Tornare
a Marx. Riflessione critica sull'esperienza sovietica, dal bolscevismo allo
stalinismo al futuro del marxismo.
1.Perché
l'Ottobre non è stato un colpo di stato. 2.Perchè lo stalinismo
non è la continuazione del leninismo. 3.Isolamento e guerra civile: le
origini dello stalinismo. 4.Una riflessione sul bolscevismo è necessaria.
5.Fine della storia o attualità del bolscevismo? Di Giorgio Amico. Novembre
1999.
Trattare oggi dell'Ottobre a 10 anni esatti dalla caduta del muro di Berlino e dal crollo del cosiddetto "socialismo reale" può sembrare una vuota esercitazione retorica o la celebrazione di un rito consolatorio delle miserie del presente. Ovunque si sente ripetere che la storia del secolo che sta per chiudersi ha avuto ragione delle illusioni rivoluzionarie e che il tempo delle ideologie è definitivamente tramontato. Viviamo, si dice, in tempi di concretezza, è necessario quindi dare prova di un sano realismo, abbandonando una volta per tutte utopie che si sono verificate irrealizzabili se non addirittura pericolose. Nonostante tutto ciò venga spacciato per nuovo, il movimento comunista ha già dovuto in passato confrontarsi con questo tipo di problemi.
Nel febbraio 1907 nella prefazione all'edizione russa delle "Lettere a Kugelman" Lenin sottolinea come Marx abbia saputo amalgamare teoria e pratica della lotta di classe in un inscindibile tutto e conclude che "non è marxista colui il quale deforma, per giustificare ciò che esiste la teoria [...], colui il quale si abbassa sino a volersi adeguare al più presto ad ogni declino temporaneo della rivoluzione, a sbarazzarsi al più presto di ogni illusione rivoluzionaria e ad accingersi realisticamente alla raccolta delle briciole" (1).
Lenin scrive all'indomani della rivoluzione del 1905, in una fase di riflusso della lotta di classe, per stigmatizzare il cedimento di molti intellettuali, anche bolscevichi, ma le sue considerazioni hanno un valore più generale fotografando con precisione l'atteggiamento rinunciatario tipico dell'intellettuale "impegnato" nei periodi di ristagno dell'azione di massa.
Lo stesso Lenin d'altronde, e qui per l'ennesima volta va sfatata la leggenda di un bolscevismo prodotto esclusivo dell'arretratata e asiatica Russia, aveva già dovuto nell'ambito della Seconda Internazionale confrontarsi con il revisionismo teorico di Bernstein che, sulla base di una lettura assolutamente non dialettica dei processi sociali ed economici in atto nell'Europa di fine secolo, aveva sviluppato l'idea di un processo graduale ed evolutivo di trasformazione della società capitalistica che relegava sullo sfondo in nome di un presunto realismo ogni "illusione rivoluzionaria".
Volendo attualizzare Marx, Berstein in realtà ne falsificava lo spirito dialettico, non cogliendo, come "Marx sapesse intuire nei tempi apparentemente più pacifici, idilliaci secondo la sua espressione, la vicinanza della rivoluzione e sapesse elevare il proletariato alla coscienza dei suoi compiti rivoluzionari d'avanguardia" (2).
E' il nascente marxismo rivoluzionario Lenin e Trotsky in Russia, la Luxemburg in Germania, il giovane Bordiga in Italia a riprendere nella battaglia contro il revisionismo bernsteiniano e la traduzione politica che ne viene fatta dalla Seconda Internazionale questa lezione di Marx. I marxisti devono riappropriarsi del metodo dialettico di Marx, della capacità cioè di intravvedere il futuro in gestazione nelle contraddizioni del presente. Proprio lo sviluppo "pacifico" e apparentemente inarrestabile del capitalismo, che per i revisionisti era la prova tangibile della chiusura della fase utopistica del socialismo per cui in nome di un sano realismo "il fine è nulla e il movimento è tutto", stava lentamente portando ad accumulazione quelle sostanze infiammabili destinate di lì a poco a far esplodere l'intera Europa.
Contro il meccanicismo della Seconda Internazionale, contro un marxismo ossificato, ridotto a teoria dello sviluppo capitalistico, Lenin e i bolscevichi affermano, nella teoria e nella pratica, la centralità del fattore soggettivo, ossia della classe e del partito, come agente decisivo della storia. Di contro a un determinismo rigido che non vede la storia in prospettiva, ma appiattisce tutto su un presente senza sbocchi, contro l'opportunismo di chi usa la teoria come alibi per coprire la rinuncia ad una prospettiva rivoluzionaria, Lenin recupera la lezione di metodo offerta da Marx che all'indomani della Comune contro i benpensanti che stigmatizzavano l'avventurismo degli operai parigini, sottolinea come nella storia vi siano "dei momenti in cui una lotta disperata delle masse, sia pure per una impresa senza prospettive, è necessaria per l'ulteriore educazione di queste masse e la loro preparazione alle prossime lotte" (3).
L'Ottobre, che non fu assolutamente né una lotta disperata, né un'impresa senza prospettive, possiede pienamente questo carattere di necessità, a patto naturalmente che se ne mantenga una corretta memoria storica in modo che ogni nuova generazione di militanti sappia attualizzarne le lezioni in una prassi politica coerente.
Solo questo può essere l'atteggiamento dei marxisti rivoluzionari nei riguardi dell'Ottobre e all'intera storia del movimento comunista. Ce lo insegna Rosa Luxemburg, pure critica severa di taluni aspetti della politica bolscevica, che di fronte all'Ottobre invita a distinguere "l'essenziale dall'accessorio, la sostanza dall'accidente" (4).
Riconquistare una memoria storica non deformata
Distinguere nella politica dei bolscevichi "l'essenziale all'accessorio" significa oggi essenzialmente riconquistare una memoria storica non deformata dell'Ottobre, avendo ben chiaro che Lenin, Trotsky e i bolscevichi agivano nel fuoco della lotta, rispondendo agli stimoli e alle sollecitazioni del momento, senza poter scegliere le condizioni o il terreno della battaglia, in una realtà caratterizzata da un'estrema complessità e pluralità di fattori e di attori.
Quali sono, allora, gli elementi fondanti l'Ottobre e l'intera prassi bolscevica ? Ne indichiamo essenzialmente tre:
- La centralità
dell'elemento soggettivo (classe e partito)
- La saldezza dei principi coniugata ad una grande flessibilità tattica
- L'internazionalismo, ossia il pensare la lotta rivoluzionaria a livello mondiale
"Senza partito o con un surrogato di partito scrive Trotsky nel 1924 tirando le lezioni dell'Ottobre- la rivoluzione proletaria non può vincere" ed il termine "partito" non è usato qui genericamente, ma con un diretto ed esplicito richiamo all'esperienza bolscevica. Un partito che non è non una setta, né un gruppo di cospiratori, né un "laboratorio teorico", ma neppure un partito di massa che si identifica con la classe così com'è. Un partito che sa amalgamare dialetticamente teoria e pratica, un partito rigorosamente centralizzato nell'azione, ma non monolitico, rigoroso nella difesa dei principi e nell'analisi, ma non ossificato nella ripetizione di dogmi. Un partito, soprattutto, capace di flessibilità tattica, di attenzione ai tempi, che sa parlare alle masse e farne crescere la coscienza attraverso un programma transitorio. Un partito che non si costruisce al momento del precipitare della crisi rivoluzionaria, quando è troppo tardi, come nel caso del Partito Comunista d'Italia o degli Spartachisti tedeschi, ma che con un lavoro paziente nelle fasi non rivoluzionarie ha saputo porre le premesse programmatiche, politiche ed organizzative per il successivo radicamento nelle masse quando i tempi si accelerano e i giorni contano come anni.
Su La Stampa del 16 ottobre il segretario dei DS afferma di riconoscersi "volentieri e sinceramente" nell'affermazione che "la rivoluzione russa non fu un successo tradito, ma lo stravolgimento di tanti nobili ideali". Per l'on. Veltroni il Novecento è stato "il secolo del sangue" e la lezione che se ne ricava è che "comunismo e libertà sono stati incompatibili" (5).
Veltroni riprende qui un'interpretazione che a partire dalla fine degli anni '80 e dal crollo dell'URSS ha acquistato via via crescente popolarità, radicando nell'immaginario collettivo un insieme di luoghi comuni ossessivamente amplificati e diffusi dai grandi mezzi di comunicazione di massa (6):
- L'Ottobre non
sarebbe stato una rivoluzione, ma solo il colpo di stato di una minoranza.
- L'intero sviluppo della rivoluzione e della stessa Russia, compresa la degenerazione
staliniana, sarebbe contenuto in origine nell'idea leninista di rivoluzione
e di partito.
- La rivoluzione russa rappresenterebbe il tentativo di forzare il corso ordinario
delle cose, la sovrapposizione di una idea salvifica della storia alla dinamica
reale degli eventi. Una ripresa su larga scala degli ideali giacobini con il
loro inevitabile corollario di terrore, sangue e totalitarismo. "Le lotte
rivoluzionarie successive al 1789 - scrive lo storico americano Richard Pipes
- in ultima analisi riguardano più la teologia che la politica".
Perché l'Ottobre non è stato un colpo di stato
Certo, se si guarda alla Russia del 1917 con l'ottica della legalità istituzionale, il rovesciamento del governo provvisorio nell'Ottobre 1917 possiede molte delle caratteristiche che solitamente associamo ad un colpo di stato. Il problema è comprendere la prospettiva storica in cui si colloca la presa del potere da parte dei bolscevichi e quali dinamiche reali essa esprima. Separare il Febbraio (rivoluzione spontanea delle masse) dall'Ottobre (complotto di una minoranza ultraideologizzata) significa deformare la realtà. Il Febbraio e l'Ottobre sono momenti forti, snodi fondamentali, di un unico processo che senza soluzione di continuità vede una progressiva radicalizzazione delle masse e dello scontro politico, sociale, etnico in atto nell'insieme dell'impero russo. Radicalizzazione che coinvolge non solo le città, che pure ne sono l'epicentro, ma anche le campagne, il cuore dell'impero come la periferia, l'Ucraina come la Siberia, i territori baltici come il Caucaso, la Polonia cattolica come l'Asia Centrale islamica e turcofona. Anche a prescindere dalla magistrale ricostruzione operata da Trotsky nella sua storia della rivoluzione, tutte le opere in materia, dalle classiche cronache del bolscevico John Reed e del menscevico Suchanov ai lavori più recenti della storiografia anglosassone (7), testimoniano di questa radicalizzazione crescente e di come i bolscevichi riuscissero ad esprimerne le aspirazioni politiche e sociali più profonde.
E' lo sviluppo stesso del processo rivoluzionario messo in moto dalla rivolta spontanea di febbraio a dimostrare che non siamo di fronte ad una cospirazione ad opera di un piccolo gruppo di agitatori professionali, ma allo spostamento continuo in avanti della coscienza di classe delle più larghe masse e di conseguenza ad un continua ridefinizione dei rapporti di forza tra le classi. La stessa facilità, almeno a Pietrogrado, della presa del potere da parte dei bolscevichi testimonia nella maniera più evidente dell'incapacità storica della borghesia russa nelle sue varie anime, non ultima quella della "democrazia rivoluzionaria" menscevica e socialista rivoluzionaria, ad assicurare alla Russia un governo stabile e una sicura transizione dall'autocrazia ad un modello di democrazia parlamentare di stampo occidentale. Agli amanti delle terze vie occorre ricordare, riprendendo la polemica di Rosa Luxemburg con Karl Kautsky e gli altri esponenti della socialdemocrazia tedesca, che nell'Ottobre 1917 l'alternativa in Russia è tra Lenin e Kornilov, tra il potere sovietico e la controrivoluzione dei generali zaristi. La polarizzazione delle forze sociali, soprattutto nelle campagne, ha raggiunto durante l'estate livelli tali da non lasciare alcuno spazio al mantenimento dello status quo, tantomeno al consolidamento di una democrazia borghese rivelatasi di difficile trapianto sul terreno di una Russia profondamente devastata dalla guerra.
Nonostante il rimpianto interessato dei "democratici" di tutte le risme, dai russi bianchi nella Parigi degli anni Venti ai diessini di oggi, l'Ottobre non fu lo "stravolgimento di tanti nobili ideali", tantomeno la rivoluzione nella sua concreta dinamica interruppe lo sviluppo promettente di una Russia ormai pienamente avviata sulla strada della modernizzazione e della democrazia. La rivoluzione russa non è concepibile al di fuori della rottura epocale determinata dallo scoppio della prima guerra mondiale imperialista. La rivoluzione russa, come il fascismo in Italia o il travaglio della democrazia weimariana fino all'avvento del nazismo affonda le sue radici nella guerra che spezza o incrina gli anelli più deboli della catena imperialista rendendo impossibile il ritorno agli equilibri precedenti.
Perché lo stalinismo non è la continuazione del leninismo
Quando Veltroni afferma l'incompatibilità tra comunismo e libertà e si appoggia sull'esempio russo, non fa nient'altro che fotografare la realtà dello stalinismo. La menzogna sta nell'identificare implicitamente totalitarismo e comunismo, stalinismo e rivoluzione d'Ottobre. E' una vecchia tesi della socialdemocrazia, ripresa dalla pubblicistica borghese: lo stalinismo sarebbe la filiazione diretta del bolscevismo. Su questo punto il coro è unanime: il virus del totalitarismo staliniano era presente già dalle origini nel bolscevismo, a partire almeno dal Che fare? e dalle polemiche tra Lenin e gli altri redattori dell'Iskra sul carattere del partito da costruire in Russia. Stalin - si dice- non avrebbe fatto altro che portare fino alle estreme conseguenze la violenza e l'amoralismo proprie della visione politica di Lenin.
Sarebbe difficile trovare una tesi tanto riproposta e tanto falsa. Quello bolscevico non è mai stato un partito monolitico e non ha mai assomigliato alla grottesca caricatura disegnatane da Stalin nel Breve corso. Non lo è stato e non poteva esserlo, se solo si pensa che fino al 1912 i bolscevichi rappresentano solo una frazione di un più grande partito, il Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR), che vedeva al suo interno coesistere anime diverse da Trotsky ai menscevichi, dagli operai ebrei del Bund all'organizzazione polacca di Rosa Luxemburg. La socialdemocrazia russa è dunque un fenomeno estremamente composito e il solo fatto di collocarsi al suo interno costringeva i bolscevichi ad un continuo confronto con altre forze, correnti di pensiero, ipotesi strategiche. L'intera storia del bolscevismo è una storia di grandi dibattiti e di polemiche furibonde, di profonde lacerazioni e di successive ricomposizioni, esattamente tutto l'opposto dell'immagine granitica ancora oggi riproposta anche da organizzazioni non staliniste come Lotta comunista. La dialettica interna del partito durante la rivoluzione ne è d'altronde la migliore dimostrazione. Soltanto nel breve periodo che va dal febbraio all'ottobre 1917 i bolscevichi si dividono prima sull'atteggiamento da tenere verso il governo provvisorio tra la posizione di cauto sostegno della Pravda diretta da Stalin e l'atteggiamento intransigentemente rivoluzionario di Lenin (Tesi d'aprile), poi sulla possibilità di un'apertura ai menscevichi, infine alla vigilia dell'insurrezione sull'opportunità stessa di prendere il potere. Il fatto stesso che il partito fino a Stalin non abbia avuto un segretario generale e che all'interno del gruppo dirigente bolscevico Lenin non fosse che un primus inter pares più volte messo in minoranza anche su questioni rilevanti, la dice lunga sulla serietà di chi ancora oggi si ostina a parlare di partito-caserma, di ordine religioso e via discorrendo con amenità di questo tipo.
Certo, nella storia nulla avviene per caso o nasce dal nulla. Non stupisce , dunque, il fatto che analizzando la storia della rivoluzione russa e del bolscevismo si possano trovare anche elementi di continuità fra il periodo leniniano e quello stalinista. La controrivoluzione non arriva dall'esterno, sedimenta a lungo nelle viscere del partito e del regime sotto forma di un processo strisciante di burocratizzazione. E' una vera e propria metastasi che via via si impadronisce di un corpo originariamente sano, ma che perde progressivamente ogni capacità di contrasto. Non a caso Trotsky e l'Opposizione di sinistra parleranno di Termidoro. Anche qui è importante saper distinguire il contingente dal necessario, individuare il segno di classe dei processi in atto, verificare se sul medio periodo prevalgano gli elementi di continuità o quelli di rottura. Un dato, allora, appare subito evidente e di assoluta rilevanza: per affermarsi definitivamente lo stalinismo ha dovuto liquidare fisicamente l'intera vecchia guardia bolscevica, annientare il partito di Lenin, perseguitare con furia implacabile Trotsky, riscrivere la storia della rivoluzione. La composizione del partito e dei suoi gruppi dirigenti dall'Ottobre alle grandi purghe degli anni Trenta fornisce abbondante materiale in questo senso.
Nel febbraio 1917 i bolscevichi possono contare su circa 20 mila militanti concentrati soprattutto a Pietrogrado e a Mosca, mentre al momento dell'insurrezione i membri del partito sono 180 mila, prevalentemente operai e soldati. Nel 1921 all'inizio della NEP gli iscritti sono saliti a 732 mila, ma nel 1923 dopo la prima grande epurazione del partito gestita dall'Ufficio Organizzativo diretto da Stalin sono solo più la metà, per risalire a 736 mila nel 1924 e a 775 mila nel 1927. Se consideriamo che dal 1924 risultano ammessi oltre 800 mila nuovi membri, possiamo concludere che quello del 1927 è un partito largamente rinnovato negli iscritti, un partito che non è più, anche se mantiene lo stesso nome e un richiamo al leninismo ormai rigidamente codificato, quello dell'Ottobre. Un partito che si è formato negli anni della NEP e del riflusso dell'ondata rivoluzionaria in Occidente. Un partito che all'originario programma internazionalista della rivoluzione mondiale ha sostituito il progetto di costruire il socialismo in un solo paese. Il partito di Stalin non è più quello di Lenin e dei bolscevichi, ma il frutto di una autentica mutazione genetica che appare ancora più chiara se consideriamo la storia del gruppo dirigente. Dei 21 membri del CC del partito eletto al VI Congresso dell'agosto 1917 e che dirige l'insurrezione 7 muiono di morte naturale, due assassinati dai bianchi, ben 12 liquidati nelle purghe staliniane. Dei 31 membri del CC che fra il 1918 e il 1921 dirige il partito durante gli anni di fuoco della guerra civile ben 19 sono vittime di Stalin. Ancora più drammatici i dati relativi all'Ufficio Politico bolscevico, eletto per la prima volta nell'ottobre del 1917 e composto complessivamente fino al 1923 da 10 membri. Tutti, con le sole eccezioni di Lenin e di Stalin, vittime a vario titolo del terrore e delle grandi purghe degli anni Trenta.
Isolamento e guerra civile: le origini dello stalinismo
La rivoluzione d'Ottobre realizza gli obiettivi che Lenin aveva definiti tipici di una rivoluzione democratico-borghese e che la borghesia russa non aveva saputo e voluto portare avanti con coerenza e determinazione. La rivoluzione rovescia l'autocrazia, ne smantella l'apparato repressivo e burocratico, spazza via i forti residui feudali ancora prevalenti nelle campagne, inizia la modernizzazione della cultura e del paese. Pone in altri termini le basi oggettive, materiali del socialismo. Con l'Ottobre si apre una fase di transizione che non è più il vecchio capitalismo, ma neppure ancora a pieno titolo socialismo e che si caratterizza più per il carattere operaio dello Stato sovietico che per la natura sociale dei rapporti di produzione che in larga misura restano sul terreno capitalistico anche se si tratta di un capitalismo di tipo nuovo, controllato dallo Stato. I bolscevichi e Lenin sono pienamente consapevoli del tragico ritardo della Russia, hanno ben chiaro, insomma, che la rivoluzione russa rappresenta solo il primo manifestarsi della rivoluzione mondiale, ma che gli scontri decisivi devono ancora venire e soprattutto che ciò accadrà altrove, nell'Occidente industrializzato di cui la Germania rappresenta il cuore. Importante è mantenere ad ogni costo il potere e fare ogni sacrificio per spingere avanti la rivoluzione mondiale che si ritiene imminente. Proprio la particolarità della Russia che aveva reso possibile la presa del potere, rende ora difficile mantenerlo. Di questo paradosso dialettico Lenin e con lui l'intera dirigenza bolscevica è pienamente consapevole.
Ma la rivoluzione in Occidente tarda a venire, nonostante la guerra abbia ovunque scavato un solco sanguinoso fra le classi. Nonostante le speranze dei bolscevichi la presa della socialdemocrazia sul proletariato europeo si rivela ancora salda. Una socialdemocrazia che porta la gravissima responsabilità di non essersi opposta alla guerra e che sceglie ormai apertamente il campo della difesa dell'ordine borghese. In Italia, dove per il carattere esplosivo delle contraddizioni sociali la situazione si avvicina di più a quella russa, la classe operaia del nord è lasciata sola dai dirigenti riformisti del PSI che non ne generalizzano le lotte coraggiose e soprattutto non provano neppure a costruire un possibile blocco operaio-contadino. In Germania, dove il crollo dell'impero ha portato la socialdemocrazia al governo, il ministro socialista Noske reprime selvaggiamente i moti spartachisti e fa assassinare i capi del nascente Partito Comunista, Rosa Luxemburg e Karl Liebchnecht. La Russia proletaria e comunista resta sola a confrontarsi con l'immensità dei suoi problemi.
Per quanto armati teoricamente e programmaticamente i bolscevichi non possono determinare le condizioni in cui battersi o scegliere il campo di battaglia. La rivoluzione mondiale che non viene accresce la pressione dell'imperialismo sulla stessa Russia, ridà voce alla reazione interna monarchica e militarista. Contrariamente alle menzogne degli storici reazionari, non sono i bolscevichi a scatenare la guerra civile che viene loro imposta dall'intervento armato di quelle democrazie dell'Occidente tanto care ai revisionisti alla Veltroni. 14 nazioni, fra cui l'Italia, inviano truppe in Russia per ristabilire l'ordine contro la "barbarie" comunista in nome dei superiori principi di "civiltà e umanità". La guerra civile, che dura fino all'estate del 1920, rappresenta un'epopea eroica per i comunisti ed il popolo russo, ma anche una colossale tragedia per un paese già gravemente provato da quattro anni di guerra.
La guerra civile costringe a destinare tutte le risorse alla creazione e all'approvigionamento di una Armata Rossa che toccherà nel pieno dello scontro quasi 5 milioni di soldati, ma soprattutto vanifica le speranze di pace e incrina con l'inevitabilità del terrore rivoluzionario e del centralismo più rigoroso la natura democratica del potere proletario. Gravissime sono le conseguenze della guerra civile per la giovane democrazia sovietica: distruzione quasi totale dell'economia, trasformazione radicale del partito che si militarizza, riduzione drastica degli spazi di democrazia nella società, sovrapposizione crescente del partito e dello Stato.
La guerra civile, seppur vittoriosa, segna un enorme passo indietro della rivoluzione in quanto determina la nascita di un socialismo "statalista" che mortifica le spinte alla partecipazione operaia nella gestione dello Stato e contribuisce alla crisi della democrazia proletaria. Lo stato sovietico si forma sulla base di uno sviluppo sociale regressivo e questa ne determina in profondità la natura e l'organizzazione. Di questa regressione Lenin è pienamente cosciente anche se attenderà l'inizio del 1921 e la tragedia di Kronstadt per imporre ad un partito che in gran parte identifica la dittatura proletaria con il "comunismo di guerra" la scelta di un riorientamento in profondità della politica economica.
Ma è nel partito che i guasti si riveleranno più profondi e duraturi. La guerra civile, con il carattere di spietata ferocia che ben presto assume, è il terreno di formazione di una nuova generazione di militanti che a differenza dei "vecchi bolscevichi" si connotano per la mancanza di formazione politica, l'abitudine ad un'ubbidienza di tipo militare, il culto del capo e delle gerarchie, una spiccata propensione a impostare i problemi in modo amministrativo e a considerare un atteggiamento brutale e autoritario come tipico del modo di essere comunista. Il partito tende a dividersi sempre più fra un piccolo nucleo di dirigenti che dibatte e una massa di militanti educata sempre più a vedere nell'ubbidienza la prima virtù rivoluzionaria. A partire dal 1923 tutto ciò si concretizza nella formulazione di una rigida ortodossia ideologica (il marxismo-leninismo) che ossifica il pensiero di Lenin e costruisce una storia ufficiale del partito che pone le basi del culto del capo infallibile, inizialmente allo scopo di colpire Trotsky e poi via via per liquidare l'intera vecchia guardia bolscevica.
Isolati in una Russia affamata e assediata con le industrie distrutte e le campagne in rovina i bolscevichi mantengono il potere, ma smarriscono il senso profondo dell'agire rivoluzionario. Sempre più Stato e Partito si identificano, sempre più socialismo e industrialismo vengono assimilati. La rivoluzione russa trionfa dei suoi avversari, ma al prezzo della sua anima libertaria, quella per intenderci magistralmente espressa da Lenin in Stato e rivoluzione. Lo stalinismo è espressione complessiva e contradditoria di questa realtà multiforme, ideologia dello sviluppo industriale in un paese arretrato, esaltazione delle specificità di quella Russia profonda in cui affonda le sue radici e che il cosmopolitismo dei vecchi intellettuali rivoluzionari (Lenin e Trotsky in primis) esprimeva solo in parte, teorizzazione dell'isolamento e della dimensione nazionale del socialismo.
Una riflessione sul bolscevismo è necessaria
Se è inaccettabile la tesi di chi recentemente anche nella sinistra antagonista ha, sulla base di una lettura minimalista dell'Ottobre come "fatto assolutamente tattico", rimproverato alla dirigenza bolscevica una visione "riduttiva e politicista" (8) della rivoluzione, occorre tuttavia riconoscere che la tragica parabola del bolscevismo e della stessa rivoluzione russa contiene al suo interno una serie di nodi problematici che devono essere affrontati in modo critico soprattutto da chi, come noi, intende comunque fermamente mantenere un riferimento ideale al leninismo. Considerate le dimensioni di questo lavoro, ci limitiamo ad enunciarne tre, che consideriamo centrali, rinviandone una trattazione più approfondita ad un'eventuale più specifica occasione. Si tratta in sintesi di valutare quanto agevoli la genesi dello stalinismo e la deformazione autoritaria e burocratica della Russia dei primi anni Venti:
- l'esclusione
definitiva dalla vita politica legale dei partiti sovietici proprio nel momento
in cui la guerra civile è vinta e sussiste la possibilità reale
di un ampliamento progressivo della democrazia sovietica che rivitalizzi il
ruolo dei Consigli e della classe operaia nella gestione diretta della società
e dello Stato;
- il tentativo di protrarre, anche quando non ne sussistono più le motivazioni,
la politica del "comunismo di guerra" e delle requisizioni forzate
nelle campagne che scatena la crisi del 1921 e la tragedia di Kronstadt;
- il divieto "temporaneo", ma di fatto a tempo indeterminato, delle
frazioni decretato dal X° Congresso del PC che riduce drasticamente la possibilità
di una reale dialettica democratica nel partito.
E' una riflessione difficile, ma necessaria, già avviata da Trotsky alla fine degli anni Trenta, ma sostanzialmente trascurata anche da chi su altri piani si è considerato l'interprete di una presunta ortodossia "trotskista". Scrive Trotsky ne La rivoluzione tradita, riconsiderando l'intero arco della storia sovietica:
"Non pensiamo di opporre all'astrazione 'dittatura' l'astrazione 'democrazia' per pesare le loro qualità rispettive sulla bilancia della ragion pura. Tutto è relativo a questo mondo, in cui di permanente non vi è che il mutamento. Ma qui, secondo il poeta, il senno diventa follia, il beneficio tormento. La proibizione dei partiti d'opposizione portò con se la proibizione delle frazioni: la proibizione delle frazioni condusse alla proibizione di pensare in modo diverso dal capo infallibile. Il monolitismo poliziesco del partito ebbe come conseguenza l'impunità burocratica che divenne a sua volta la causa di tutte le varianti di demoralizzazione e di corruzione" (9).
Questa riflessione è tanto più opportuna oggi, nel momento in cui una campagna sempre più aggressiva tende a identificare stalinismo e comunismo e ad assimilare in un'unica condanna ogni ipotesi di cambiamento radicale della società. "La rivoluzione scrive Furet è una rottura nel corso ordinario dei giorni e una promessa di felicità collettiva nella storia e per mezzo della storia [...] Nel XIX secolo la storia prende il posto di Dio nell'onnipotenza sui destini dell'umanità, ma è solo nel XX secolo che appaiono le follie politiche nate da questa situazione [...] C'è un mistero del male nella dinamica delle idee politiche del XX secolo" (10). Secondo lo storico francese di questa illusione nel carattere salvifico della storia, nata con l'illuminismo e la rivoluzione francese, il comunismo rappresenterebbe l'ultima e più cruenta manifestazione. Joseph de Maistre, massimo esponente del pensiero reazionario antigiacobino, che nelle "Considerazioni sulla Francia" scritte nel 1796 individuava la peculiarità della rivoluzione francese e del giacobinismo nel suo "carattere satanico" e nella volontà luciferina dell'uomo di sostituirsi a Dio, non avrebbe potuto scrivere di meglio (11).
Fine della storia o attualità del bolscevismo?
Ma perché questo accanimento contro un'idea, quella di rivoluzione, che si considera definitivamente tramontata. Perché insistere in questo modo contro una teoria, quella comunista, che si afferma in ogni occasione essere ormai morta e sepolta? Se il capitalismo ha vinto, se la democrazia borghese e liberale ha trionfato, cosa rende necessari i "libri neri", le abiure penose degli ex come Veltroni, la serie continua di rivelazioni che dimostrerebbero che il comunismo è stato solo un lungo e oscuro complotto? Il fatto è, ed è sotto gli occhi di tutti, che il crollo dell'URSS non ha rappresentato, come tanti si erano affrettati a scrivere, la "fine della storia" e l'inizio di un "nuovo ordine mondiale". Dieci anni di crisi, di guerre, di tensioni crescenti in ogni parte del globo hanno dimostrato semmai che il sistema capitalistico porta in se, come aveva già intuito Marx, le condizioni del suo superamento, ma anche una carica distruttiva capace di sfociare nella più grande barbarie. Il Novecento è stato il "secolo del sangue" non perché il proletariato ha tentato di dare "l'assalto al cielo", ma perché questo tentativo è stato respinto e l'umanità ha pagato con l'avvento dei fascismi, la guerra e l'olocausto questa sconfitta storica. Da questo punto di vista il secolo che muore rischia di essere stato solo una pallida anticipazione di ciò che l'avvenire del capitalismo ci prepara.
Di fronte al "nuovo disordine" che ci circonda e al crollo di ciò che, seppure in modo deformato, per molti rappresentava il socialismo c'è chi arretra in un pessimismo senza prospettive. Siamo entrati, afferma sconsolato lo storico inglese Eric Hobsbawm, in un'epoca in cui "il passato ha perso il suo ruolo, in cui le vecchie mappe e carte che hanno guidato gli esseri umani, singolarmente e collettivamente, nel loro viaggio attraverso la vita non raffigurano più il paesaggio nel quale ci muoviamo, né il mare sul quale stiamo navigando. Un mondo in cui non sappiamo dove il nostro viaggio ci condurrà e neppure dove dovrebbe condurci" (12).
Come militanti comunisti, come marxisti rivoluzionari il nostro approccio è diverso. Come ieri non avevamo illusioni sull'URSS, avendo ben chiaro il ruolo profondamente controrivoluzionario svolto dallo stalinismo e il tremendo salto all'indietro determinatosi nella coscienza di classe del proletariato proprio a causa della degenerazione opportunistica del movimento comunista, così oggi non ci sentiamo in alcun modo orfani. Siamo consapevoli delle difficoltà della fase che attraversiamo e della necessità di un paziente e lungo lavoro di recupero di una teoria e di una prassi coerentemente comunista. Sappiamo però altrettanto bene, proprio perché le vediamo ogni giorno di più crescere attorno a noi, che le contraddizioni del capitalismo si approfondiscono e che la stessa "globalizzazione" dei mercati tende ad esasperarle, portandole al più alto livello. La scelta storica che abbiamo di fronte è sempre più quella fra socialismo o barbarie e in questo la lezione dell'Ottobre resta di fondamentale importanza per la nostra come per le future generazioni. In questo senso sentiamo vive e attuali le parole di Rosa Luxemburg che facciamo nostre e riproponiamo alla riflessione dei compagni:
"Lenin e Trotsky
[...] sono stati i primi che hanno dato l'esempio al proletariato mondiale [...]
questo è l'elemento essenziale e duraturo della politica bolscevica.
In questo senso resta loro l'immortale merito storico di aver marciato alla
testa del proletariato internazionale, conquistando il potere politico e ponendo
praticamente il problema della realizzazione del socialismo [...]. In Russia
il problema poteva essere soltanto posto. Non poteva essere risolto. Ed è
in questo senso che l'avvenire appartiene ovunque al bolscevismo" (13).
NOTE
(1) Lenin, Prefazione
a: Marx, Lettere a Kugelman, Rinascita, Roma 1950, p.13
(2) Ibidem
(3) Ibidem, p.18
(4) Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, ora in: Scritti politici,
Editori Riuniti, Roma 1974, p.595
(5) La Stampa, 16 ottobre 1999
(6) Ci riferiamo, per intenderci, soprattutto agli studi di Nolte (Nazionalsocialismo
e bolscevismo. La guerra civile europea 1917-1945), Pipes (La rivoluzione
russa), Hobsbawm (Il secolo breve), Furet (L'avvenire di un'illusione)
e al famigerato "Libro nero del comunismo".
(7) Richard Pipes, La rivoluzione russa, ed.it. 1995; Orlando Figes,
La tragedia di un popolo, ed. it. 1996.(8) Claudia Romanini, Quello
strano Ottobre. Critica e anticritica del '17 bolscevico, Prospettiva, Roma
1997. L'autrice nel suo libro riprende sostanzialmente la riflessione sul bolscevismo
e la rivoluzione russa propria del gruppo politico "Socialismo Rivoluzionario".
(9) Lev Trotsky, La rivoluzione tradita, Samonà e Savelli, Roma
1968, p. 97.
(10) François Furet, Il futuro di un'illusione, Mondadori, Milano
1995, pp. 39-41.
(11) Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, ora in: AA.VV.,
I controrivoluzionari, il Mulino, Bologna 1981, p.71.
(12) Eric Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, p.30.
(13) Rosa Luxemburg, cit.