Macaluso: "due Berlinguer" o molti Pci?
Recensione
al libro di Emanuele Macaluso "Cinquant’anni
nel PCI". Nonostante
la divergenza da gran parte delle sue tesi politiche si tratta di un libro
che permette di cogliere in tutta la sua ricchezza il percorso del PCI, e
la sua capacità di interpretare le speranze di riscatto del proletariato
italiano, pur avendo poi mancato in gran parte a questo compito. Di Antonio
Moscato. Gennaio 2004.
Emanuele Macaluso, un togliattiano convinto ritiratosi da tempo dallo scontro politico nel PCI e nei partiti che ne hanno raccolto l’eredità, aveva scritto molti anni fa un libro piuttosto impietoso su “Togliatti e i suoi eredi” apparso presso lo stesso editore Rubbettino che ora pubblica un più complesso e interessante bilancio della sua vita, ma anche dell’itinerario del PCI: Cinquant’anni nel P.C.I. Un libro che, nonostante il profondo dissenso dalle opinioni politiche di Macaluso, ribadite in diverse pagine, mi sembra ugualmente consigliabile a un giovane comunista, in primo luogo perché consente di guardare alla storia del partito comunista non solo ricostruendone le scelte politiche (e le mistificazioni ideologiche che abbellivano e giustificavano) ma anche il funzionamento interno, la complessità, la ricchezza umana.
Macaluso,
abbiamo detto, difende e ripropone alcune delle idee che l’hanno portato
a defilarsi dall’impegno diretto nell’ultimo PCI e poi nel PDS:
prima di tutto la critica al ritardo e all’ambiguità con cui
il gruppo dirigente ha preso atto e dichiarato apertamente che il PCI era
un partito socialdemocratico.
In questo Macaluso riprende un atteggiamento di Amendola, che sferzava i dirigenti
della CGIL perché non si opponevano a quello che definiva “l’estremismo”
dei consigli di fabbrica, senza capire che se si fossero opposti apertamente
invece di fingere di fare proprie quelle rivendicazioni “incompatibili”
nel decennio 1969-1979 sarebbero stati spazzati via o meglio si sarebbero
trovati a dover fare i conti con l’emergere di un soggetto politico-
sindacale nazionale alla loro sinistra.
Quel ritardo comunque era la conseguenza pressoché inevitabile di profonde
contraddizioni nel partito, tra la sua base sociale e il gruppo dirigente,
e non solo di errori soggettivi di quest’ultimo.
Macaluso dedica alcune pagine sferzanti ai “giovani leoni” la
cui ascesa era culminata, prima della Bolognina, nel XVIII congresso del marzo
1989; di essi descrive indignato il cinismo e una rissosità interna
che non aveva precedenti in quel partito. Tra l’altro è indignato
per il modo indecente con cui nel 1988 avevano liquidato Natta approfittando
di un suo malore da cui si stava riprendendo. Ma queste sono cose note, come
è noto che Macaluso aveva auspicato che dopo Berlinguer divenisse segretario
del partito Giorgio Napolitano, “l’unico che aveva acquisito la
cultura e le stimmate di un dirigente assimilabile ai socialisti europei”,
e che proprio per questo non fu considerato “figlio del partito”
e si vide sbarrata la porta per l’accesso alla guida del partito.
Macaluso tuttavia, pur ribadendo queste sue opinioni, manifesta simpatia anche
per dirigenti con cui ha avuto forti polemiche (ad esempio Amendola) e rispetto
per altri da cui era per molti aspetti lontano, come Ingrao o Pietro Secchia.
Tra l’altro, in evidente polemica con gli epigoni, ricorda che Amendola
nel 1976 rifiutò di assumere la carica di presidente della Camera che
gli veniva proposta dalla Direzione del PCI, sostenendo tra l’altro
“di non voler cambiare abitudini nella sua vita pubblica e privata”.
L’incarico fu accettato da Ingrao, che “fu un buon presidente,
ma nel ’79 non volle essere riconfermato (il suo era anche un disagio
politico): e così venne eletta Nilde Jotti”. (p. 148). Macaluso
commenta: “anche questo disinteresse personale e questo rispetto per
le scelte liberamente maturate dai dirigenti, erano il PCI”.
Chiudendo la breve rassegna delle convinzioni assolutamente non condivisibili
che qua e là spuntano all’interno di pagine per altri versi interessanti,
accenniamo che tra le cose che secondo Macaluso il PCI poteva fare e non fece
ci fu perfino il mancato intervento nell’evoluzione del fascismo verso
una posizione di destra nazionale, come una lunga tradizione del partito,
dall’appello ai “fratelli in camicia nera” in poi, avrebbe
a suo parere dovuto suggerire. (p. 130)
Un intero capitolo è dedicato poi all’Operazione Milazzo: egli
difende ancor oggi quell’avventura che spaccò sì la DC,
ma portò a un governo regionale composto di transfughi (spesso per
non nobili motivi) della DC e di varie componenti della destra, col sostegno
determinante del PCI, nonostante il “milazzismo” sia finito presto
e male, lasciando un profondo discredito sul partito comunista non solo in
Sicilia.
Macaluso, accennando ai “mutamenti genetici” che sarebbero intervenuti
nel PSI sotto la guida di Craxi, accenna a un proprio ritardo nel capire anche
che nello stesso tempo “qualcosa di profondo era mutato nel DNA del
PCI” (p. 136). Allude ai metodi di corridoio, con cui al ritorno dal
funerale di Berlinguer, Occhetto e D’Alema si fermarono a discutere
nel garage di Botteghe Oscure, e si accordarono alle spalle di tutti per una
segreteria di transizione affidata a Natta “come inevitabile passaggio,
Occhetto come successione effettiva e, dopo qualche anno, D’Alema come
naturale approdo”.
L’operazione fu accelerata approfittando del malore di Natta, “sollecitando
alle federazioni ordini del giorno, che alcuni segretari-sicofanti si affrettarono
a far approvare dai comitati federali, per chiedere un immediato ricambio
nella guida del partito”. Su queste e altre vicende Macaluso, che pure
non era entusiasta di Natta, è severissimo, ma non si accorge che i
mutamenti non erano avvenuti solo nel costume interno, ma da molto tempo anche
nella politica, che aveva abbandonato quei riferimenti di classe e quelle
discriminanti (compresa quella antifascista, al tempo del milazzismo!) su
cui il partito comunista si era formato.
Così, se difende la svolta della Bolognina, si rammarica che “il
modo in cui fu fatta ci ha fatto pagare un prezzo più alto di quello
che pure avremmo dovuto comunque pagare” e allude alla “scissione
di Rifondazione comunista sulla nostra sinistra e alla rottura con tutta la
complessa area socialista sulla nostra destra”. Non dice cosa si sarebbe
potuto fare per evitare la scissione di pezzi di partito e dirigenti che stimava
(a partire da Cossutta, a cui fa elogi senz’altro superiori ai meriti),
ma chiarisce bene cosa andava fatto per non rompere a destra: ritiene insensata
l’opposizione radicale che il PDS fece nel 1992 “al primo governo
risanatore di Giuliano Amato” e il ritiro dei ministri diessini, l’anno
successivo, dal governo Ciampi appena formato.(p. 138)
Un altro paio di notazioni negative: Macaluso, se ha giudizi quasi sempre
corretti sui paesi del “socialismo reale” che visitò come
dirigente del partito, prende una svista colossale quando parla di Arafat,
che lo aveva colpito molto nel corso di diversi incontri, nel Libano e a Roma.
“Non ho dubbi che Arafat ricercasse una soluzione politica: per questo
risulta incomprensibile il suo rifiuto a firmare l’accordo che Clinton
con tanta pazienza aveva preparato con Barak. Era chiaro che dopo quel fallimento
in Israele la parola e le armi sarebbero tornate a Sharon. Fu un errore di
valutazione, o Arafat pensò che la strada dello scontro fosse l’unica
percorribile? Per me resta un enigma.” (p. 207)
Macaluso scrive questo perché è poco informato sulla questione,
e accecato dalla propaganda di Barak sulle “concessioni eccezionali”
che avrebbe fatto? Non si rende conto che lui stesso ammette che l’accordo
fu “preparato con tanta pazienza” da Clinton con Barak, non con
Arafat, a cui veniva presentato in termini di “prendere o lasciare”?
Può essere che ci sia anche una scarsa conoscenza della realtà
palestinese, ma c’è sicuramente dell’altro. A Macaluso
sfugge sempre che un partito o un movimento può essere duttile, flessibile,
moderato quanto vuoi, ma non può accettare “qualunque cosa”,
fino a rompere con la sua base sociale. Non lo capisce per il moderatissimo
e paziente Arafat, ma non lo ha capito neppure per la “svolta di Berlinguer”.
Macaluso ha amato Enrico Berlinguer, ha collaborato a lungo con lui, ne parla
con rispetto e anche ammirazione, ma quando si arriva all’ultima fase
della sua vita, non sa spiegarla se non come conseguenza di “una forte
attenuazione della lucidità politica di Enrico, che vedeva nella presidenza
di Craxi un pericolo per la democrazia, e non una inedita e difficile competizione
politica a sinistra”. (p. 178)
In poche parole Macaluso, che detesta Fassino (che nomina solo tre volte nel
libro, e sempre solo come membro del “gruppone” dei giovani gregari
ambiziosi), finisce per arrivare alle sue stesse conclusioni, perché
non riesce a capire che Berlinguer invece aveva giustamente intuito dove rischiava
di finire il PCI continuando ad accettare l’inaccettabile.
Macaluso, che allora era direttore dell’Unità, e che a differenza
di altri “riformisti” o “miglioristi” mantenne un
rapporto cordiale con Berlinguer, dice di aver condiviso “per personali
convinzioni” la linea di opposizione al “Decreto di San Valentino”
che modificava la contingenza, ma di essersi adoperato anche per trovare un
compromesso insieme a Napolitano e al socialista Formica. Stentava a capire,
a quanto pare, che Berlinguer aveva assunto quell’atteggiamento non
per una “forte attenuazione della lucidità politica” ma
semplicemente perché, come davanti ai cancelli della FIAT nel 1980,
nel paese, nel sindacato e nello steso partito c’era una “enorme
spinta di massa”. Lo ammette in un altro punto lo stesso Macaluso, ma
senza tirarne tutte le conseguenze.
Una
volta sottolineati tutti i punti di divergenza, veniamo agli aspetti più
gradevoli del libro. In primo luogo Macaluso traccia i ritratti di molti dirigenti
che ha conosciuto, alcuni di primo piano come Li Causi, Di Vittorio, Bufalini,
Reale (ma anche Grieco, Sereni, Romagnoli, i tre massimi dirigenti della politica
agraria, che pure furono spesso in polemica tra loro), altri praticamente
sconosciuti ma di cui ricorda con affetto e gratitudine il nome e il ruolo,
perché sono stati essenziali per la sua formazione nella Caltanissetta
degli anni Quaranta, calzolai, muratori, minatori, contadini, tutti autodidatti,
ma che già sotto il fascismo gli facevano leggere il compendio del
Capitale di Cafiero, i romanzi di London e Gor’kij o la “Storia
della rivoluzione russa” di Trotskij.
Nel partito, scrive, “c’era una gran confusione. Alcuni vecchi
compagni stampavano opuscoletti per spiegare «chi siamo e cosa vogliamo»,
riproponendo posizioni già superate nel congresso di Lione del 1926:
socializzazione della terra , delle miniere, della Società generale
elettrica, di tutti gli opifici e, qualcuno aggiungeva, delle derrate alimentari”.
Erano pochi i compagni, dice, “che conoscevano la linea del partito
(unità nazionale, tutti contro i tedeschi e i fascisti che li seguivano)”.
(p. 37).
Il
partito ebbe subito due anime, una sostanzialmente libertaria, e una stalinista,
portata dai Robotti, dai Fedeli, e da altri tetri compagni formatisi nell’esilio
e a Mosca, e mandati per portare sotto controllo il partito, in cui c’erano
appunto anche compagni dalla mente aperta e dal vivace spirito critico come
Pompeo Colajanni, che si doveva “rieducare”: “se per Fedeli
la norma era il sospetto, per Pompeo Colaianni era la fiducia”. Quanto
a Paolo Robotti, inviato in Sicilia per affiancare Li Causi nel 1947-1948
e che per Macaluso e la sua compagna era quasi un familiare, in URSS (dove
era stato arrestato e torturato nella speranza di estorcergli una “confessione”
che coinvolgesse Togliatti, suo cognato, cosa che ammise nel partito solo
dopo le “rivelazioni” del XX congresso e di cui scrisse solo dopo
la morte di Togliatti), aveva mantenuto con il KGB un “rapporto particolare”.
Tanto particolare, osserva Macaluso, “da indurlo a fare il delatore,
per conto della casa madre, anche su chi gli era stato amico”. Macaluso
lo apprese leggendo la scheda del “Dossier Mitrokhin” in cui Robotti
tracciava per il KGB il quadro delle sue “devianze politiche, di classe
e amorose”. (p. 49)
Macaluso non nasconde la sua simpatia umana per i comunisti anticonformisti,
come Pompeo Colaianni, ma anche Mario Mineo e Giuseppe Montalbano, ad esempio,
che in anni successivi fecero scelte del tutto diverse dalle sue (l’uno
e l’altro uscirono dal partito e aderirono alla Quarta Internazionale).
Macaluso spiega bene cos’era quel partito ricostruendo una delle prime
riunioni regionali tenutasi a Messina con la partecipazione di tanti compagni
locali e sotto la guida di due inviati dal “centro”, Velio Spano
e Fausto Gullo, arrivati traversando lo stretto su un barcone.
Macaluso riporta di quella riunione un episodio che lo colpì, ed è
effettivamente degno di essere riportato per capire quanto fideismo c’era
nel partito. “Alla fine dei lavori Spano propose di esporre nelle sezioni,
con la bandiera rossa, quella tricolore, e si scatenò una bagarre.
Un vecchio compagno di Agrigento, Sciabica, ironicamente propose di adottare
anche la bandiera gialla del Papa. La discussione non finiva e allora intervenne
Concetto Lo Presti, che era stato in carcere ed era segretario della Federazione
di Catania, e con autorità e solennità disse: «Nel 1921
il PCd’I nacque per mettere fine al Circo Barnum socialista e dare al
proletariato una forza politica unita e disciplinata. Se il partito ci dicesse
vestitevi di Arlecchino dovremmo farlo. Oggi ci dice di adottare la bandiera
tricolore: adottiamola!» Applausi scroscianti e il convegno finalmente
ebbe fine.” (p. 38)
Nel ricostruire quegli anni Macaluso non si sofferma solo sulle contraddizioni
e le ingenuità di tanti compagni, ma anche per ricordare i tanti militanti
assassinati dalla mafia o/e dai carabinieri, quasi sempre in collusione aperta.
E la DC di allora egli la chiama “DC-mafia”, perché erano
inseparabili e indistinguibili.
Il
libro è bello e ricco anche nella sua parte più strettamente
autobiografica, che affronta senza reticenze non solo le vicende politiche,
ma anche non poche delle sue vicende più strettamente personali ogni
volta che si sono intrecciate a quelle politiche. Tra queste una tragica,
il suicidio di Erminia Peggio, sorella di Eugenio Peggio, dirigente del partito
e suo amico, una compagna,con cui aveva avuto una relazione che tuttavia non
aveva avuto il coraggio di portare avanti. Oggi, dato che la vicenda non aveva
avuto a suo tempo nessuna pubblicità, poteva tacere: la ricorda prima
di tutto perché se ne sente ancora responsabile (si accusa di “viltà”
per non aver saputo rompere tutti i ponti con la famiglia, in cui il rapporto
amoroso era finito ma i figli adolescenti non accettavano la rottura), e anche
per ricostruire il mondo chiuso e – su questo piano – fortemente
ipocrita, del gruppo dirigente del partito ancora negli anni Sessanta.
Fu sottoposto infatti a un “processo interno” su proposta di Amendola.
Non so, scrive, se Amendola “agì per eccesso moralistico (era
nel suo carattere) o perché utilizzò quell’episodio –
come si faceva nelle «famiglie» della Terza Internazionale –
dato che in quel periodo avevamo contrasti politici”. (pp. 191-192)
Un’altra
sua vicenda personale viene descritta con molti particolari, per far capire
cos’era allora la Sicilia in cui la mafia imperava e le “forze
dell’ordine” erano al suo servizio. “La prima ondata di
bombardamenti – scrive - mi colse nel letto di una donna, allora sposata
a un altro, che poi sarebbe divenuta la mia prima compagna e la madre dei
miei figli”. Era il luglio 1943. La compagna era giovanissima (era stata
spinta al matrimonio dalla madre vedova quando non aveva ancora 14 anni).
Dopo la caduta del fascismo pensarono di poter convivere (il marito, molto
più anziano, si era rassegnato), ma si sbagliavano. Il giovane Macaluso
era già troppo noto come comunista, e “le autorità”
chiesero al marito di sporgere denuncia contro gli adulteri, che furono arrestati,
e condannati (lui a sei mesi e quindici giorni di carcere, di lei non si sa,
ma presumibilmente, dato il tempo e il paese, a una pena non inferiore). Poi,
una volta scarcerato, Macaluso si trovò contro il partito locale, che
riteneva che la sua “condotta privata fosse incompatibile con i doveri
di un buon comunista” Non poteva dirigere nemmeno il Fronte della Gioventù.
Solo ai margini del convegno di Messina già ricordato ottenne un “proscioglimento”
da parte dei dirigenti nazionali (Velio Spano e Fausto Gullo) che decisero
che poteva assumere responsabilità di partito.
Ma, per la bigotteria e la subalternità al potere della magistratura,
ancora molti anni dopo, nel 1960, quando era deputato regionale, e i figli
avuti dalla sua compagna frequentavano già le elementari, fu denunciato
per aver dichiarato all’anagrafe che i figli erano suoi e di una “donna
che non intende essere nominata”, come si faceva abitualmente per evitare
che i figli avessero per “padre legale” l’ex marito della
donna. A quei tempi ovviamente non c’era divorzio... Il magistrato che
lo interrogò ammise che tutto era stato innescato da una lettera anonima
(“scritta dagli stessi carabinieri o dai «superiori»?”,
chiese Macaluso al giudice molto imbarazzato).
Risultò che c’era stata una “accurata inchiesta”
dei carabinieri del SIFAR, che avevano interrogato il portiere, la levatrice,
ecc., ed erano andati a scovare il parroco della chiesa in cui sua madre e
la stessa sua compagna (contro il suo volere e a sua insaputa) avevano portato
a battezzare i due gemelli. La verità era stata così accertata,
e lui denunciato per “soppressione di Stato” (s’intende
Stato civile). La conseguenza era che al termine del processo poteva essere
condannato a pena tra gli 8 e i 15 anni di reclusione, i figli avrebbero dovuto
cambiare cognome assumendo quello dell’ex marito della madre, ecc.
Macaluso era già membro della Direzione del PCI, che gli mise a disposizione
i migliori avvocati, ma lo indusse a rendersi latitante (in Emilia) in attesa
della sentenza, e a prepararsi a espatriare in Cecoslovacchia. Fu salvato
da un sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite, riferita a un caso
analogo, che rovesciò la giurisprudenza affermando “un principio
che oggi sembra ovvio, ma allora non lo era: «La legge esige che tra
la verità reale e quella legale... vi sia corrispondenza». Una
rivoluzione”. (pp. 125-126) Era il preannuncio dei mutamenti di costume
del decennio successivo. Macaluso non aveva gradito l’imposizione di
nascondersi e poi di emigrare, avrebbe preferito sollevare “un caso”.
Non gli fu concesso. Rimane il fatto che energie di magistrati, carabinieri,
ecc. erano state usate per così assurda investigazione.
Sulla magistratura compiacente e su carabinieri e polizia (compreso quel commissario
Messana che avrebbe fatto strada organizzando la montatura su Salvatore Giuliano),
Macaluso scrive pagine sprezzanti. Ricordati alcuni episodi di aggressioni
e montature contro Pio La Torre (ma con condanne anche per chi aveva testimoniato
a suo favore, Macaluso compreso) egli scrive:
“Ho riletto gli atti di quel processo. Bastano per capire cosa era in
quegli anni la giustizia in Italia. Per questo, quando sento dire che la magistratura
dovrebbe ritornare ad essere «indipendente» come allora, ho un
moto di rabbia: bisogna fare una lettura comparata dei processi ai mafiosi,
compreso quello a Calogero Vizzini, e di quelli fatti a migliaia di lavoratori,
per capire come stavano le cose. La magistratura, in quegli anni, era parte
rilevante del blocco sociale e di potere, e aveva anche un’omogeneità
culturale con le classi dirigenti. Certo, si può sempre dire che c’era
il comunismo e bisognava fermare l’URSS, e giustificare tante nefandezze
giudiziarie. Ma processi simili erano già stati fatti ai contadini
e ai dirigenti dei fasci siciliani alla fine dell’800 e ai primi del
‘900, quando Lenin era solo un giovane agitatore. No. Quei processi
ci parlano di una giustizia di classe, e di una tradizione mai smentita dall’Unità
d’Italia ai nostri giorni”. (p. 83-84)
Oltre
alle due vicende personali già ricordate, che suscitarono entrambe
scandalo e polemiche nello stesso partito, Macaluso accenna a un’altra
successiva, che il partito criticò per diversi motivi. La sua terza
compagna era infatti Ninni Monroy, una aristocratica napoletana, iscritta
al partito, ma irrequieta (durante un’appassionata discussione sui paesi
dell’Est con Paolo Bufalini, stracciò clamorosamente la tessera).
D’altra parte anche Macaluso esprime frequentemente giudizi severissimi
sul “socialismo reale” e assicura di averlo maturato già
da decenni (ad esempio riferisce le sue riflessioni su un viaggio ufficiale
in una Corea del Nord con cui si domandava cosa il PCI aveva in comune. E
a più riprese accenna alle vicende ungheresi del 1956 definendole con
il termine giustissimo, ma inconsueto tanto nel vecchio PCI che nel PRC di
oggi, di “rivoluzione ungherese”.
Ninni Monroy era soprattutto la madre di Fiora Pirri, la compagna di Franco
Piperno, arrestata come terrorista e condannata a quindici anni (il suo unico
reato era aver sfasciato un computer nell’università di Cosenza).
Ne scontò otto, e quando Pertini propose per lei ed altri dissociati
la scarcerazione, scoppiò uno scandalo, perché un gran numero
di “padri della repubblica”, da Valiani a Galante Garrone, suscitarono
un tale scandalo da spingere il debole Pertini a sostenere di essere stato
ingannato e di aver firmato senza sapere di cosa si trattasse (cosa che faceva
d’altra parte spesso...). Macaluso dice che per non coinvolgere il partito
non era mai andato a parlare con Fiora in carcere, anche se la amava molto;
si limitava ad accompagnare la madre fino ai cancelli. Parlando di questo
caso egli esprime un giudizio nettissimo contro le leggi di emergenza (contro
il terrorismo, ma anche contro la mafia). E cerca di spiegare il “giustizialismo”
che invece dominava nel PCI non solo con l’eredità stalinista,
ma anche con una logica del tipo “il fine giustifica i mezzi”,
soprattutto dopo che era entrato in maggioranza come parte decisiva dell’arco
costituzionale, prima nella lotta contro il terrorismo, poi in tutte le forzature
di Tangentopoli. Eppure, commenta, se “la destra, in Italia, tranne
rare eccezioni, è sempre stata forcaiola, la sinistra avrebbe dovuto
impugnare la bandiera dello Stato di diritto. Non lo ha fatto”. (p.
86)
Forse a questo atteggiamento è stato spinto anche dalle vicende personali,
le vessazioni subite al tempo del primo rapporto, poi il caso della figlia
della sua compagna condannata a una pena sproporzionata per il reato commesso
(la distruzione del computer, danno peraltro risarcito dalla famiglia; per
legge del contrappasso Fiora Pirri oggi insegna informatica in quella stessa
università di Cosenza).
Ma nel 1972 anche uno dei suoi figli gemelli, Pompeo, gli era scappato di
mano: al ritorno da un viaggio a Cuba dove era andato a tagliare canna, aveva
accentuato le sue critiche al PCI e aveva aderito a un gruppo maoista. Aveva
ventidue anni. Arrestato per un’assemblea non autorizzata e, naturalmente,
come si usava, condannato per “resistenza a pubblico ufficiale”,
scontò sette mesi in carcere, all’Ucciardone. Il padre andò
a trovarlo e riprese “un dialogo affettuoso (e anche politico) che non
si è più interrotto”, e gli inviò dei libri perché
potesse preparare in carcere la sua tesi su Antonio Labriola: “Marx,
Engels, Gramsci, Bauer, Lenin e altri che hanno scritto sul socialismo europeo”.
Il direttore del carcere rifiutò di darglieli, “Telefonai a quel
funzionario e gli chiesi il perché, La risposta fu: «Onorevole,
mi stupisce che lei faccia avere a suo figlio, il quale si trova qui per le
ragioni che conosce, quei libri». Io di rimando: «Ma lei li ha
letti?» Risposta: «No, ma so chi sono gli autori». Mi arrabbiai
e chiusi la conversazione.”
Macaluso riferisce poi di aver chiesto l’intervento del ministro della
Giustizia Guido Gonella, “un cattolico democratico, un anticomunista
combattivo e un uomo colto” senza dirgli chi era il detenuto. Naturalmente
Gonella lo seppe dal direttore del carcere e ordinò che i libri fossero
consegnati. Ma chi non era figlio di un noto dirigente nazionale, sia pure
dell’opposizione? Macaluso conclude l’episodio osservando: “Queste
erano le condizioni dei carcerati nell’anno 1972. Ma penso che ancora
oggi non siano cambiate di molto”. (pp. 212-213)
A un certo punto, spiega simpaticamente che alla fine degli anni Ottanta anche
il rapporto con Ninni Monroy, la madre di Fiora Pirri, “si era logorato
e ci separammo. Le mie successive vicende amorose non si intrecciano con vicende
politiche, e quindi non ne parlo. Del resto ormai sono vecchio e sto bene
con l’ultima delle mie compagne. Non perché sono vecchio”...
In effetti Macaluso si avvicina agli ottanta anni, e guarda con relativo distacco
e in genere senza rancore a molte delle sue vicende. Colpiscono i giudizi
equilibrati e benevoli nei confronti di compagni che hanno fatto scelte diametralmente
opposte alle sue, come Pancrazio De Pasquale, di cui dice che “era un
amendoliano convinto, ma dopo la svolta aderì a Rifondazione comunista.
Soprattutto, credo, perché disistimava Achille Occhetto: ci ho pensato
su, ma, visto che De Pasquale era un uomo molto intelligente, altre ragioni
non sono riuscito a trovarle” (p. 53) D’altra parte abbiamo già
accennato a una notevole benevolenza espressa nei confronti di Armando Cossutta,
di cui dice che ha dimostrato “di possedere qualità e grinta,
come testimonia la sua attività complessiva”. O forse in questo
caso l’apprezzamento è dovuto alla sensazione di affinità
con un altro uomo formatosi all’ombra del riformista Amendola?Al termine
del libro, c’è uno scambio di giudizi tra Macaluso e Paolo Franchi,
che rende omaggio a molte pagine, soprattutto sulla Sicilia, che lo “hanno
sinceramente colpito, anzi emozionato”. Pensa che colpiranno anche molti
lettori, in primo luogo quelli che come Franchi “comunisti sono stati,
per un tratto più o meno lungo della loro esistenza, e certo non vivono
di nostalgia, ma tuttavia rifiutano di adeguarsi alle rappresentazioni caricaturali
della storia del PCI attualmente in voga (o in vigore?), e cercano di restituire
a questa storia, che è stata, almeno in parte, anche la loro, un senso
e un valore”.
Franchi dice di non credere “alla storia dei due Berlinguer”.
Casomai il problema è quello dei due PCI: “Te lo dico con franchezza,
chiedendoti scusa per la brutalità. Il PCI come l’avevi conosciuto
tu (compresi i rapporti di umana solidarietà all’interno di un
gruppo dirigente formato sì per cooptazione, ma molto spesso per cooptazione
di persone di rango, secondo dei criteri democraticamente assai discutibili,
e tuttavia efficaci) già negli anni Settanta non c’era più”.
(pp. 232-234)
“Colpa della mia generazione?” si domanda Franchi. E aggiunge
un passo molto interessante che riporto integralmente:
“Non ho alcuna solidarietà generazionale da rivendicare, quando
molti dei miei compagni, all’apparenza i più conformisti, venivano
cooptati, e si apprestavano a organizzare la presa del potere interno, io
(e non ero, consentitemelo, il più fesso della comitiva) me ne uscivo
dalla comune, senza fare chiasso. E mi è già capitato di scrivere
che la mia generazione dal partito ha avuto molto più di quanto gli
abbia dato. Ma, se c’è una colpa generazionale di cui sono disposto
a farmi carico anch’io, non è certo quella di aver marcato una
discontinuità con gli usi e i costumi della ditta. Tutt’all’opposto,
siamo responsabili (soprattutto chi nella vecchia casa è rimasto e
alla fine si è impossessato delle sue macerie, si capisce) di essere
stati, per opportunismo, troppo continuisti. Di non aver mai dato battaglia
aperta, con tutti i rischi del caso, per le nostre idee, e anche, perché
no, per prendere il potere. Di non aver mai detto chiaramente che comunisti,
seppure nella versione italocomunista, non lo eravamo più”.
Macaluso risponde che la generazione di Paolo Franchi, magari per responsabilità
di maestri che non erano disposti a far posto ad allievi che “a torto
o a ragione + ci sembravano anticonformisti, e comunque diversi da noi, per
usi e costumi, prima ancora che per linea politica. Però mi chiedo,
caro Paolo, se la generazione a cui ti riferisci sia stata ancora più
conformista della nostra. Se giudico di quella parte che ci ha sostituiti
nel PCI, dico senz’altro che è così. E le ragioni vanno
ricondotte ai caratteri stessi che ebbero i movimenti, al loro conformismo,
al fideismo nei confronti dell’ideologia e del capo che li caratterizzarono.
Io penso invece a tanti giovani che non vennero nel PCI per chiusure antiche
e nuove, e a quelli che lo lasciarono per questi stessi motivi. Tuttavia ritengo
che sul piano del costume i militanti delle nuove generazioni, non solo quelli
che vennero nel partito, ma anche quelli che hanno animato i movimenti (in
particolare quello femminista), contribuirono a svecchiare il PCI, a «laicizzarlo».”
(p. 241)
In conclusione, mi sembra di aver spiegato le ragioni per cui questo mi è parso un libro da consigliare, nonostante la divergenza da tutte le sue tesi politiche (se non quella che il PCI avrebbe dovuto rompere assai prima con i paesi e i partiti del “socialismo reale”). Come ha intuito bene Paolo Franchi, e come Macaluso rivendica più volte, si tratta di un libro che permette di cogliere in tutta la sua ricchezza il percorso del PCI, e la sua capacità di interpretare le speranze di riscatto del proletariato italiano. Del fatto che il PCI abbia mancato in gran parte a questo compito, e non solo nella fase del suo declino, abbiamo scritto più volte in altra sede, ma credo sia utile, accanto alla severa critica politica e alla denuncia delle mistificazioni ideologiche, far conoscere ai giovani comunisti di oggi come quel partito abbia saputo interpretare quelle speranze e farsene forte, in un passato che potrebbe apparire quasi preistorico, a chi giudica il PCI sulla base di quello che ha conosciuto negli anni Ottanta, e di quel che è rimasto della sua eredità nei DS ma anche in parte non trascurabile del PRC.