Il proletariato
Ma
è proprio vero che il proletariato non esiste più? E cosa intendiamo
quando parliamo di proletariato? Sono ancora valide le categorie marxiste che
lo hanno definito? In un interessante articolo Michele Basso affronta la questione.
REDS. Luglio 2007.
Qualche
decennio fa, gli avversari del marxismo sostenevano che il capitalismo, dopo
due guerre mondiali, intervallate dalla grande crisi, si stava avviando verso
la definitiva stabilizzazione. Secondo loro, l’uso sapiente delle politiche
keynesiane, i controlli statali sulle operazioni finanziarie, la formazione
tecnica dei disoccupati, la crescita del welfare, permettevano di scongiurare
il ritorno delle crisi cicliche, sostituite al massimo da piccole recessioni.
Chi sosteneva che nel capitalismo le crisi economiche erano inevitabili, veniva
tacciato da visionario.(1)
Si sosteneva che la crescita della produzione avrebbe migliorato sempre più
il livello di vita delle masse, accresciuto la diffusione della cultura e ridotto
progressivamente il conflitto sociale. Per questo, il movimento operaio avrebbe
dovuto capire che non c’era più spazio per la lotta di classe e
la rivoluzione, ma solo per riformismo, che allora almeno era inteso come aumento
dei salari, estensione delle garanzie sociali, assistenza, come promettevano
i laburisti, “dalla culla alla tomba”, e non come tagli alle pensioni,
accrescimento dell’orario di lavoro, e le tante cure che i riformisti
di oggi ci propinano.
Questa ideologia era il riflesso di una fase di forte sviluppo economico, dovuto
in gran parte alla ricostruzione delle immani distruzioni della guerra. Il saggio
di profitto era alto, quindi era possibile distribuire qualche briciola anche
ai lavoratori. Si faceva l’esempio degli alti salari della Ford, ma si
teneva nascosto che erano frutto di pesanti lotte, e non una graziosa concessione
dell’impresa. Soprattutto si tenevano celati i precedenti filonazisti
del fondatore dell’impresa, Henry Ford. Quanto alla Fiat, oltre che per
la repressione e per i licenziamenti dei lavoratori di sinistra, brillava per
taccagneria nel concedere aumenti salariali. Spesso operai di tale impresa,
nel parlare, accompagnavano il discorso con strani gesti, gli stessi che facevano
alla catena di montaggio. La ripetitività meccanica del lavoro condizionava
l’insieme dei movimenti anche al di fuori della fabbrica, proprio come
in “Tempi moderni” di Charlot.
Erano altissime le cifre degli incidenti sul lavoro, spesso mortali, e molti
operai del settore chimico si ammalavano di cancro. I più attivi sindacalmente
e i più politicizzati venivano discriminati e costretti ai lavori più
ingrati, quando non erano licenziati.
Come si vede, il neocapitalismo progressivo era una favola reazionaria, alla
quale non credevano gli operai, sempre sfruttati, ma i piccoli borghesi, e il
PCI, a caccia di voti, si adeguava nei fatti a questa mentalità, anche
se fingeva di essere marxista.
Oggi, per sostenere che il marxismo è fallito, si usano argomenti diametralmente
opposti a quelli sopra citati: è subentrata una crescente instabilità
sociale, c’è una crescente precarizzazione della forza lavoro manuale
e intellettuale, lo spostamento di fabbriche verso paesi a basso livello salariale,
la terziarizzazione, ecc.
In realtà, chi ha presente l’ABC del marxismo ha chiaro che il
capitalismo è il più instabile dei sistemi economico-sociali.
Marx ed Engels non l’hanno detto in qualche inedito conosciuto solo da
pochi studiosi, ma nel “Manifesto del partito comunista”. Vediamo
qualche passo: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare
di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi
l’insieme di tutti i rapporti sociali… Il continuo rivoluzionamento
della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali,
l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese
da tutte le altre”. E più in là: “L’operaio
moderno… invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre
più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe.
L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più
rapidamente della popolazione e della ricchezza”. E sempre dell’operaio
si dice: “L’incessante e sempre più rapido perfezionamento
delle macchine rende sempre più precarie le loro condizioni di esistenza“.
Molti, in passato, hanno ironizzato su questi punti. Oggi ci troviamo di fronte
a masse di disoccupati, di cinquantenni licenziati che non trovano più
lavoro e non possono andare in pensione, di finti lavoratori indipendenti che
si differenziano dai salariati soltanto perché meno garantiti, di precari
a vita, di occupati classificati poveri perché il loro salario è
assolutamente insufficiente, di ricercatori scientifici completamente proletarizzati,
con uno stipendio al massimo di mille euro al mese. Si moltiplicano le tipologie
di lavoro che sostituiscono il posto fisso: lavori part-time, a chiamata, a
progetto, interinali, ecc. In altre parole, si tratta della fine di ogni certezza,
di ogni garanzia. I lavoratori ritornano ad essere ciò che erano nel
passato, dei “senza riserve”, proletari, perché avevano solo
la prole. Oggi non hanno neppure quella, perché molti, per la difficoltà
di avere un’abitazione e un reddito passabilmente sicuro, rinunciano ad
avere figli.
I periodi di relativa stabilità del posto di lavoro degli anni sessanta
(forse sarebbe meglio dire la possibilità di trovare un altro lavoro
dopo averlo perduto) non sono la regola nel capitalismo, ma l’eccezione.
Tutto ciò ha un effetto anche sul piano psicologico. L’incertezza
dell’uomo contemporaneo non deriva dalla natura umana - non erano incerti
Dante, Leonardo, Cromwell, Giulio II, Savonarola, i calvinisti - non nasce nelle
pieghe recondite dell’animo umano, ma nasce da un tipo di società
che vive sull’insicurezza, la coltiva, la favorisce. Chi ha sicurezza
nel proprio lavoro non è facilmente ricattabile, può rifiutare
di fare lavori pericolosi o straordinari secondo le esigenze dell’impresa,
è in grado di condurre lotte anche dure. Se ci fosse piena occupazione,
i salari salirebbero, per questo una parte della società è tenuta
in stato di disoccupazione (il cosiddetto esercito di riserva), per mantenere
bassi, attraverso la concorrenza i salari. Il capitale ha bisogno di ricreare
miseria, perché è il dominio del lavoro morto, oggettivato, sul
lavoro vivente.
Quindi la precarizzazione di massa è una conferma, non una smentita dell’analisi
marxista.
Qualcuno potrebbe osservare che mai come ora si sono viste tante barche di lusso,
porti turistici, crociere, auto da corsa, ecc. Verissimo, ma proprio Marx spiega
che, se aumentano i salari, e di conseguenza diminuisce il saggio di profitto,
una parte maggiore della produzione si indirizza verso la produzione di generi
di prima necessità, mentre diminuisce la produzione di prodotti di lusso.
Viceversa, se calano i salari reali e aumentano i profitti, diminuisce il consumo
di prodotti indispensabili e cresce quello di prodotti voluttuari, e l’ostentazione
del lusso più sfacciato.(2) Inoltre, per tutto l’arco di sviluppo,
crescono sempre più i prezzi dei prodotti agricoli, mentre diminuiscono
– naturalmente in moneta costante, depurata dalle svalutazioni - i prezzi
dei prodotti industriali. L’economia mercantile non è fatta per
sfamare l’uomo.
E’ inutile pensare a un ritorno della stabilità. Negli anni ’60
e ’70 l’occidente e il Giappone avevano il monopolio nel campo industriale
e nella manodopera tecnicamente preparata. Oggi, con lo sviluppo dei giganteschi
paesi asiatici, non solo è cresciuto a dismisura il numero dei proletari,
anche specializzati, in concorrenza fra loro, ma è entrata nel mondo
del lavoro una parte crescente delle donne. Tutto ciò ha portato a una
tendenza verso l’abbassamento dei salari e a una crescente insicurezza
per quanto riguarda il posto di lavoro. Questo spiega in buona parte i pesanti
arretramenti nelle conquiste sindacali e politiche dei lavoratori.
Nel lessico di buona parte della sinistra e dei sindacati, il termine “proletario”
è pressoché scomparso, quasi si trattasse di un arcaismo, di un
relitto del movimento operaio ottocentesco. Eppure, è il termine più
corretto per indicare quella parte di società che è espropriata
di ogni proprietà, è “senza riserve”. Si dirà
che lo si può sostituire con “lavoratore”, ma anche l’artigiano
e il contadino piccolo proprietario sono lavoratori, e seguono dinamiche sociali
completamente differenti. Un sinonimo, solo in parte più adatto, sarebbe
“lavoratore salariato”, ma escluderebbe i disoccupati, coloro che
non possono lavorare per gravi motivi di salute, e così via.
Molti pensano che la riduzione del peso (non la scomparsa) del classico operaio
della fabbrica fordiana e la crescita della terziarizzazione, porti alla scomparsa
del proletariato. Ma sono proletari anche i braccianti agricoli, le commesse
dei grandi magazzini, gli impiegati, gli addetti ai call center. Il criterio,
infatti, non è quello borghese del lavoro manuale o lavoro intellettuale,
colletto bianco o colletto azzurro, ma quello della separazione dagli strumenti
di lavoro. Un contadino, o è proprietario di un pezzettino di terra,
o almeno degli strumenti di lavoro e materie prime (zappa, trattore, sementi).
Anche un artigiano è proprietario dei propri strumenti. Il proletario
va sul mercato solo col denaro del suo salario o stipendio, il non proletario
ci va con merce e denaro. L’agricoltore può consumare una parte
del proprio prodotto, mentre il proletario non ha nessun controllo su ciò
che produce. Non è una questione di reddito, perché il contadino
proprietario o l’artigiano possono essere poverissimi, ma di posizione
sociale e di rapporto con la proprietà.
Anche l’impiegato, che non ha la proprietà dei computer, dei mobili
dell’ufficio, dei server, e degli altri strumenti di lavoro, e non può
fare suoi i prodotti dell’impresa, è pure un proletario. Ci sono
tuttavia casi di impiegati di altissimo livello, proprietari di azioni, che
partecipano agli utili dell’azienda, e questi appartengono alla media
o alla grande borghesia.(3)
Si dirà che molti impiegati non si riconoscono nel proletariato e considerano
il loro lavoro assai diverso da quello in fabbrica. Certamente il lavoro d’ufficio
può creare l’illusione di superiorità sociale rispetto a
chi lavora manualmente, ma queste differenze si vanno attenuando con la crescente
meccanizzazione degli uffici, che trasformano chi ci lavora in una rotella di
un ingranaggio sociale, rendendo il lavoro assolutamente privo di creatività
e noioso quanto quello svolto in fabbrica.
Le sempre più numerose classificazioni, che la sociologia borghese sforna,
hanno lo scopo di impedire la comprensione del fatto che, lungi dallo sparire,
il proletariato costituisce ormai la stragrande maggioranza dell’umanità,
e tra le masse sfruttate del sud del mondo, buona parte, se non proprio braccianti,
sono contadini poveri, gli alleati naturali dei lavoratori salariati. Se, nel
cercare di capire le classi, ci fidassimo ciò che dicono i giornali ufficiali
– e la maggior parte degli intellettuali si forma su tali giornali e su
libri che fanno l’apologia del capitale - giungeremmo alla conclusione
che buona parte dei lavoratori sono borghesi, mentre i borghesi sono “operai”,
come Berlusconi, che si vanta di lavorare 12 ore al giorno. Non ci aiutano a
conoscere la verità, ci portano a perdere.
Una parte crescente di proletari è costituita da immigrati, perché
solo una piccola parte di loro ha un’impresa autonoma. Le bande di scafisti
che scaricano sulle nostre coste, e spesso direttamente in mare, migliaia di
diseredati, dopo aver sottratto loro fino all’ultimo quattrino, sono perfettamente
funzionali agli interessi del capitalista, che sfrutta il lavoro nero, e, per
impedire che i suoi operai escano dalla clandestinità e rivendichino
i diritti sindacali, preme perché ci siano leggi più severe sull’immigrazione,
e parla di incremento della criminalità, per non far capire che il vero
criminale è lui, lo sfruttatore. L’idea razzista dell' immigrato
delinquente è stata ad arte diffusa, e si è radicata a tal punto
che, chi ha assassinato parenti e vicini, cerca di salvarsi accusando rumeni,
albanesi o marocchini.
L’immigrazione porta milioni di nuovi proletari, ed è compito di
chi ha coscienza di classe sviluppare la lotta perché vengano riconosciuti
come tali, si concedano loro pari diritti, e, per chi la vuole, la cittadinanza
in tempi brevi, senza le “forche caudine” della burocrazia.
Appartengono a questa classe sociale anche molti di coloro che, con un criterio
borghese o socialdemocratico, sono classificati sottoproletariato. Certo quest’ultimo
settore della società esiste, e comprende ladri, truffatori, e quelli
che vivono di espedienti alle spalle degli altri (ogni riferimento al cosiddetto
“ceto politico” è puramente casuale). Comprende anche le
prostitute, almeno quelle che lo fanno volontariamente. Per quelle sventurate
che sono attirate dall’Europa orientale o dall’Africa col miraggio
di un lavoro e poi sono costrette con la violenza o il ricatto a battere il
marciapiede, sarebbe più corretto parlare di schiavitù. Per colpa
soprattutto della l’ala destra della Socialdemocrazia tedesca, espressione
della parte meglio pagata degli operai e della piccola borghesia, si cominciò
a considerare arbitrariamente sottoproletariato (Lumpenproletariat), anche settori
di disoccupati e sottoccupati, rompendo così la solidarietà di
classe. Era il primo passo discriminatorio, e a questo si sarebbero aggiunti
la xenofobia e il razzismo, tutti espedienti della borghesia per dividere i
lavoratori, chiuderli in recinti locali o nazionali, in patrie vere o inventate
(come la Padania), dividerli sulla base religiosa. Tutti artifici per impedire
che il gigante proletario prenda coscienza della sua forza, e suoni la campana
a morte per questa società basata sullo sfruttamento e la discriminazione
sociale, sulla violenza e la guerra.
Note
1) Già metà degli anni cinquanta, in polemica con
gli economisti borghesi, Bordiga sostenne, in molti suoi scritti, che la crisi
si sarebbe ripresentata intorno al 1975. Dopo il periodo della ricostruzione,
in cui i profitti erano altissimi, si sarebbero riproposte le conseguenze della
marxiana legge del tendenziale calo del saggio del profitto. Bordiga sperava
che la crisi avrebbe portato alla ripresa su vasta scala del movimento proletario
e della lotta rivoluzionaria. Se questa ripresa non ci fosse stata, la tendenza
del capitale avrebbe inevitabilmente portato alla guerra mondiale. Il boom durò
fino al 1973, poi ci furono la crisi petrolifera e la recessione industriale
del 1974/75. Alla fine del 1975 c’erano 15 milioni di disoccupati nei
paesi OCSE. Non ci fu, però, la sperata ondata proletaria risolutiva.
In luogo della guerra mondiale abbiamo una serie di guerre terribilmente distruttive.
Si veda, di Bordiga, il “Dialogato coi morti”, nel sito internet
della “libreria Internazionale della Sinistra Comunista”.
2) Karl Marx, “Salario, prezzo e profitto”.
3)”L’impiegato è un proletario?”, Il Programma Comunista,
29 settembre 1963, n. 18.