Per i 150 anni. 1943: sciopero
Le manifestazioni di protesta degli operai italiani segnano il declino dell'impero
fascista e possono essere considerati uno dei primi episodi della resistenza
italiana al fascismo(
Di
Maurizio Attanasi). Reds - Ottobre 2011.
L'Italia è in guerra da tre anni ormai, con il sogno della guerra
lampo e dello spezzamento delle reni alla Grecia evidentemente tramontato.
L’Italia in camicia nera, passata dalla politica autarchica, si trova
a a vivere l’evento bellico negli stenti e con la terribile tessera
annonaria, sinonimo di fame.
I generi di prima necessità erano patrimonio si acquistavano alla
borsa nera e chi se la poteva permettere prosperava; per il resto della
popolazione del 43 c'era solo fame e miseria.
Per gli operai, il regime era stato una disgrazia più che per altri
gruppi sociali. Il regime mussoliniano era andato al potere appoggiandosi
al connubio agrari-industriali e, quindi, la sua vittoria e la sua affermazione
avevano portato gli operai a vedere limitati e compressi diritti e salari.
Il Duce conosceva bene la classe operaia e sapeva quanto poco affidamento
la stessa poneva sul regime; conosceva anche l’impermeabilità
ai principi del fascismo e anche per questo la inglobò nella dottrina
del corporativismo e del sindacalismo fascista: una elaborazione teorica
e una organizzazione che metteva nello stesso calderone operai e padroni,
capitale e lavoro, in una assurda comunanza di interessi e di visione degli
interessi del paese.
Questa situazione così pesante da tutti i punti di vista, subì
un ulteriore peggioramento con lo
scoppio della guerra.
Le fabbriche vennero militarizzate, i ritmi di produzione , soprattutto
delle industrie legate alla produzione bellica, aumentati; lo sciopero era
considerato come diserzione e la gestione delle controversie venne demandata
ai tribunali militari!
Questo il contesto da tener presente quando scoppiano gli scioperi nel marzo
del 1943.
Il 5 marzo alle 10 allo stabilimento di Mirafiori, a Torino, la sirena di
prova dell’allarme aereo non viene azionata dalla direzione aziendale
perché viene a sapere in aticipo che è il segnale convenuto
per dare inizio allo sciopero.
Ma gli operai sono determinati e anche senza il segnale convenuto incrociano
le braccia e rivendicano per tutti il pagamento dell’indennità
di sfollamento e quella per il caro vita, ma invocano anche la fine della
guerra.
“Pane, pace e libertà” sono le parole d’ordine
dello sciopero che, partito da Torino si estende a macchia d'olio in tutta
la regione e oltre.
Il 23 marzo scende in scioperlo la Falck di Sesto s. Giovanni e poi in tutta
l’area milanese.
Nel giro di pochi giorni anche nel Veneto scattano gli scioperi (Porto Marghera)
in Emilia (alla Ducati di Bologna) in Toscana e nella Liguria. In prima
linea ci sono le donne, in questo sciopero che non è solo economico
ma anche politico.
Saranno 200 mila i lavoratori che alla fine aderiranno allo sciopero, duecento
le fabbriche coinvolte.
Patetico l’intervento del fascista senatore del regno Giovanni Agnelli
che in uno dei suoi stabilimenti, alla Ris di Villar Perosa, scenderà
tra gli operai per cercare di dissuaderli dallo sciopero. Cerca di sembrare
commosso, il senatore rimprovera le maestranze per il grande dolore che
gli stanno dando, mai si sarebbe aspettato che gli operai della sua fabbrica,
i suoi protetti si sarebbero ribellati (!!!).
Qualcuno ha sottolineato lo spontaneismo di questi scioperi che prendevano
chiaramente di mira il regime fascista e la guerra, nati dal nulla nel deserto
dell'oppressione fascista.
In realtà nelle fabbriche gli agitatori, i sovversivi non si sono
mai arresi.
Nelle fabbriche sono pochi quelli che non sono iscritti al partito nazionale
fascista; poche decine sono quelli che continuano a fare propaganda, e poi
con il passare del tempo e il crescere del malcontento iniziano a diffondere
volantini, manifesti e copie dei giornali, come l’Unità, che
ricominciano ad essere stampati clandestinamente.
Gli scioperi si sviluppano anche grazie all’attività di questi
compagni che rischiano la vita ogni giorno.
Ma come reagisce a questi scioperi il fascismo, il Duce e il resto della
classe operaia?
Il regime capisce benissimo la gravità dell’evento e la sua
portata devastante.
Il primo aprile Farinacci scrive a Mussolini che in quei giorni era stato
“ infranto il principio di autorità del nostro partito e che
gli scioperi avevano assunto un carattere deliberatamente e preordinatamene
antifascista”.
Mussolini reagisce al solito modo: dopo la conclusione degli scioperi a
metà di aprile scatta la rappresaglia della polizia : un’ondata
di arresti colpisce gli operai, arresti che vengono eseguiti soprattutto
di notte, per far arrivare in ritardo le notizie nelle fabbriche.
Come segnale di monito agli altri operai i vertici del partito ordinano
agli operaio iscritti al partito (la stragrande maggioranza) di indossare
la camicia nera come segnale di condivisione delle linee del partito e per
dimostrare la non condivisione della lotte di marzo aprile.
La risposta è un’ulteriore prova devastante per il regime:
pochi, pochissimi quelli che ubbidiscono; anche altri operai meno sensibili
alle critiche verso il fascismo hanno intrapreso il loro cammmino verso
la liberazione dal giogo fascista.
Qualcuno ha individuato in questi scioperi la prima e diretta causa di quello
che sarebbe avvenuto dopo quattro mesi con la seduta del gran consiglio
del fascismo e la defenestrazione di Mussolini.
Sicuramente le sciagure della guerra avevano alimentato in ambienti della
corte, in esponenti del capitalismo, in ambienti interni allo stesso movimento
fascista l’idea di un cambio al vertice, magari uscendo dall’alleanza
con i tedeschi e avvicinandosi all’Inghilterra conservatrice di Churcill.
Lo sciopero fornì in quegli ambienti l’input atteso da molti,
ma è altrettanto vero che gettò il seme per la nascita del
movimento della resistenza che contribuì in maniera determinante
alla nostra liberazione.