Ricordo dei fratelli Cervi.
La
Resistenza dimenticata. Storia di "sette emiliani dei campi". Di
Alice Patrioli.
Dicembre 2003.
Ma io scrivo ancora parole d'amore,
e anche questa terra è una lettera d'amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d'amore nel silenzio.
Non sapevano saldali, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L'amore, la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore
Non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.
Salvatore Quasimodo da Ai fratelli Cervi, alla loro Italia
La
lirica di Quasimodo del 1955 ben s'addice all'epoca in cui noi viviamo: davvero
i nostri giorni sono tardi storia.
Per restituire la dignità che meritano ai più umili protagonisti
della storia, in particolare di quella storia della Resistenza che si cerca
spesso di screditare, scrivo dei fratelli Cervi. Gelindo, Ferdinando, Antenore,
Aldo, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi sono sette fratelli che vivono con
i genitori, le mogli e i figli in una cascina fra Campegine e Gattatico, nella
Provincia di Reggio Emilia.
Sono bravi agricoltori e sono istruiti, nella loro piccola libreria ci sono
libri di Dostoevskij, manuali di agricoltura, le raccolte delle "Relazioni
Internazionali" e della "Riforma sociale"di Einaudi.
I fratelli Cervi sono antifascisti.
"Cosa vuole" dice il padre Alcide "noi siamo fatti così,
siamo per la libertà." L'8 settembre i Cervi passano alla resistenza:
non la resistenza armata della montagna, ma quella legata alla famiglia e
al lavoro che carica di ribellione la quotidianità.
La casa dei Cervi accoglie i prigionieri di guerra fuggiti dai campi: ne passano
ottanta tra il settembre al novembre nella loro cascina.
Scriveva il commediografo latino Terenzio: "Sono un uomo e tutto ciò
che riguarda l'uomo riguarda me", nella cascina dei contadini emiliani
tali parole si fanno quotidiana realtà.
È una mattina di nebbia quando i fascisti, cui è giunta notizia
dell'attività dei Cervi, circondano il cascinale.
All'ordine di arrendersi i sette rispondono sparando ma presto sono costretti
a cedere: gli assalitori hanno dato fuoco al fienile e se la casa bruciasse
l'intera famiglia morirebbe.
I fratelli escono con le mani alzate seguiti dai prigionieri di guerra, mentre
i fascisti saccheggiano la loro cascina.
Nella caserma dei Servi, a Reggio Emilia, l'interrogatorio e l'invito a passare
alla repubblica fascista. "Crederemmo di sporcarci" dice Aldo ad
un poliziotto che insiste.
Quando il 27 settembre il GAP (Gruppo Armato Partigiano) uccide Vincenzo Onfiano,
segretario del Fascio, il Tribunale speciale giudica i Cervi senza farli comparire,
li condanna a morte con una sentenza per cui non è occorsa la camera
del consiglio.
Giustizia fascista.
Verranno uccisi in un campo, Antenore non credeva si potesse morire con il
bel cappotto nuovo che s'era fatto.
La terra riaccoglie i suoi ligli, si riprende la loro giovinezza, il loro
amore.
Il padre Alcide saprà della loro morte solo l'8 gennaio e si aggrapperà,
nel dolore, alla sapienza contadina che gli insegna che sempre "dopo
un raccolto ne viene un altro".
E il nostro raccolto, quali frutti produce?
La domanda è tutt'altro che retorica alla luce dei ripetuti tentativi
di derubarci della Storia e della Memoria che sono stati compiuti.
Non esistono dittature "buone". Non esistono dittature che non esigano
tributi di sangue. Sempre una voce si alza per rivendicare quella dignità
che rende l'uomo degno del suo nome.
Forse potremmo trarre queste semplici verità dalle vite dei fratelli
Cervi e un ringraziamento per il nostro passato contadino assetato di libertà
e di fratellanza.
Non temete di non avere spazio per loro nella vostra memoria: essa, come la
poesia, è una creatura che si nutre di se stessa e d'infinito.