AFGHANISTAN: LA PACE IMBAVAGLIATA
UN'ANALISI LUCIDA E APPASSIONATA DEGLI ULTIMI TRENT'ANNI DI STORIA AFGHANA, TRA INTERESSI INTERNAZIONALI, SILENZI E RESISTENZA. PROTAGONISTE SOPRATTUTTO LE DONNE.


luglio 2001, di Walid Karim. Traduzione a cura di Iemanja'

 

Se non fosse stato per la loro fede, sarebbe stato loro più difficile impiegare tutte le proprie energie nel compito di martirizzare la gente, come ora facevano con la maggiore tranquillità di coscienza.
Liev Tolstoy, "Resurrezione"

Se dovessimo indovinare su quale popolo è caduta la maledizione della guerra combinata con una buona misura di disinformazione, più una porzione di interessi di terzi e un'altra dose di ingerenze straniere, ci potremmo riferire disgraziatamente a troppi luoghi nel pianeta.
Però sarà facile capire che parliamo di Afghanistan, fornendo piste orrende come ad esempio più di due decadi di olocausto ininterrotto, un'opposizione democratica fisicamente annichilita quasi del tutto, più di un milione di morti, un esodo ­ il più numeroso del mondo ­ che è arrivato a superare i sei milioni di anime, un suolo irrigato con incompatibili progetti di oleodotti, coltivato con vaste piantagioni di oppio che è fonte dei due terzi di quello consumato in Occidente e seminato con mine che hanno mutilato o assassinato centinaia di migliaia di vittime.
La sproporzione tra lo scarso inchiostro e l'abbondante sangue versato sull'Afghanistan, è motivo più che sufficiente per fermarsi e analizzare lentamente, ampiamente e monograficamente tutti e ognuno dei motivi che hanno spinto il popolo afghano verso un tunnel genocida la cui fine neanche si intuisce.
Allo stesso modo ancora sarebbe opportuno soffermarsi a riflettere senza intenzione di essere esaustivi su cosa c'era in Afghanistan prima della pretesa misteriosa nascita dei talebani e del loro cosiddetto enigmatico successo militare. Se vogliamo chiedere alla gente comune o anche ai movimenti sociali che cosa o chi ha preceduto i talebani, ci sorprenderà per il suo radicamento maggioritario il quasi assoluto vuoto nella memoria che si traduce in una totale ignoranza della recente realtà afghana.

IL LETALE CICLO DELL'INTERVENTO STRANIERO

Il peccato per cui il popolo afghano ha dovuto pagare un prezzo così alto alla storia è quello di occupare un territirio cuscinetto tra zone di importanza fondamentale per le potenze mondiali e regionali. D'altro lato, il costituire una realtà tanto eterogenea, acefala e di così varia composizione multietnica, è servito tradizionalmente per rendere difficile il controllo del territorio e dei suoi abitanti da parte di agenti esterni, incapaci di conferire con interlocutori rappresentativi.
Questa particolarità ha aperto la strada dell'impunità a piccoli caudillos sui quali le potenze mondiali e regionali hanno di volta in volta depositato o ritirato ­ molto opportunamente ­ la loro copertura diplomatica, finanziaria o militare. Le organizzazioni democratiche e indipendenti non hanno mai meritato l'attenzione dei padroni del mondo e sono state bersaglio prioritario dei fronti di guerra afghani.
Durante le decade dei 60 e dei 70 il movimento di sinistra più radicato era il partito marxista Shula-yi-Jamed (Fiamma Eterna), essendo egemonico in circoli chiave come l'Università di Kabul e con radici popolari abbastanza più profonde del partito Democratico del Popolo dell'Afghanistan (PDPA).
Il Cremlino preferì confidare nelle due fazioni tra loro antagoniste che formavano il PDPA: Klaq (Popolo) e Parcham (Bandiera), fino al punto di forzare artificialmente la loro impossibile unificazione in diverse occasioni. Come esempio del suo funzionamento, il PDPA non realizzò mai un congresso fin dalla sua fondazione nel 1965 fino al 1990. Buona parte della base sociale tanto del Khalq come del Parcham era costituita da ufficiali dell'esercito afghano. Questi furono decisivi al momento di prendere il potere nel colpo di stato che il 27 aprile del 1978 pose fine alla Repubblica dell'Afghanistan, proclamando la Repubblica Democratica dell'Afghanistan.
Così, al contrario di quanto di solito si crede in Occidente, l'intervento dell'esercito dell'Urss nel dicembre del 1979 non fu portato a segno per farla finita con un qualche governo monarchico, ne' islamico, ne' ostile verso gli interessi del Cremlino, ma all'esatto opposto per deporre il governo filosovietico di Hafizullah Amín, lider khalqi che aveva portato il paese al caos mediante sanguinose purghe che non solo stroncarono la vita di migliaia di oppositori, ma anche quella di molti parchamis. Amín fu assassinato insieme a molti suoi seguaci come preludio dei dieci anni di lotte interne che aspettavano la popolazione afghana.
Alla soglia del suo collasso, l'Urss fece a meno della parvenza di ciò che rimaneva del regime filosovietico a Kabul spingendo il suo ultimo uomo in Afghanistan, Mohammed Najibullah, a cambiare pelle e cercare nuove alleanze, compreso tra i suoi antichi nemici per perpetuarsi nel potere. Nel 1991 si sostituisce l'insegnamento obbligatorio del russo con quello dell'inglese o del francese. L'ex PDPA cambia il suo nome in Watán (Patria), si finisce per eliminare tutte le reminiscenze stataliste dello studio e questo comincia a incorporare riferimenti religiosi, allo stesso modo che la legge inizia ad assumere comandamenti del codice islamico o sharia nell'ambito penale e civile.

TALEBANI E YEHADIS: DUE FACCE DELLO STESSO DOLLARO

Dopo gli Accordi di Ginevra dell'aprile del 1988 nei quali si firmò la ritirata delle truppe sovietiche, l'Afghanistan fu abbandonato alla sua sorte tanto dai media e dalle agenzie umanitarie quanto dalle agende delle cancellerie. Sfiduciata e incredula a causa della sua stessa esperienza di tutto ciò che ha a che vedere con interventismo, promesse e salvatori della patria interni ed esterni, la gente afghana avrebbe potuto festeggiare il fatto di non importare più a nessuno per la prima volta in dieci anni, se non fosse per il fatto che fossero stati lasciati alla mercè di signori della guerra armati fino ai denti.
Nessuno sembrava essersi fermato allora a pensare a come neutralizzare gli impressionanti arsenali letali di ultima generazione che erano rimasti lì, allo stesso modo che non ci fu chi proponesse di bloccare i grossi conti con migliaia di milioni di dollari provenienti da governi di tutto il mondo diretti alle differenti fazioni. L'appoggio finanziario che l'URSS assicurò ai suoi leali governi a Kabul superò più di 50 volte quello che era stato investito durante i 25 anni precedenti al 1979 in Afghanistan, in ragione di circa 5 miliardi di dollari all'anno. Quello che gli USA spesero appoggiando un pugno di partiti fondamentalisti che avevano le loro basi in Pakistan continuò a crescere soprattutto durante il mandato di Ronald Regan fino a superare i 500 milioni di dollari annui, quantità che fu come minimo pari a quella offerta da Arabia Saudita e da altri stati mecenati della guerra. Buona parte dell'arsenale che risale a quell'epoca, come gli Stinger nordamericani o gli Scud sovietici, continuano ancora oggi a compiere la loro missione a pieno ritmo.
A partire dal 1988 l'amalgama fondamentalista avanza così lento come può fino a Kabul, scontrandosi non solo con il governo di Najibullah molto indebolito ma anche tra i suoi stessi componenti e distruggendo tutto ciò che incontra sul suo cammino. Gli USA e il resto dei tradizionali sostenitori dei muyaidìn sembrano perdere ogni interesse per l'Afghanistan quando alla fine si realizza la presa di Kabul nel 1992. Da allora si perpetua l'inerzia nella battaglia per il potere tra i gruppi di muyaidìn, sfociando in quattro anni di inimmaginabili abusi contro la popolazione civile nella più assoluta impunità.
In quasi un lustro di amnesia per l'estero, Kabul viene totalmente rasa al suolo, si saccheggia e vende al miglior offerente forestiero il patrimonio culturale e storico nazionale, il saccheggio acquisisce un fetore quotidiano e si estendono come piaghe i matrimoni forzati, i rapimenti e gli stupri di donne. Le Nazioni Unite hanno riconosciuto responsabile di questi crimini il governo, presieduto da Burhamidán Rabbaní. E così continua ad essere una decada più tardi.
Mentre la popolazione non ne può più dei cosiddetti yehadis e cresce nelle menti afghane l'odio contro i nuovi tiranni, nelle scuole religiose del Pakistan già da anni è in gestazione un movimento in gran parte composto da giovani, soprattutto orfani e nella loro totalità maschi: i talebani. Alimentati chiaramente dal regime di Islamabad e con stretti legami con i servizi segreti (Inter Services Intelligence), queste migliaia di alunni a mala pena hanno avuto contatti con donne o con il loro stesso paese, nel quale alcuni non sono neanche nati e da cui altri sono fuggiti da bambini.
Senza esperienza in campo di battaglia e senza disciplina militare ne' un comando unico facilmente identificabile, dalla loro reclusione nei seminari pakistani i talibani passarono in un paio d'anni a prendere Kabul e da lì a dominare più di due terzi del paese, con circa 25 milioni di abitanti e un territorio di142.715 Km2 più esteso della Spagna.
Come ciò sia potuto accadere va ricercato più in fattori esterni che nei meriti dei talebani. Da una parte, la popolazione esausta non ricevette i nuovi signori della guerra con le braccia aperte, però neanche pose ostacoli a chi si scontrava con i protagonisti di allora di anni di barbarie. D'altro canto, l'inestimabile appoggio ricevuto direttamente o indirettamente da parte di altri paesi andò crescendo man mano che si ritirava quello stesso aiuto ai suoi antichi beneficiari yehadi, che si erano rivelati incompetenti nella gestione degli interessi stranieri.
La questione del riconoscimento accordato ai talebani è qualcosa che fa impazzire il più sensato degli analisti, posto che oramai, malgrado solo tre stati li abbiano riconosciuti ufficialmente, i talebani hanno civettato con la diplomazia di mezzo mondo, inclusa quella nordamericana, la cui politica afghana può essere qualificata con qualsiasi aggettivo meno che trasparente. La maggioranza degli stati implicati, anche quelli che teoricamente sono nemici dichiarati dei talebani, hanno soppesato la possibilità di riconoscerli, in un momento o in un altro. Non per niente, dato che i talebani hanno vari assi nella manica. Il primo è essere padroni indiscussi di una zona strategicamente di valore per quelli che abbiano interessi nell'area. Un'altra importante carta è la presenza nel loro territorio di un Usama Ben Laden sotto stretto controllo, la cui estradizione negli Stati Uniti ben potrebbe in un dato momento essere motivo di qualsiasi contropartita.
Sembra che nessuno osi fare il primo passo del riconoscimento, praticando allo stesso tempo la politica del doppio metro nell'attesa che i yehadis si riorganizzino e recuperino ciò che hanno perso. O nell'attesa che l'opinione pubblica si dimentichi un'altra volta che esiste l'Afghanistan.

DANDO CALCI INDIETRO

Dalla metà degli anni '90, l'Afghanistan viene associato giustamente con parole quali burqa e talebani. La denuncia della violazione dei diritti umani è diventata internazionale, specialmente la misoginia istituzionalizzata praticata dall'attuale regime di Kabul mediante l'aberrante legislazione sancita contro la popolazione femminile, qualcosa che ha finito per essere battezzato come "genocidio di genere". Le voci di condanna contro il regime talebano si sono propagate nel mondo con una forza unanime paragonabile solo ai crimini che l'hanno risvegliate. Malgrado non si alzino, disgraziatamente, troppe voci di protesta contro l'alternativa yehadi, così vezzeggiata dall'Occidente.
Tutti i pronostici sul futuro immediato dell'Afghanistan paiono quasi così poco attendibili come quelli che si riferiscono al lungo periodo. Numerose fonti convergono nel segnalare l'estate del 2001 come il punto di partenza di un nuovo tentativo ­ per niente autonomo ­ delle truppe yehadis per cercare di recuperare il terreno e il tempo perduto.
Il generale Rashid Dostum si è mostrato euforico, cosa che si deve intendere come un desiderio irreprimibile di tornare a divertirsi legando prigionieri di guerra ai cingolati dei suoi carrarmati. Ad aprile dichiarava dal vicino Uzbekistán di essere disposto a unire le sue forze alle altre forze yehadis e di avere ricostituto lo stesso esercito che si era autodistrutto in lotte intestine anni fa.
All'inizio dell'aprile 2001, Ahmad Shah Massud, ministro della guerra afghano tra il 1992 e il 1996, partiva dal suo tradizionale alleato in Quai d'Orsay per un giro tra le istituzioni europee. E' stato ricevuto "con onori" dalla presidente del Parlamento Europeo, Nicole Fontaine che lo ha esaltato politicamente come se fosse il Mandela afghano, uno il cui nome fa tremare qualunque abitante di Kabul. Tra molti altri illustri europei, il Ministro degli Esteri francese Hubert Védrine ha trovato anche lui uno spazio nei suoi affari per mostrare il suo appoggio a Massud, e così anche il massimo responsabile di Politica Estera e di Sicurezza Comune dell'Unione Europea, Javier Solana, con il quale si suppone che non abbiano parlato di politica agraria. Questa visita, così come l'altra, anche questa volta al Parlamento Europeo, di tre presunte donne afghane ­ probabilmente emissarie di Massud ­ forse serve per porre le basi di una giustificazione alla muta che si avvicina. Nel 1998 Massud bombardava Kabul con insistenza e il 13 dicembre uno dei suoi missili colpì il cinema di Bahaaristán. Ci furono più di 100 vittime tra morti e feriti. Asif, testimone oculare, racconta come "la maggioranza aveva le membra amputate, e avevamo difficoltà a camminare perché inciampavamo nel calpestare la carne sparsa al suolo".
Se tutto procede vento in poppa per i guerrieri yehadis e c'è pertanto un altro bagno di sangue civile, ciò verrà giustificato internazionalmente vantando una supposta difesa degli stessi diritti della donna che sotto il controllo di Massud sono stati e sono calpestati con una passione delirante non molto lontana da quella esibita dai talebani.
Però se, al contrario, il vento della guerra soffia favorevole per i talebani, quasi con ogni certezza si avanzerà unanimemente verso il loro riconoscimento internazionale, magari con un governo misto che integri una o un'altra comparsa di poco conto, per segnare così una inesistente linea di demarcazione tra un falso prima e un irreale poi. Come la linea assente che separerebbe oggi yehadis e talebani.
Solo due mesi prima della visita di Massud, il ministro afghano della Sanità veniva ricevuto dal governo di Parigi che dava così un riconoscimento al regime talebano. E allo stesso tempo si faceva notare che il popolo afghano è l'autentico e unico bersaglio delle sanzioni che la mal chiamata Comunità Internazionale ha imposto ai talebani.

ALLA FINE DEL TUNNEL, LA RESISTENZA

Numerose iniziative di turpitudine criminale consistenti nell'appoggiare alcune delle fazioni belligeranti, sono state lanciate fino al momento attuale contro ogni logica che dice che chi semina tormenta raccoglie tempesta.
La musica per i prossimi tempi, se non cambia niente, sarà più morte, più fame e più esilio. Nuovi accampamenti di rifugiati vengono stanziati in Peshawar, città pakistana vicina all'Afghanistan, dalla fine del 2000. Vicino all'accampamento di Jalozai si estende uno di questi, dove si ammassano non meno di 14000 famiglie del nord dell'Afghanistan senza acqua, alimenti, medicine, ne' alcun aiuto. Fuggono dall'orrore della guerra che si combatte al nord del paese tra i talebani e gli yehadis.
Il governo pakistano ha minacciato di non riconoscere come rifugiati la numerosa popolazione afghana residente sul suo territorio e la presenza dell'ACNUR si è ridotta al dono di poche tende ­ con il logo dell'organizzazione ben visibile, questo sì ­ in un paesaggio desolante in cui a vista d'occhio non si riesce a scorgere la fine del precario accampamento di massa. Un breve comunicato informa a metà di maggio della "normalità" del posto. 25 bambini e bambine muoiono a Jalozai per disidratazione.
Il panorama da lontano forse può stimolare la rassegnazione. Però malgrado tutto tra la popolazione afghana c'è resistenza. L'opposizione democratica è decapitata ai minimi storici, però anche così non cede un palmo nella sua lotta per quanto difficile essa sia.
Un chiaro esempio lo costituisce l'Associazione Rivoluzionaria di Donne dell'Afghanistan (RAWA). In esilio a Jalozai o Islamabad, tanto come nell'interno, a Kabul o a Herat, chiamano alla ribellione le loro compatriote. Hanno imparato molto bene a muoversi in un ambiente ostile e a sapere schivare le zone infide che sono costate la vita ad altre compagne.
RAWA fu fondata nel 1977 dalla leader di sinistra Meena Keshwar Kamal, che credeva nella forza delle donne per organizzarsi in modo indipendente. Un killer del sanguinario partito yehadi Hezb-e-Islami l'assassinò all'età di trenta anni, molto probabilmente con la complicità dei servizi segreti del PDPA (KHAD). Si tratta dell'unica organizzazione di donne afghana che si dichiari femminista e porta avanti il suo lavoro politico e sociale clandestino nella propria terra e semiclandestino in Pakistan. Essere solo donne in un luogo dove tale condizione implica essere meno di niente è stato, paradossalmente, un fattore che ha reso loro possibile sopravvivere politicamente. I sospetti che possono suscitare nel quotidiano sono minimi e in cambio sono molte le possibilità di muoversi con libertà realizzando il loro lavoro con altre donne non coscientizzate.
RAWA possiede più di mezzo centinaio di scuole clandestine in varie provincie afghane. Allo stesso modo studiano nei loro centri in Pakistan circa 700 bambini e bambine. Un migliaio di donne beneficia oggi di 47 corsi di alfabetizzazione. In Afghanistan tutelano 33 orfanotrofi con un massimo di 20 posti in ognuno di essi per motivi di spazio e sicurezza, mentre in Pakistan gli orfanotrofi che funzionano sono attualmente 4 con circa 200 giovani; circa 40 donne in Pakistan e altre 100 dentro l'Afghanistan lavorano nei laboratori che RAWA gestisce per generare risorse economiche, specialmente per le numerose vedove di guerra.
Sono più di 2000 attiviste, distribuite in egual misura tra il Pakistan e l'Afghanistan con l'imprescindibile appoggio di altrettante simpatizzanti e di numerosi uomini. Questi ultimi, malgrado non facciano parte dell'organizzazione, sono un ingranaggio essenziale nel funzionamento del RAWA.
Con niente da perdere e molto per cui lottare, il minimo che esigono RAWA e altre organizzazioni di opposizione democratica è la fine dell'impunità per i criminali di guerra come passo previo per ottenere un governo laico e democratico in Afghanistan.
Sarà impossibile raggiungere questo obiettivo se continuiamo a permettere ai nostri governi di insistere ad appoggiare fantocci letali e torniamo a ignorare che l'Afghanistan esiste.

Fonti consultate:
-The Afghanistan Republic Annual, Abdul Aziz Danishyar, 1974
-Afghanistan, Louis Dupree, Princeton University Press, 1980
-Afghanistan: The Forgotten Crisis, Barnett R. Rubin - WRITENET (UK), 1996
-Refugiados de Afganistán: El grupo de refugiados más grande del mundo, Amnistía Internacional, ASA 11/16/99/s, Novembre 1999
-Afghan Communism and Soviet intervention, Henry S. Bradsher, Oxford University Press, 1999
- diverse testimonianze di afghane e afghani in esilio