Pensioni:
la posta in gioco.
Come
cambiano le cose con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo.
Una semplice ed agile guida per capirci qualcosa riguardo al dibattito sul
nostro sistema pensionistico. Di Duilio Felletti. Febbraio 2000.
È
facile prevedere che in tempi brevi la concorrenza tra le imprese per la conquista
di nuovi mercati diventerà più aspra, a causa della sfida intercapitalista
oramai estesa su scala planetaria. I governi fino a ieri hanno favorito le
proprie borghesie con la leva del fisco e provvedimenti protezionistici, ma
ora il tempo che i governi europei hanno a disposizione per mettere in condizione
le proprie borghesie di affrontare la sfida della moneta unica è ormai
non più lungo di due anni, e in questi due anni i padroni devono avere
la garanzia di non trovarsi oberati da costi che non debbano sostenere anche
i concorrenti. In
quest'ottica, Governo, padroni e sindacati, spingono affinchè i lavoratori
si costruiscano una pensione aggiuntiva che, per ora, andrebbe a integrare
la pensione pubblica, ma che nel tempo, acquisendo sempre maggiore peso, la
dovrebbe soppiantare definitivamente. Ma
a tenere banco in queste settimane, come se già non bastasse, è
il cosiddetto passaggio dal sistema retributivo di calcolo della
pensione a quello contributivo: ma per capire bene il nocciolo
della questione occorre comprendere come funziona oggi il sistema di calcolo
delle pensioni. La
prima grande riforma delle pensioni è stata varata dal Parlamento nel
1968. La
legge introduceva il sistema a ripartizione, cioè quello basato sull'equilibrio
del rapporto tra lavoratori attivi e pensionati. Successivamente altri numerosi
provvedimenti aggiungeranno modifiche, lasciando però invariato l'impianto
generale. Le
pensioni che vengono corrisposte sono rapportate alla retribuzione media mensile
degli ultimi anni lavorativi (ecco perché si chiama metodo retributivo). Il
sistema retributivo ha avuto il grande significato politico di tenere strettamente
legate le diverse generazioni di lavoratori in un rapporto solidaristico,
rendendo così estremamente difficile colpire le pensioni senza sollevare
la protesta e la lotta insieme dei lavoratori e dei pensionati. I
contributi pagati nel corso della vita lavorativa vengono accantonati e investiti.
Il lavoratore, a differenza del precedente sistema, non perde la titolarità
dei contributi versati che verranno impiegati per l'assegnazione della pensione
futura. In questo modo ogni lavoratore accantona dei soldi che serviranno
a pagare esclusivamente la sua pensione. Mentre
con il sistema retributivo a ripartizione in vigore anche i pensionati sono
interessati a unirsi con la lotta dei lavoratori in difesa dei livelli occupazionali,
perché in questo modo salvaguardano anche le proprie pensioni (d'altra
parte i lavoratori hanno interesse ad unirsi alle lotte dei pensionati in
difesa delle pensioni in quanto saranno quelle che percepiranno essi stessi),
con il sistema contributivo sia i pensionati che i lavoratori dovranno pensare
singolarmente alla tutela delle proprie condizioni. È
la fine della pensione come diritto e l'inizio della pensione come merce,
ma soprattutto è la fine dei contratti collettivi di lavoro e della
difesa collettiva degli interessi di classe dei lavoratori. L'argomento
che viene maggiormente utilizzato per giustificare il ricorso alla pensione
contributiva è quello secondo cui nel 2025 i sessantenni costituiranno
la parte maggioritaria della popolazione italiana, per cui ci sarà
meno di un lavoratore attivo per ogni pensionato, pertanto non ci saranno
materialmente i soldi per pagare le pensioni di tutti. Il
vero problema in realtà sta nel fatto che la disoccupazione in Italia
è in continuo aumento a causa delle scelte padronali tese al sostegno
dei profitti e che portano alla riduzione dei livelli occupazionali per ridurre
il costo del lavoro. Ma
entrando nel merito del sistema contributivo va detto che non si tratta di
una novità assoluta, in quanto, grazie alla riforma Dini del 1995,
i lavoratori che in quell'anno avevano versato meno di 18 anni di contributi,
avranno la loro pensione calcolata con il sistema contributivo. Chi
poteva e aveva interesse ad oppporsi a questo processo erano i giovani, ma
non l'hanno fatto perché isolati dalla maggioranza dei lavoratori e
perché la grande maggioranza di essi, oltre che essere desindacalizzati,
si trovavano (come oggi) ad essere assunti con contratti che i sindacati amano
chiamare "atipici", e che li mettevano in condizione di essere facilmente
ricattati sul posto di lavoro. Ma
al di là di tutte queste considerazioni resta il fatto che il sistema
contributivo porterà ad avere pensioni più basse di quelle che
si ottengono oggi. Il
capitale che si forma viene rivalutato sulla base del tasso di variazione
del PIL, rilevato dall'ISTAT, e sarà moltiplicato per un coefficiente
che va dal 4,72% (se il lavoratore vuole andarsene all'età di 57 anni)
al 6,136% (se invece lavorerà fino a 65 anni), ma nonostante ciò
i risultati finali sono comunque al ribasso. Nella
tabella sotto riportata sono indicati gli importi di riduzione mensile della
pensione che si verificherebbero con il passaggio al sistema contributivo
a partire dal 2000.
Entro quel momento i padroni dovranno imparare a procedere con le proprie
gambe e prendere direttamente nelle proprie mani lo scontro con i propri concorrenti
da una parte, e con i propri lavoratori dall'altra.
In vista di questo nuovo quadro generale che si sta delineando, l'attacco
al sistema pensionistico sta assumendo una portata senza precedenti; questo
a riconferma che la necessità che il padronato ha in questo momento
di acquisire competitività sta diventando urgente.
Parlare di pensioni infatti significa parlare di salario (anche se di salario
che viene dato al lavoratore in un secondo momento), e il metodo più
semplice che il padrone da sempre conosce per ridurre il costo del lavoro
è per l'appunto quello di ridimensionare il salario complessivo che
è costretto a sborsare ai lavoratori.
Non passa giorno che il quotidiano della Confindustria "Il Sole 24 ore"
non affronti il problema di una "riforma radicale e strutturale della
previdenza", e rispetto a questo problema porta avanti una vera e propria
campagna, costringendo i principali leaders della politica e del sindacato
a prendere posizione nel merito che provocano divisioni e punti di incontro.
Ciò che essi vogliono è una drastica riduzione se non addirittura
l'azzeramento di quel 33% sul costo del lavoro che deve essere versato nelle
casse dell'INPS e viene così sottratto ai profitti, o comunque al capitale
da reinvestire, necessario per stare al passo con lo sviluppo delle tecnologie
e restare quindi sul mercato.
Ridurre il peso delle pensioni, inoltre, significa per i padroni avere uno
Stato che per questa voce spenda meno, e crei così gli spazi per un
abbattimento del carico fiscale sulle imprese.
Il massimo per i padroni sarebbe che l'intero sistema previdenziale venisse
privatizzato e che lo Stato si andasse ad occupare esclusivamente delle pensioni
di sussistenza dei soggetti disperati prodotti da questa società.
Da qui tutta la canea a cui stiamo assistendo per costringere i lavoratori
a utilizzare in questa direzione i propri TFR, anche grazie alla grande e
decisiva disponibilità delle principali organizzazioni sindacali, che
sperano in questo modo di entrare nel mercato della previdenza integrativa.
Il principio al quale si ispira questo sistema può essere così
descritto: i contributi pagati dal singolo lavoratore non vengono accumulati
per costituire una futura rendita, ma sono immediatamente utilizzati, o meglio,
"ripartiti" tra le pensioni in essere.
In pratica chi oggi è un lavoratore attivo paga la rendita ai pensionati
e si attende che i futuri lavoratori attivi facciano altrettanto quando sarà
a riposo.
A riprova di questo fatto vi è la caduta del governo Berlusconi che
si è verificata proprio nel momento in cui si è voluto andare
giù pesanti verso la fine del modello pensionistico a ripartizione
ignorando un qualsiasi percorso di intesa con i sindacati.
Intento di Berlusconi era quello di introdurre il sistema contributivo (o
a capitalizzazione); cosa che poi il governo Dini ha fatto, ma con meccanismi
di gradualità e con il consenso dei sindacati.
In questo modo è stato possibile rompere quel rapporto solidale tra
le generazioni e aprire varchi ad altre e ulteriori misure che è facile
prevedere peggioreranno il sistema previdenziale pubblico.
Il principio a cui si ispira questo sistema che piace tanto ai padroni trova
già oggi applicazione nel campo delle polizze a vita e dei fondi pensione.
Se la situazione avrà questa evoluzione, il lavoratore attivo si troverà
ad avere l'unica preoccupazione di curare il proprio fondo pensione personale
cercando di alimentarlo nel modo migliore, non facendo scioperi, facendo straordinari
e fregandosene delle condizioni complessive dei suoi compagni (occupati e
disoccupati).
Dall'altra parte vi sono le scelte del governo che per incentivare nuove assunzioni
consentono ai padroni di non pagare i contributi per le pensioni, provocando
un impoverimento costante delle casse dell'INPS.
Nell'arco di una ventina d'anni quindi, quando i lavoratori più anziani
se ne saranno andati, tutti "godranno" del sistema contributivo.
Questo provvedimento legislativo è passato grazie al fatto che non
si è andati a colpire i pensionati e i lavoratori che potevano lottare.
Questi infatti sono stati colpiti prima con i provvedimenti del governo Amato
nel 1992 che stabiliva l'aumento dell'età pensionabile di 5 anni, e,
in più che la pensione non sarebbe più stata calcolata sulla
media delle retribuzioni degli ultimi 5 anni lavorativi, ma degli ultimi 10
anni con l'intento di portare gradualmente il calcolo alla media di tutta
la vita lavorativa; alcune stime hanno calcolato che, così, l'ammontare
della pensione in futuro non sarà superiore al 50% dell'ultimo stipendio.
Grazie ancora a questi semplici provvedimenti e alle finanziarie che si sono
succedute negli ultimi 7 anni è stato possibile produrre un risparmio
per l'INPS di 144.000 mld: in pratica soldi che non sono finiti nelle tasche
dei pensionati. Il tutto con il pieno accordo delle maggiori organizzazioni
sindacali.
I calcoli, relativi a una ipotetica pensione di anzianità liquidata
all'età di 57 anni con 35 anni di contribuzione, sono stati elaborati
considerando tre diverse anzianità alla data del 31 dicembre '99, e
tre diverse basi pensionabili.