Per i 150 anni. E li chiamavno briganti.
Dopo l'unificazione emerse in tutta la sua drammaticità il malessere
del sud. Nella nuova capitale preferirono parlare di "delinquenti comuni"
e reprimere tutto con la forza. Ma il problema era più complesso. Di
Maurizio Attanasi. Reds - Maggio 2011.
Nel periodo della storia italiana che va, grosso modo, dal 1861 al 1870 assistiamo
a un fenomeno storico definito un po' frettolosamente con il termine negativo
di "brigantaggio meridionale".
I piemontesi avevano fatto l’Italia e fecero anche la storia di quel
periodo; per decenni si è semplicemente descritto quello che è
accaduto nelle province dell’Italia meridionale come un mix tra tentativi
leggitismitici dei borboni e criminalità comune. La realtà però
non era così semplice.
Il brigantaggio meridionale ha rappresentato un fenomeno complesso generato
da diverse cause, in cui i vari protagonisti sono stati letti e interpretati
dagli storiografi in vari modi.
Bisogna partire da un dato: l’unificazione avvenuta nel 1861, aldilà
della versione edulcorata che i Savoia hanno voluto dare, fu in realtà
una conquista; il regno di Sardegna servendosi sia dell’esercito ufficiale
(la calata dal nord attraverso lo stato pontificio) sia attraverso l’azione
dal sud di un gruppo di volontari (della cui azione il governo di Torino,
e non solo, sapeva tutto) procedette ad occupare ed annettere il regno delle
due Sicilie.
Fu guerra e conquista; anche se le prebende e le promesse dei Savoia ammansirono
molto i comandanti dell’esercito borbonico !
Una volta conquistato il regno delle due Sicilie, la nuova amministrazione
si trovò a dover gestire un terzo del nuovo stato che aveva “subito”
l’unificazione e che certamente non l’aveva né voluta né
aiutata.
Accanto a questi nuovi sudditi, il governo di Torino si trovò ad affrontare
coloro che stavano lottando per il pane e la terra, nel secolare tentativo
di affrancarsi dalla fame, coltivando un pezzo di terra che non apparteneva
a nessuno o prestando le proprie braccia al signorotto locale.
I nuovi liberatori erano un po’ “prevenuti”. Appena varcati
i confini del regno borbonico i generali piemontesi si affrettarono a chiedere
poteri eccezionali per combattere contro quelle popolazioni che non accettavano
di sottomettersi docilmente ai nuovi liberatori (si vedano le richieste,ad
esempio, del generale Della Rocca).
La fuga di Francesco II da Gaeta, dove aveva tentato un difesa simbolica,
a Roma, segna anche formalmente la caduta del Regno delle due Sicilie e la
contestuale smobilitazione di tanti soldati borbonici, cui non venne neppure
chiesto di aderire al nuovo esercito italiano.
Viene deciso, anche, lo scioglimento “dell’Armata Garibaldina”;
tale decisione provocò malessere tra gli uomini cui non vennero mantenute
molte delle promesse fatte nel momento dell’ “arruolamento”
e delusione negli ambienti “democratici” e “rivoluzionari”
che l’eroe dei due mondi aveva infiammato sin dai primi giorni della
sua impresa nel sud dell’Italia.
Queste situazioni critiche si assommarono ad un'altra, ancora più antica,
che dilaniava il regno borbonico: quello della fame di terra.
Tentativi di risolvere questo problema erano state attuati con Napoleone,
modificati con la restaurazione, ma la questione esplose nuovamente con le
rivoluzioni di metà ottocento.
“Per i cafoni era una situazione senza uscita; erano espulsi dall’universo
feudale – che garantiva qualche possibilità di sopravvivenza-
e non potevano entrare nel mondo capitalistico moderno, in qualità
di proprietari”.
In poche parole le misure introdotte avevano alla fine fatto arricchire e
diventare più potenti i vecchi possidenti (l’aristocrazia feudale
e nobiliare si era in qualche misura imborghesita) e gli stessi nuovi ricchi
(i nascenti borghesi) riuscirono a fare buoni affari. Chi ci rimise sempre
fu il povero contadino, quello che doveva usare il proprio lavoro per mantenere
la propria famiglia.
Fu guerra civile quella che sconvolse il sud del nostro paese; il neonato
esercito italiano arrivò ad impegnare ben 120.000 uomini, quasi un
terzo dell’intero esercito.
Un esercito senza guide, senza carte geografiche, con abbigliamento inadatto,
mandati alla ventura in un territorio ostile, con la popolazione che li guardava
con diffidenza.
Spesso furono gli stessi comandanti militari a denunciare gli episodi di violenza
a cui si lasciavano andare i soldati.
E quale situazione disperata incontravano nelle nuove regioni i soldati se
ne trova traccia nelle lettere che i militari spedivano a casa; lettere in
cui emergeva la sofferenza del popolo e il fastidio che molti militari provavano
nello svolgere funzioni di ordine pubblico.
Come nel racconto di Ermenegildo Novelli in cui scrive “ Laggiù
mancava tutto quello che occorre alla civiltà. Scuole, neanche a parlarne;
strade, poche… I poveri contadini avevano case tali da far loro invidia
le nostre stalle, e gli stallotti da maiali… Che cosa si poteva pretendere
da gente che viveva a quel modo ?” con gli animali in casa accanto a
vecchi e bambini?
Contro l’esercito in divisa, si schierò un esercito composito,
un’armata brancaleone.
“Per la loro stessa composizione, le bande svolgevano un’azione
ambigua. ….. c’erano i ribelli autentici, i borbonici sinceri,
i soldati delusi e rancorosi, ma c’erano anche i banditi, i disadattati,
i profittatori”
Si ritiene che le bande che si affermarono nel corso del decennio, anche se
il brigantaggio nella fase più acuta durò solo un lustro, furono
circa 350 che coinvolsero decine di migliaia di uomini.
Da Roma, Francesco II cercò di indirizzare questo moto esploso nel
sud.
Inviava soldi, pochi rispetto a quello che gli ambienti borbonici promettevano,
inviava uomini che reclutava sia nelle sue ex province sia a Roma, tra gli
stagionali che si recavano nello stato pontificio a cercare lavoro, e inviava
anche comandanti che dovevano guidare le truppe del sud nella lotta per riportarlo
sul trono di Napoli.
Ma i suoi generali fecero una brutta fine.
Borges, legittimista spagnolo, ex combattente nella guerra civile spagnola,
carlista e tradizionalista sbarca in Calabria con ben 17 uomini (!!!) e si
unisce in basilicata con Crocco; la visione dei due è diversa e alla
fine sarà il generale invato dai borboni ad abbandonare la lotta e
a tentare di ritornare a Roma; ma verrà arrestato e fucilato dai soldati
italiani.
Anche Tristany, altro legittimista spagnolo, non ebbe maggior fortuna.
Dopo essere entrato in contatto con la banda di Chiavone , lo fece fucilare
da un consiglio di guerra perché non aveva rispettato alcune sue decisioni;
lasciò presto però la lotta e riparò nel 63 nello stato
pontificio dove fu arrestato dai soldati francesi.
Questi due importanti esempi dimostrano come sia falsa la vulgata che vuole
far passare il brigantaggio solo come una guerra legittimista; per
molti ci fu un uso strumentale della causa del ritorno di Francesco II; i
briganti dimostrarono la loro fedeltà al trono e all’altare (erano
religiosissimi) ma seppero usarli per i loro fini e per la loro battaglia!
A quest’esercito formato da tanti straccioni, con tante e diverse motivazioni
lo stato Italiano ripose in maniera e decisa con un'unica maniera: con la
forza. La
guerra fu il primo rapporto che si instaurò tra le ex province borboniche
e il resto dello stato italiano.
Da subito fu proclamato lo stato d’assedio in molte province dell’italia
meridionale e vennero dati poteri speciali all’esercito.
Nel 1860, pochi giorni dopo l’incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio
Emanuele II, il generale Pinelli nei pressi di Avezzano fece pubblicare un
bando che prevedeva la fucilazione immediata non solo per chi era stato trovato
in possesso di armi da fuoco, coltello o qualunque altra arma ma anche per
quelli che con parole o soldi incitano i contadini (definiti villici) a ribellarsi,
o per coloro che con parole o atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto
del re o la bandiera nazionale italiana.
Si arrivò ad arrestare i parenti dei presunti briganti, fino al terzo
grado, per costringerli a costituirsi e si confiscarono beni e mezzi di interi
paesi.
Nel 1863 venne promulgata la legge Pica che inaspriva le sanzioni, e voleva
fare terra bruciata intorno ai briganti; vennero inviati al domicilio coatto
o nelle isole i manutengoli , i fiancheggiatori.
I paesi vennero messi a ferro e fuoco per dimostrare che il nuovo stato puniva
chi collaborava o sosteneva i briganti.
Venne fucilato, senza processo, chiunque veniva sorpreso con armi addosso
fuori dai centri abitati; viene accusato di essere collaboratore chi è
trovato a trasportare viveri o altri generi fuori dai paesi.
Si creò un circolo vizioso per cui i briganti assaltavano i villaggi,
seminando terrore e violenza; magari occupavano le case per alcuni giorni
e poi lasciavano i poveri ruderi.
A quel punto arrivavano i soldati che punivano la popolazione; individuano
e colpivano i collaboratori, procedevano a sequestri e razzie e, con tali
comportamenti, spingevano gli abitanti ad andare alla macchia a combattere
contro i piemontesi.
La repressione, da parte di quelle che di fatto si comportavano come truppe
di occupazione, fu dura nei confronti dei contadini e della povera gente,
mentre per i proprietari, anche quando i sospetti di manuntegolismo erano
più che fondati si procedette con qualche cautela.
Tra l’agosto del 1863 e il 1864 furono celebrati 3613 processi per 5224
imputati.
Fino al 1865 rimasero uccisi o passati per le armi 5212 e furono tratti in
arresto 5044 persone.
La battaglia contro i briganti fu vinta a caro prezzo dallo stato; quello
che fu il periodo più acuto terminò nel 1865; ma gli scontri
e le scorribande durarono fino al 1870.
Il problema fu risolto, ma in un modo modo che, nei fatti, condizionò
e per sempre i rapporti tra le popolazioni appena sottomesse e lo stato italiano.
I problemi che avevano causato questo fenomeno non vennero mai affrontati
e su questi si innestò quella che poi sarebbe conosciuta come la questione
meridionale.
Pasquale Villari, storico e letterato napoletano, nelle sue “lettere
meridionali” scriveva: “Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo
fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo pensato poco.
In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi
ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire
la riproduzione di un male che certo non è spento e durerà un
pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici”.
Un ufficiale dell’esercito italiano, che aveva partecipato alla campagna
contro i briganti, in risposta a quest’opera scrisse una lettera al
Villari, in cui, chiedendo di rimanere anonimo, esprimeva questo giudizio
sul brigantaggio condivisibile e particolarmente lucido: “ Il brigantaggio
antico e contemporaneo … trae unicamente origine dalla triste condizione
sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono
aumentargli forza non basterebbero mai a dargli vita; e neppure da cattiva
indole o nequizia degli indigeni, che in verità hanno dalla natura
vivezza d’ingegno, carattere dolce e sommesso”.
BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO
A cura di A. De Jaco, Il Brigantaggio Meridionale
A cura di m Viglione, La rivoluzione Italiana, il Minotauro 2001
S.Scarpino, Il brigantaggio dopo l’unità d’Italia, Fenice
2000, 1993
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Aa.vv, Miti e Storia dell’unità d’Italia, il mulino 1999
Denis Smack Smith, Storia d’Italia 1861-1969