Linea dura sì, linea dura no.
Rompiamo la logica della concertazione. Scontro nel sindacato sulla piattaforma per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. REDS. Novembre 2000.


Alla fine del 2000 scade il contratto dei metalmeccanici per la sua parte economica: FIM, FIOM e UILM si apprestano a stabilire quindi con la controparte quali dovranno essere i livelli salariali della categoria per il prossimo biennio. Ogni quatto anni invece si rinnova il contratto comprendendo anche tutta la parte normativa (orario, diritti, ecc.). Il rinnovo della parte economica è regolato da un accordo del 1993 che ha stabilito che gli aumenti contrattuali devono essere strettamente legati all'inflazione: ciò significa che se ad esempio si prevede per i prossimi due anni una crescita dei prezzi al consumo pari al 4%, anche i salari base dovranno aumentare del 4%.
In fase di rinnovo si dovrà anche recuperare l'eventuale parte di salario che nel biennio appena trascorso non è stata data in presenza di un'inflazione che ha splafonato rispetto quanto previsto in partenza.
Questo per dire che il contratto nazionale, per quanto riguarda la sua parte economica, non è più nei fatti uno strumento che serve a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, ma tutto al più a porre un argine al peggioramento, in quanto si limita a recuperare quello che si prevede i lavoratori perderanno, o addirittura hanno già perso.
Questo negli anni 60, 70 e 80 non avveniva poiché i salari erano adeguati in modo automatico al costo della vita tramite la contingenza: meccanismo abolito con un accordo Padroni-Governo-Sindacati alla fine degli anni 80. Allora il contratto nazionale di lavoro serviva per migliorare le condizioni economiche dei lavoratori.
Oggi invece il miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori (al di là dell'inflazione) è affidato alla contrattazione di secondo livello, cioè ai contratti che vengono fatti nelle singole aziende, e gli aumenti salariali che vengono corrisposti in questo ambito sono strettamente legati ai risultati delle aziende stesse.
Per dare questo tipo di aumento di salario, legato al miglioramento della produttività, il già citato accordo del '93 prevede che nelle singole situazioni si debbano istituire i cosiddetti premi di risultato.
Nella pratica accade che i lavoratori per aspirare ad un aumento di salario al di là del tasso di inflazione devono accettare che ciò avvenga azienda per azienda e che i propri padroni abbiano via libera ad un aumento dello sfruttamento.
Con questo ingegnoso meccanismo, che i burocrati sindacali chiamano "doppio livello di contrattazione" ciò che concretamente si è prodotto è una progressiva riduzione del valore dei salari nel tempo.
Le ragioni sono sostanzialmente due: il fatto di dover adeguare i salari ad un'inflazione in continua diminuzione con lo strumento della contrattazione (e non con un calcolo oggettivo) ha prodotto che gli accordi stipulati siano sempre stati al ribasso rispetto quanto si doveva realmente recuperare; il secondo motivo è dovuto al fatto che la contrattazione di secondo livello ha coinvolto solo un stretta minoranza di aziende (tra il 20% e il 30%), cioè quelle in cui i lavoratori sono riusciti a mantenere in proprio favore i rapporti di forza costruiti nelle lotte degli anni precedenti.
Nella maggioranza delle aziende, passate attraverso pesanti processi di ristrutturazione per far fronte alle crisi economiche che si sono succedute, e ridotte negli organici con relativa fuoruscita dei quadri sindacali più coscienti, i rapporti di forza si sono spostati in favore dei padroni, chiudendo ogni forma di contrattazione collettiva.
In buona sostanza ciò che si è prodotto è una mancata redistribuzione della maggiore ricchezza prodotta anche in considerazione della tendenza ormai consolidata all'inasprimento fiscale per i lavoratori dipendenti e della progressiva detassazione di quanto è a carico delle imprese, sotto forma di sgravi contributivi e fiscali.
L'aumento continuo del prezzo della benzina, (ma anche della luce, del gas, dell'acqua e di tutti i generi di prima necessità) ha falcidiato pesantemente il potere d'acquisto dei salari rendendo la situazione complessiva ancora più precaria, mentre dall'altra parte i padroni hanno visto i loro profitti crescere negli ultimi 4 anni del 46%.
La percezione di tutti i lavoratori (e probabilmente hanno ragione) è che l'inflazione è sicuramente più alta di quel modesto 2.5% (comunque alto rispetto gli altri paesi europei) che viene candidamente propagandato in questo periodo pre-elettorale dai mass media, e che questo dato sia sostanzialmente "taroccato".
In questo quadro caratterizzato da un accordo del '93 che detta le leggi sul rinnovo del contratto, da una contrattazione di secondo livello che ha interessato marginalmente l'insieme dei lavoratori della categoria, e da prezzi trascinati in alto dall'aumento del petrolio, si sta articolando il dibattito in FIM ­ FIOM ­ UILM.
FIM e UILM si differenziano di poco nell'entità della richiesta da fare al padronato e si limitano a calcolare l'aumento esclusivamente sulla base dell'inflazione programmata e da recuperare: un aumento del 4,1% ­ 4,2% dei minimi salariali.
Prendendo a riferimento il salario tipo si è stabilito che il punto percentuale corrisponde a 29.000 lire e l'aumento che ne deriverebbe si aggira sulle 120.000 lorde per i prossimi due anni.
Il tutto sembrerebbe ineccepibile se non fosse che la FIOM per voce del suo segretario Sabattini ha lanciato una richiesta del 5,5%, pari a 160.000.
La motivazione di questa richiesta parte dal fatto che la FIOM intende in questo modo redistribuire una parte della produttività che non è entrata negli aumenti salariali della contrattazione di secondo livello.
Va detto inoltre che la FIOM di Brescia, sempre con la stessa logica aveva proposto un aumento dell'8% pari a 232.000 lire, per cui appare evidente l'intenzione di Sabattini di stoppare queste "spinte in avanti" di una componente particolarmente turbolenta e di non allontanarsi troppo dalle proposte degli altri sindacati.
Nonostante i retromarcia del segretario che ha precisato che la sua proposta è personale e che il tutto dovrà essere rimandato all'assemblea nazionale dei delegati (rimandata di un mese, grazie all'alluvione e prevista per il 17-20 novembre a Riccione), la FIOM resta comunque nell'occhio del ciclone, per lo scandalo suscitato dalla richiesta di un risarcimento per l'aumento dello sfruttamento esercitato dai padroni sugli operai.
È evidente che se le cose prendessero questa piega salterebbe tutto l'impianto concertativo dell'accordo del '93 secondo cui i contratti nazionali servono solo a recuperare l'inflazione, mentre il resto dovrebbe essere recuperato in fabbrica, dove è possibile.
Le proteste della Federmeccanica sono state immediate come pure quelle della FIM e della UILM, che intendono difendere la logica del '93, dichiarandosi comunque disponibili alla contrattazione del salario legato alla produttività esclusivamente a livello territoriale. Ripropongono in sostanza le gabbie salariali e non escludono al limite anche la presentazione di piattaforme separate.
C'è da dire che è difficilmente spiegabile questa posizione della FIOM, sempre schierata, nella sua linea di maggioranza, in difesa della concertazione e dell'accordo del 93.
È certo che sulla questione della piattaforma dei metalmeccanici si stiano scontrando le varie correnti interne alla CGIL in vista dell'imminente congresso nazionale, con la sinistra guidata da Cremaschi e dai bresciani. Una sinistra che si è compattata attorno a un documento comune, misurato e orientato a togliere consensi alla componente di Cofferati. Per cui non dobbiamo aspettarci che chi ha proposto questa "linea dura" intenda andare fino in fondo. È molto più probabile invece che una volta ottenuto il rimescolamento delle burocrazie interne alla CGIL tutto ritornerà tranquillo.
Negli attivi dei delegati nelle diverse zone sta accadendo però che dal basso si chieda coerenza, e la difficoltà che stanno incontrando i funzionari sindacali (sia di destra che di sinistra) sono serie, tant'è che ripetono in continuazione che non si deve rompere con la FIM e la UILM. Impediscono nei fatti la presentazione di ordini del giorno e chiedono che dagli attivi stessi vengano le delegazioni all'assemblea generale della FIOM che dovrà varare la proposta finale con cui andare al confronto con le altre confederazioni.
Ormai però il sasso è stato lanciato e tra i lavoratori vi è la percezione netta che il sindacato è diviso tra chi vuole che i lavoratori vadano a recuperare una elemosina e chi invece vuole dare più soldi e propone una linea più intransigente.
La FIOM dovrebbe raccogliere questi segnali e iniziare un percorso che dovrebbe portare a liberare la contrattazione dalla subordinazione esclusiva al recupero dell'inflazione.
Redistribuire sul salario l'incremento della ricchezza prodotta ottenuto grazie all'inasprirsi dello sfruttamento è l'unico mezzo per frenare la tendenza alla riduzione relativa dei salari affermatasi con la cancellazione della scala mobile prima e con la linea concertativa poi; e tentare un ritorno del protagonismo operaio sulla base di obiettivi concreti e facilmente comprensibili da tutti.
Infatti al di là di coloro che banalmente teorizzano la fine del lavoro materiale, crediamo necessario rendere le piattaforme rivendicative mobilitanti, capaci di aggregare intorno ai soggetti tradizionali del movimento operaio i nuovi soggetti dello sfruttamento capitalistico, i cosiddetti lavoratori atipici, per contrastare con efficacia le politiche di stampo liberista tese alla compressione dei salari ed alla riduzione dei diritti in nome di una presunta e pretestuosa competitività delle merci.
Il salario è una leva formidabile, non l'unica evidentemente, ma indubbiamente la principale, capace di ricostruire le condizioni, all'interno dei luoghi di lavoro, per un'azione sindacale efficace e unitaria.