Rosa, Lenin e la questione nazionale
Lo
scontro del 1918. Di Antonio Moscato (scritto nel febbraio 2004)
Tra
gli scritti di Rosa Luxemburg, quello più ricordato dalla sinistra italiana
è probabilmente La rivoluzione russa, a cui si fa spesso riferimento per
le critiche ai dirigenti bolscevichi per i primi atti del loro governo: lo scioglimento
dell’Assemblea costituente, la riparti-zione delle terre tra i contadini,
il riconoscimento del diritto all'autode-terminazione delle nazioni.
Ai fini di questa utilizzazione in chiave "antileninista ", largamente
strumentale, conta poco che questo scritto, incompiuto e in molte parti appena
abbozzato, sia stato scritto nell’estate del 1918, in base a una documentazione
parziale e inevitabilmente frammentaria durante gli ultimi mesi di carcere, e
che Rosa non avesse potuto pubblicare quell’abbozzo essendone insoddisfatta
per diverse ragioni. Conta ancor meno, e in genere non viene quasi mai citato,
l’elogio appassionato del bolscevismo contenuto, accanto e prima delle critiche,
in quello stesso testo:
L’andamento della guerra e della rivoluzione russa hanno provato non l’immaturità
della Russia, ma quella del proletariato tedesco nei confronti dei propri compiti
storici, e il rilevarlo con tutta chiarezza non rappresenta che il primo dovere
di un esame critico della rivoluzione russa. Le sue sorti dipendevano pienamente
dagli avvenimenti internazionali. Che i bolscevichi fondasse-ro completamente
la loro politica sulla rivoluzione mondiale del proletariato, è davvero
la più splendida testimonianza della loro lungimiranza politica e della
loro saldezza di princìpi.
Il carattere tutto interno dello scritto esclude che si tratti di una concessione
tattica ai sentimenti delle masse. Rosa, d’altra parte, elogia ripetutamente
non solo le «teste forti che stanno alla direzione della rivoluzione russa,
Lenin e Trotskij», ma ammette esplicitamente che è stato decisivo
il ruolo di quel partito bolscevico contro cui tanto aveva polemizzato dopo il
Che fare? e la scissione del II Con-gresso del POSDR:
Solo un partito che sappia dirigere, vale a dire spingere avanti, è in
grado di procurarsi seguaci nella tempesta. La risolutezza con la quale Lenin
e i compagni hanno dato al momento decisivo l’unica parola d’ordine
che spingesse avanti: "tutto il potere al proletariato e ai contadini"
li ha trasformati in una notte, da minoranza perseguitata denigrata e "illegale",
i cui capi dovevano nascondersi come Marat nelle cantine, in padroni assoluti
della situazione.
Le tre critiche avanzate da Rosa ai bolscevichi vanno inoltre distinte tra loro,
giacché hanno validità e significato ben diverso. Le osservazioni
sullo scioglimento dell’Assemblea costituente sono effettivamente profetiche:
Rosa sa bene che l’Assemblea costituente «era l’immagine di
un passato superato non del nuovo stato di cose», in quanto eletta da «masse
contadine che erano in parecchi luoghi ben poco al corrente di quanto succedeva
a Pietroburgo o a Mosca» e quindi avevano dato la loro fiducia ai socialrivoluzionari
per il loro passato di lotte per la terra, senza rendersi conto che così
appoggia-vano un Kerenskij o un Avksent’ev, che usavano ogni mezzo per negare
loro la terra.
Anche per Rosa «non restava, ovviamente, che annullare questa Assemblea
costituente invecchiata, nata morta», ma per poi indire immediatamente nuove
elezioni. In queste pagine ci sono osservazioni lucidissime sui pericoli che correvano
i bolscevichi in seguito a quella decisione, in primo luogo perché si privavano
di mezzi efficaci per sentire il polso delle masse, anche di quelle non proletarie.
Rosa, naturalmente era consapevole che i bolscevichi avevano dovuto «passo
passo tastare, tentare, sperimentare in tutti i sensi» e che essi stessi
sanno che «una buona parte dei loro provvedimenti non rappresenta delle
perle». «Così non può non andare e così andrà
a tutti noi - aggiunge - anche se non è detto che dovunque debbano regnare
circostanze di fatto a tal punto ardue».
Rosa, d’altra parte, sempre a proposito della democrazia, o meglio della
«dittatura del proletariato» che «deve essere opera della classe
e non di una piccola minoranza di un proletariato», che «deve essere
opera della classe e non di una piccola minoranza di dirigenti in nome della classe»,
dichiara apertamente:
sicuramente anche i bolscevichi procederebbero esattamente in questi termini,
se non soffrissero della spaventosa pressione della guerra mondiale, della occupazione
tedesca e di tutte le abnormi difficoltà connesse, che non possono non
sviare qualunque politica socialista pur traboccante delle migliori intenzioni
e dei più bei principi.
Tutto ciò che avviene in Russia, è comprensibile, non rappresenta
che un’inevitabile catena di cause ed effetti, i cui punti di partenza e
le cui chiavi di volta sono: la carenza del proletariato tedesco e l’occupazione
della Russia da parte dell’imperialismo tedesco. Sarebbe pretendere il sovrumano
da Lenin e compagni, attendersi ancora da loro in tali circostanze che sappiano
creare per incanto la più bella democrazia, la più esemplare delle
dittature proletarie e una fiorente economia socialista. Col loro deciso atteggiamento
rivoluzionario, la loro esemplare energia e la loro scrupolosa fedeltà
al socialismo internazionale, essi hanno certamente fatto quanto in una situazione
così diabolicamente difficile era da fare. Il pericolo comincia là
dove essi fanno di necessità virtù [...].
Rosa raccomandava di distinguere nell’operato dei bolscevichi e soprattutto
nelle loro teorizzazioni affrettate «l’essenziale dall’inessenziale,
il nocciolo dal fortuito».
I bolscevichi hanno mostrato che essi possono tutto quanto un partito schiettamente
rivoluzionario è in grado di fare nei limiti delle possibilità storiche.
Essi non devono voler fare dei miracoli. Perché ciò rappresenterebbe
una rivoluzione proletaria modello in un paese isolato, strangolato dall’imperialismo
e tradito dal proletariato internazionale.
Questa parte dello scritto si conclude, peraltro, con un appassionato elogio di
Lenin e Trotskij, che «sono stati i primi a dare l’esempio al proletariato
mondiale e sono tuttora gli unici che con Hutten possano esclamare: "Io l’ho
osato"!».
Questo è quanto costituisce l’essenziale e l’imperituro della
politica bolscevica. In detto senso è loro imperituro merito storico di
essere passati all’avanguardia del proletariato internazionale con la conquista
del potere politico e l’impostazione pratica del problema della realizzazione
del socialismo, e di aver potentemente contribuito alla resa dei conti tra capitale
e lavoro in tutto il mondo. In Russia il problema ha solo potuto essere posto.
Non vi poteva essere risolto. E in questo senso l’avvenire appartiene dunque
al bolscevismo.
In questo contesto vanno valutate le altre critiche della Luxemburg all’operato
dei bolscevichi. Lungi dall’accusare i bolscevichi di volere portare «l’utopia
al potere», come è di moda oggi dire da noi e soprattutto nella Russia
eltsiniana, Rosa, a proposito della questione agraria e di quella nazionale, li
sospetta di un peccato di tutt'altro genere, cioè di «opportunismo
politico», giacché rinunciano a una parte del tradizionale programma
socialista per adottare parole d’ordine altrui solo perché sono sentite
dalle masse:
Discorso di Lenin sulla necessaria centralizzazione dell’industria. Nazionalizzazione
delle banche, del commercio, dell’industria. Perché non della terra?
Qui, al contrario, centralizzazione e proprietà privata. Il programma agrario
peculiare di Lenin prima della rivoluzione era diverso. Lo slogan desun-to dai
tanto ingiuriati socialisti-rivoluzionari o più esattamente: dal movimento
spontaneo contadino.
Rosa, naturalmente, coglie anche in questo caso i pericoli reali che minacciano
la giovane Repubblica sovietica in seguito alla riforma agraria, in primo luogo
per «il modo caotico, puramente fondato sull'arbitrio, della sua attuazione»:
L'occupazione dei latifondi da parte dei contadini, in conseguenza alla breve
e lapidaria parola d’ordine di Lenin e dei suoi amici: "Andate e prendetevi
la terra!" ha portato semplicemente al repentino e caotico trapasso della
grande proprietà terriera in proprietà fondiaria contadina. Ciò
che ne è derivato non è proprietà sociale, ma nuova proprietà
privata e precisamente smembramento della grande proprietà in possessi
di media e minore grandezza, del grande esercizio relativamente progredito in
piccolo esercizio primitivo, tecnicamente al livello dei tempi dei Faraoni.
Rosa ritiene che «la riforma agraria leninista ha procurato al socialismo
un nuovo, potente strato sociale di nemici nelle campagne, la cui resistenza sarà
molto più pericolosa e tenace di quanto non sia stata quella dei grandi
proprietari terrieri aristocratici». Naturalmente non ignora gli sforzi
dei bolscevichi per organizzare comitati di contadini poveri, «per fare
in qualche modo della occupazione dei latifondi nobiliari una collettivizzazione»,
ma ritiene che questa proposta non possa «nulla mutare alla prassi concreta
e alle concrete relazioni di forza nelle campagne». In ogni caso, con comitati
o senza, «i contadini ricchi ed usurai che costituivano la borghesia paesana
e che in ogni villaggio avevano effettivamente nelle mani il potere locale, sono
diventati i principali profittatori della rivoluzione agraria».
Questo spostamento di forze ha avuto luogo a sfavore degli interessi proletari
e socialisti. Prima, a una riforma socialista nelle campagne avrebbero opposto
resistenza tutt’al più una piccola casta di grandi proprietari terrieri
nobili e capitalisti, come pure una piccola minoranza della ricca borghesia paesana,
la cui espropriazione da parte di una massa popolare è gioco da fanciulli.
Ora, dopo l’"occupazione" avversaria di qualunque socializzazione
socialista della agricoltura, è diventata una massa enormemente accresciuta
e forte di contadini possidenti che difenderà con i denti e con le unghie
le proprietà appena acquisite contro ogni attentato socialista.
La Luxemburg prevede anche che «la questione della futura socializzazione
dell’agricoltura, anzi della produzione in generale», sarà
occasione di «discordia e di lotta tra il proletariato urbano e la masse
contadine», cogliendo, anzi, i primi segni dell’asprezza del contrasto
nel «boicottaggio contadino delle città, alle quali rifiutano i mezzi
di sussistenza per farne speculazioni».
Illusoria ogni analogia con la Rivoluzione francese, giacché, se allora
il contadino aveva combattuto valorosamente per difendere la terra confiscata
all’emigrazione, in Russia il contadino, «una volta preso materialmente
il possesso della terra», non solo non ha difeso la rivoluzione che gliela
aveva data, ma «si è tuffato nel nuovo possesso ed ha abbandonato
la rivoluzione ai suoi nemici, lo Stato alla rovina, la popolazione cittadina
alla fame».
Non c’è dubbio che Rosa, già in quell’estate del 1918,
avesse intuito le dinamiche dei conflitti sociali che si intrecciarono alla guerra
civile, che riesplosero nel 1921 a Kronstadt e Tambov, che furono poi inizial-mente
attenuati e successivamente ingigantiti dalla NEP, e che spin-sero nel 1928-1929
Stalin, quando ne prese finalmente coscienza, dopo una lunga intesa con Bucharin,
alla spietata collettivizzazione forzata, tanto più spietata e violenta
in quanto tardiva.
Ma il ragionamento della Luxemburg contiene un vizio di fondo che era stato già
colto da Gyorgy Lukács nel 1922, subito dopo la pubblicazione de La rivoluzione
russa da parte di Paul Levi:
La rivoluzione agraria era una realtà di fatto, completamente autonoma
dal volere dei bolscevichi e dello stesso proletariato. I contadini si sarebbero
divisi la terra sulla base della elementare espressione dei loro interessi di
classe in qualsiasi evenienza; se i bolscevichi si fossero opposti, ne sarebbero
stati spazzati come lo furono i menscevichi e i socialisti rivoluzionari. La giusta
impostazione della questione non consiste, dunque, nel chiedersi se la soluzione
bolscevica sia stata una misura di carattere socialista o perlomeno indirizzata
in questo senso, ma se nella situazione di allora, nel momento in cui il movimento
ascendente della rivoluzione tendeva a un punto di risoluzione, non fosse opportuno
raggruppare, contro la borghesia che si stava organizzando per la controrivoluzione,
tutte le forze elementari della società borghese in autodisfacimento, non
importa se proletarie “pure” o piccolo-borghesi, mosse o meno da fini
socialisti.
Ci siamo soffermati abbastanza a lungo sulle critiche rivolte dalla Luxemburg
alla politica dei bolscevichi nelle campagne, perché permette di capire
meglio la logica sottesa all’accusa più grave o meno lucida rivolta
a Lenin, quella di avere sposato il «programma di pace della borghesia»
facendo proprio il «cosiddetto diritto di autodeterminazione nazionale».