Per i 150 anni. Nasce il regno d'Italia
Percorriamo una storia d'Italia diversa, ricordando situazioni e personaggi ed episodi che le celebrazioni ufficiali non vogliono ricordare. Di
Maurizio Attanasi. Reds - Marzo 2011.




A Torino, il 17 marzo 1861, deputati e senatori proclamavano Vittorio Emanuele re d’Italia, votando contestualmente la legge istitutiva del nuovo stato.

Nel giro di un paio d’anni, anche se i primi passi furono compiuto nel 1848 con la prima guerra di indipendenza, lo stato sabaudo era diventato da piccolo regno periferico a un grande stato europeo.
Il merito non era solo della capacita dei governanti piemontesi; come testimonia una delle imprese eroiche del risorgimento, la spedizione dei mille, concorsero molti fattori per la nascita del nuovo stato.

In particolare l’impresa di Garibaldi, non solo trovò l’appoggio internazionale di Gran Bretagna e Francia, ma anche andò in portò grazie all’abilità di Cavour e dei soldi con cui si comprò parte dell’esercito e della marina borbonica e sabauda e con l’appoggio della mafia e della camorra.

Il nuovo stato era un paese agricolo (il 70% della manodopera era occupato nell’agricoltura); una superficie di 560 mila chilometri quadrati e quasi 22 milioni di abitanti, analfabeti per l’80 % circa, con punte molto più alte nelle nuove province meridionali; l’italiano, la nuova lingua ufficiale era parlata da appena il 2,5 % della popolazione.

Per evitare che i localismi intaccassero l’unità faticosamente conquista si decise di estendere a tutta la penisola il modello amministrativo piemontese, a sua volta copiato dal rigido centralismo in vigore in Francia.

La celebre frase di D’azeglio che gli italiani erano da fare era una durissima realtà.

Ma Vittorio Emanuele, la sua corte e il suo governo (Cavour) non fecero nulla per far nascere gli italiani , dopo aver creato l’Italia.
Modello amministrativo, lo abbiamo già detto, esteso a tutta la penisola, leggi e regolamenti piemontesi che diventavano italiani, l’organizzazione dell’esercito e della marina che da sabauda diventava italiana.

Che si trattasse della continuazione delle politiche piemontesi lo si constatò nel momento (pur simbolico) in cui il re, ignorando i tiepidi consigli contrari, decise di mantenere il nome da sovrano del Piemonte: continuò a chiamarsi secondo e non primo, come invece sarebbe stato più giusto, visto che era il primo re del nuovo stato.

Anche la sessione del parlamento fu l’ottava e non la prima d’Italia.

La carta fondamentale dello stato continuò ad essere il piemontese statuto albertino, concesso dal genitore del re, vent’anni prima allo scoppio dei moti del 1848.Fù così che la nuova nazione iniziò ad avvertire ostilità nei confronti di quelli che venivano considerati i nuovi invasori.

A Bologna, come ci racconta Smith nella sua storia d’Italia, trentacinque professori universitari rifiutarono di prestar giuramento di fedeltà al nuovo governo e furono destituiti.
“Ovunque era un sordo brontolare che il Piemonte riceveva troppi appalti governativi, che il sud pagava più del dovuto di imposte”
Anche in Lombardia, regione certamente non arretrata montava il malcontento.
“I milanesi protestavano per le nuove tasse che dovevano pagare e si lamentavano che l’amministrazione austriaca - efficiente per definizione fosse stata sostituita da quella sabauda, che muovendosi a spanne, girava a vuoto senza rispondere alle esigenze della gente.” (L. del bocca, maledetti savoia, p 142)

Capitolo a parte è rappresentato dall’ ex regno delle due sicilie.
Nel momento della nascita del nuovo stato, si allestirono campi di detenzione in cui vennero rinchiusi i membri degli eserciti sconfitti, che però, formalmente, avevano servito quello che all’epoca era il loro legittimo sovrano ma che, dopo la proclamazione del regno, si trovarono ad essere cittadini italiani privi dei più elementari diritti civili.
Questi campi sorsero ad una ventina di chilometri da Torino, uno a Milano, uno ad Alessandria e uno a Finestrelle.
Si sa poco circa questi campi; nel senso che non sappiamo quanti morirono, quanti subirono danni permanenti in seguito a questa detenzione, quale fu la loro vita una volta ritornati alla libertà.
Sappiamo che però le condizioni igienico sanitaria erano pessime; che vivevano in tuguri esposti alle intemperie di un clima rigido a cui oltretutto non erano abituati e venivano rinchiusi dopo lunghissimi viaggi in condizioni pessime strappati dalla loro terra e dalla loro famiglia.

Meriterebbe poi un discorso approfondito tutto il fenomeno del brigantaggio di cui dovremo riparlarne in un'altra occasione.

L’assemblea che a Palazzo Carignano si riunì per celebrare l’importante evento dell’unità e successivamente per le normali riunioni, cento cinquant’anni fa era stata eletta con un suffragio ristrettissimo in base al censo.

Si presento alle urne lo 0,9 % della popolazione, votando in circoscrizioni che il governo, come ogni buon governo ha sempre fatto, aveva disegnato in modo che potessero eleggere uomini vicini alla maggioranza del Cavour.
Nelle province meridionale i metodi usati dai borboni (violenze e mafia) non furono affatto ripudiate e in alcune situazioni il nuovo stato continuò in perfetta continuità con le usanze antiche e pessime.

Uno dei primi argomenti che il parlamento italiano si trovò ad affrontare fu quello della possibile indennità di carica, che si decise, in ossequio a quanto previsto dallo statuto albertino.
Ai deputati e senatori che dalla loro attività professionale ricavano motivo di lucro per i servizi resi allo stato erano invitati a dimettersi o a rinunciare ai lavori che creavano conflitti di interessi.
Per cui il primo parlamento parlava già di conflitto di interessi e quei padri della patria scrissero nobili parole di moralità, affermando che bisognava servire il paese e non fare i propri interessi.

Ma poi, purtroppo , come spesso è accaduto nella storia italiana, alle parole non seguirono i fatti e i membri di quel parlamento come Francesco Crispi, futuro ministro e presidente del consiglio uomo della sinistra storica continuò nella sua attività di consulenza per dei banchieri che spesso incrociarono gli affari proprio con quelli dello stato italiano; o come il generale garibaldino Bixio che continuò ad essere nel consiglio di amministrazione del Credito Immobiliare e non provò imbarazzo a ritirare i dividendi quando l’istituto ottenne appalti per costruzioni statali.