondere una bomba. Lo hanno circondato, buttato a terra con i fucili spianati e costretto, a calci, a svestirsi.
Andiamo subito a vedere, Luisa in testa. Ci intimano di andarcene con fare minaccioso, ma insistiamo, vogliamo vedere, siamo una delegazione italiana, se il palestinese non ha nulla di pericoloso con sé devono lasciarlo libero. Finché, dopo un po', non gli restituiscono i documenti, che sono per lui l'unica possibilità di muoversi e vivere in Gerusalemme, restiamo lì, immobili e determinate. L'uomo, finalmente libero, ci passa accanto, gli occhi ancora carichi di terrore, e ci sussurra "shukran", grazie. Probabilmente, se non fossimo state lì, gli avrebbero sequestrato la ID card e lo avrebbero arrestato. Succede tutti i giorni, a tanti, a troppi.
Scappiamo in fretta, l'aereo ci aspetta e le nostre compagne, in albergo, stanno aspettandoci certamente con ansia.
Da Tel Aviv, 12 marzo 2002 - Corinna
Domenica pomeriggio, tra abbracci e occhi lucidi, il gruppo è partito e io sono rimasta qui, per un paio di giorni, da Dita, la mia amica israeliana, donna in nero e una delle organizzatrici della Coalition of Women for a Just Peace.
Ho saputo solo ieri sera che in aeroporto le donne della delegazione hanno subito l'ennesima prevaricazione: la security, dopo aver perquisito bagagli e persone in modo particolarmente minuzioso e umiliante, ha confiscato il computer di Teresa, quello con cui abbiamo scritto i nostri reports, dicendo semplicemente che glielo avrebbero spedito in seguito a Roma dopo averlo controllato. Nessuna spiegazione, nessuna precisa ricevuta. Stamattina, con l'aiuto di Dita, siamo riuscite a sapere che non è andato perduto. Torna a Roma con il mio stesso aereo oggi pomeriggio. Tiro un sospiro di sollievo. Anche se mi resta il pensiero del mio passaggio, oggi, tra le mani della security. Speriamo bene!
Ieri sera ho incontrato le donne del gruppo di Tel Aviv, le conoscevo già tutte ed è stato bello rivederle. Mi hanno parlato del loro progetto di andare a Gaza venerdì prossimo, ma non avevano nessun riferimento per prendere contatto con le donne palestinesi. Sono stata molto contenta di fare da tramite, da "ponte", ho fornito nomi e numeri di telefono. E' questo che noi donne in nero facciamo, no?!
Mi mancano le donne del gruppo (anche i due maschietti, sono stati bravissimi a sopravvivere al gineceo in cui si sono trovati immersi loro malgrado!). Una settimana passata qui, insieme, sembra infinitamente più lunga, l'intensità degli incontri e delle emozioni condivise è tale che perdi totalmente il senso del tempo.
Molte di loro sono venute in Palestina per la prima volta, e pur sapendo dove stavano andando, pur avendo partecipato a tanti incontri in Italia, non immaginavano quanto la realtà potesse essere dura e dolorosa. Per me non era la prima volta, ma poco cambia. Questa gente, questo popolo, la sua disperata determinazione, la sua incredibile volontà nel continuare a sperare, ti entra dentro, ti sconquassa, niente ti sembra più uguale quando torni alla tua vita di tutti i giorni. Non puoi fare a meno di sentirti coinvolta, provi prima rabbia poi, via via, dolore, un dolore profondo. E torni. Forse, oltre al mal d'Africa esiste anche il mal di Palestina .
E' quello che è successo a me e che, ne sono certa, succederà a tutte le donne che hanno condiviso con me questo viaggio. I palestinesi ci chiedono aiuto, hanno bisogno della nostra presenza, della nostra solidarietà, hanno bisogno di non sentirsi soli. E un giorno, finalmente, tornando, ci faremo stampare, con orgoglio e tanta tanta commozione, il timbro d'ingresso nello Stato Palestinese! Inshallah!
Vi abbraccio tutte: Teresa, Eliana, Elvira, Maria Teresa, Erminia, Lorenza, Daniela, Carmen, Isadora, e anche voi, maschietti, Manuel (il cucciolo coraggioso) e Roberto. A presto. Salam. Shalom. Corinna