Le tante facce dell'Argentina.
Una
attenta analisi della situazione argentina dopo il voto, ricca di informazioni
ma anche di riflessioni utili per la stessa sinistra italiana.
Di Claudio Katz, Direttore della rivista marxista "Cuadernos
del Sur", nonché membro del collettivo Economistas de Izquierda (EDI).
Traduzione di Titti Pierini. Tratto da
Bandiera Rossa News.
Il contrasto tra la ribellione sociale e il voto conservatore costituisce il dato più significativo della recente tornata elettorale. Nel paese dei piqueteros e delle cacerolas, i partiti tradizionali hanno catturato ancora una volta il grosso dei voti e, per il momento, sono riusciti a neutralizzare la principale rivendicazione della sollevazione popolare ("Que se vayan todos!").
La frattura fra assemblee e proteste, da un lato, e dall'altro gli esiti elettorali, ha suscitato opposte reazioni: alcuni analisti danno per chiusa la rivolta, altri invece ritengono che riprenderà dopo la parentesi elettorale. Entrambe le imposta-zioni sembrano dimenticare che la contraddizioni tra l'intensa lotta sociale e la scarsa mobilità politica non è nuova in Argentina. La storia dei movimenti popolari è contrassegnata da questo conflitto, che torna ad emergere in condizioni mutate.
Come predomina la classe dominante
Molte analisi elettorali si limitano a una presunta spiegazione del messaggio cifrato inviato dalla società, trascurando i tre fondamentali elementi di condizionamento che hanno ruotato attorno alle lezioni. Il primo è connaturato all'attuale regime e si basa sul potere economico dei capitalisti, che controllano i pilastri del sistema politico, fondati sugli apparati dei partiti e sui mezzi di comunicazione di massa. Questi meccanismi operano, in modo grezzo, tramite i cacicchi regio-nali - che comprano voti e maneggiano sussidi - e, più elegantemente, tramite il marketing politico, che vende immagini, ricrea nostalgie e resuscita miti.
Il secondo elemento di condizionamento proviene dai creditori del Fmi, che obbligano a votare in un contesto di catastrofe sociale e di massiccia pauperizzazione, riducendo la libertà di scelta in modo drammatico. La concorrenza tra i papabili alla presidenza dirime, in un quadro come questo, chi sarà l'artefice del prossimo adeguamento. Le decisioni principali non si assumono nelle urne, ma a Washington e al ministero dell'Economia, prima o dopo le elezioni.
Il terzo limite è specifico di queste elezioni, che sono state organizzate in violazione di qualsiasi precetto costituzionale. Il governo ha disposto d´arbitrio la data, ha impedito che si rinnovassero tutti gli incarichi e ha montato uno calendario delle presentazioni, delle scadenze dei mandati e delle operazioni legislative adeguato alle convenienze di ogni governa-tore del Partito giustizialista. Per questo fino all´ultimo momento incombeva la minaccia del ripetersi della frode regi-strata nelle elezioni preliminari di Catamarca e nella selezione interna dei candidati del Partito radicale.
Analizzare quanto è avvenuto il 27 aprile senza considerare questi elementi porta a descrivere arbitrariamente il risulta-to secondo i pregiudizi in voga. Sia chi si rallegra perché la società avrebbe ritrovato il buon senso, sia chi si lamenta per la vocazione masochista dei cittadini, dimentica che ancora una volta l´esercizio effettivo della sovranità popolare è stato distorto dai meccanismi di predominio della classe capitalistica.
La ricostruzione dello Stato
Questi meccanismi di controllo - seriamente minacciati dalla rivolta del 19 e 20 dicembre - sono tornati a funzionare appieno il 27 aprile. Il risultato elettorale si spiega con questa ricostituzione, cominciata con l'anticipazione delle ele-zioni, dopo il massacro di Avellaneda. Duhalde ha allentato la tensione sociale con progetti di sussidi per i disoccupati, ha disinnescato il "corralito" espropriando i diseredati (e compensando i ceti medi più alti) e ha messo in atto una re-pressione selettiva per indebolire l'avanguardia della protesta.
Il giustizialismo ha grande esperienza in questo lavoro di riparazione dello Stato (ritorno di Perón nel 1972, uscita dall'iperinflazione del 1989, rimpiazzo di De la Rúa nel 2001) e per questo la classe dominante gli ha delegato il gover-no. Il Partito justicialista (Pj) ha perso prestigio come guida, coesione e radicamento popolare, ma conserva grazie alla trama dei locali caudillos un apparato di gestione statuale fin qui insostituibile. Duhalde ha ricevuto gli elogi unanimi dei capitalisti, perché è riuscito a mitigare la rimessa in discussione da parte della popolazione dei presidenti fraudolen-ti, dei giudici illegittimi e di quelli corrotti.
La parziale ricomposizione dell'autorità dello Stato è stata possibile per l'egemonia che conservano, da un lato il giustizialismo sui lavoratori e i disoccupati e, dall'altro, i residui del radicalismo sul ceto medio. Permane un legame politico del popolo con gli stessi funzionari ripudiati nelle mobilitazioni. E un paradosso come questo è una contraddizione che ha radici politiche e non può spiegarsi in termini di schizofrenia psicologica.
La maggioranza della popolazione mobilitata non si è sbarazzata dell'orizzonte capitalista incarnato dal Pj e dalle va-rianti dell'Ucr, e non concepisce la rottura con il regime sociale che l'opprime. Per questo, quando puniscono elettoralmente i responsabili di una sconfitta, inclinano a favore di coloro che hanno determinato il tracollo precedente; un'alternanza, questa, che si è incrinata varie volte, ma senza mai rompersi definitivamente.
I capitalisti dominano ovunque mediante false polarizzazioni, ma la peculiarità argentina è la persistenza di tale mecca-nismo dopo tanti sconvolgimenti sociali e disinganni politici. La differenziazione fittizia continua a funzionare, con il reiterato scenario di insulti tra candidati prima delle elezioni, abbracci dopo il risultato e patti di impunità nel corso del-la gestione di ciascuno.
Certamente, questa volta il bipartitismo, sia pure entro certi limiti, si è spezzato. Per la prima volta il peronismo dirime direttamente la propria scelta interna in un'elezione presidenziale e il marchio della Ucr è precipitato. Comunque, i cin-que candidati che si sono disputati l'elezione rappresentano una diversa modalità di vecchie e fittizie polarizzazioni: le stesse basi sociali di ciascuna frazione non hanno mutato sostanzialmente il quadro tradizionale dell'Ucr e del Pj (i ceti medi più elevati con Lopez Murphy e Menem, il ceto medio basso e i lavoratori urbani con Carrió e Kirchner, e le frange più povere dell'interno con Menem e Rodríguez Saa).
La terza fase della ribellione
Ma allora, non è successo niente dopo l'Argentinazo? La straordinaria insurrezione popolare si è dissolta senza lasciare tracce? In realtà, le trasformazioni indotte dalla sollevazione conoscono un processo di elaborazione, ma a un ritmo slegato dal-lo scadenzario elettorale. Neanche questo scarto è una novità, ma è anzi stato il quadro ricorrente di molte sollevazioni, seguite da un clima di restaurazione dell'ordine, che sembra diluire la precedente effervescenza. Mentre nella coscienza popolare sta avvenendo l'assimilazione degli effetti politici della rivolta, perdurano fasi di instabilità di governo che na-scondono il protrarsi più sotterraneo della protesta. Ora si sta risolvendo la terza fase della protesta avviata nel dicembre 2001.
La prima fase di lotta è stata contrassegnata dal crollo dello stato d'assedio e l'irrompere delle assemblee popolari, dai cacerolazos e dalle marce dei giovani. La seconda è stata segnata dalla reazione popolare agli assassinii di Kostecki e Santillán ed è approdata al record di 17.000 manifestazioni in un anno e 47 proteste di piazza al giorno, che hanno im-posto il diritto dei piqueteros ai blocchi stradali.
La terza fase della rivolta si sviluppa dall'inizio di quest'anno ed è caratterizzata dalla controffensiva repressiva del go-verno, che pretende di decapitare il movimento piquetero, spaventare gli assemblearisti e sgomberare le fabbriche occupate. Ma l´aggressione si scontra con una dura resistenza popolare e per il momento non se ne vede la soluzione. La cosa notevole è il modo in cui la classe dominante sia riuscita a impedire che questo impatto sociale trovasse una qualche espressione elettorale, e i portavoce della reazione si rallegrano del risultato.
Il disorientamento della destra
La destra, obnubilata dall'odio di classe, ignora completamente le ripercussioni della sollevazione. Si tranquillizza di-chiarandosi soddisfatta per il buon senso della società, che ha imparato ad autopreservarsi (La Nacion). Con queste frasi di sollievo, pretende di dimenticare lo spavento dell'anno scorso. I Grondona, Botana e Escribano, comunque, si affret-tano a cantare vittoria. Non è la prima volta che danno per sepolta una rivolta in pieno sviluppo, visto che non hanno la minima capacità di cogliere la natura del processo in atto. Conoscendo lo scontro sociale solo per televisione, non pos-sono di certo immaginare quale possa essere l'evoluzione del sentimento popolare.
Anche certi analisti parlano di svolta a destra, senza accorgersi che il voto sfiduciato del 27 aprile non ha introdotto nel-la geografia elettorale cambiamenti significativi. Lopez Murphy è tornato a catturare la frangia di destra che appoggiava tradizionalmente gli Alsogaray e i Cavallo, ma incanala un livello di combattività reazionaria più circoscritto. Anziché fare appello ai militari, le figure della destra soppesano la democrazia e anziché disprezzare le "faccette nere" promet-tono di ridurre la povertà. Non radunano la piazza del sì perché applauda alle privatizzazioni e ricorrono persino a pittoreschi intellettuali del vecchio progressismo per colorare i propri messaggi.
Ma nessuna di queste risorse riesce a colmare il vuoto sociale della destra e la sua congenita incapacità di governare senza la guida di militari, giustizialisti o radicali che siano. Questa impotenza è ulteriormente aggravata per due motivi: la difficoltà che ha la classe dominante di ripetere le vecchie sortite golpiste (dopo la disastrosa eredità lasciata dall'ultimo genocidio dittatoriale) e il dissolversi della forte contrapposizione che tradizionalmente esisteva tra ceti me-di e lavoratori. A differenza del Venezuela, la destra non ha l'appoggio sociale per guidare una crociata filoimperialista. Per questo l'élite capitalista - che pensa alla governabilità - preferisce Menem a Lopez Murphy.
Il congelamento del quadro elettorale
Lo smarrimento trasmesso dalla destra dopo le elezioni è una sensazione congiunturale, dal momento che la ricomposi-zione del regime politico è molto parziale. La classe dominante non è riuscita a recuperare la propria coesione intorno a un partito, a un leader, a un programma, come succedeva negli anni Ottanta o Novanta (...).
La speranza di riequilibrare il funzionamento dell'attuale regime tramite lo smembramento del mosaico politico in cin-que o sei frazioni è illusoria, perché per effettuare il prossimo riadeguamento la classe dominante ha bisogno di rico-struire un potere forte e non un reticolo di conglomerati parlamentari. La frammentazione, d'altronde, non rende trasparente la vicenda politica, giacché le decisioni rilevanti continuano ad essere assunte in trattative segrete tra l'esecutivo e i vertici dei partiti che hanno accesso al potere reale.
La principale debolezza del nuovo governo, tuttavia, risiede nel suo scarso sostegno popolare. Certamente la partecipa-zione al voto è stata molto elevata nella prima tornata (...) ma tutte le indagini sono concordi nel rilevare che l'indifferenza per il sistema e il rigetto dei suoi esponenti restano invariati. Nessuno dei politici del regime è riuscito a resuscitare l'entusiasmo che avevano risvegliato agli inizi Alfonsin o Menem, o la cauta accoglienza all'avvento di De la Rúa. Per questo il voto è stato particolarmente volatile e i votanti si sono orientati più in base al ricordo di tempi in qualche modo migliori che non a speranze nel futuro.
La ricomparsa di Menem ha suscitato interpretazioni assai diverse. Alcuni attribuiscono il suo riemergere alla nostalgia dei ceti medi per la convertibilità, altri alla richiesta popolare della figura di un protettore e molti al gusto argentino per la trasgressione. I critici, in cambio, attribuiscono il riemergere del carrozzone di Menem al "nano fascista che ci por-tiamo sempre dentro".
Interpretazioni del genere, però, aggiungono alla presunta libertà elettorale dei cittadini un certo qual tratto di stupidità, arroganza o masochismo legato alla nostra idiosincrasia. In tal modo, trascurano il fatto che il riemergere di Menem è solo un aspetto complementare della restaurazione del regime incarnata dal suo avversario Duhalde. Da quando è stata arginata la rivendicazione della cacciata generale, è anche rimasto in piedi lo scenario per il ritorno dei predecessori.
Ma il ritorno di Menem è molto complicato (sia nel ballottaggio sia di fronte all´eventuale fallimento di Kirchner), per-ché il suo credito è eroso, anche agli occhi dei suoi stessi seguaci. In questo campo, la confusione è così grande che, ad esempio, molti di quelli che sono stati sottoposti a sondaggio risulta lo abbiano votato perché ponesse fine alla corru-zione. L'inconsistenza di queste adesioni si estende anche a Rodríguez Saa, che ha catturato un voto nostalgico del vec-chio peronismo, che l'attuale generazione ignora completamente. Che questo passato residuale riaffiori a ogni elezione è un dato aneddotico o un tratto del folklore patriottico, che periodicamente ha il bisogno di esibire chi consegna ad altri il paese.
Le invenzioni del centrosinistra
Il centrosinistra è stato il principale strumento di supporto dell'operazione di ricostruzione dello Stato. Ha costruito uno spazio progressista insieme a Duhalde, Lavagna, Carrió e la direzione della Cta, che si traduce nel voto comune per Kirchner al ballottaggio.
Per l'ennesima volta, i rinnovatori del peronismo e i trasformisti del radicalismo ricorrono all'argomento del male minore per puntellare il regime che depaupera la popolazione. Hanno esagerato l'incubo Menem per rafforzare il ricatto del voto utile, ripetendo l'appello a sostenere chi rovina visibilmente il paese contro il pericolo di una rovina maggiore. Lo stesso tipo di argomento ha portato al voto per Alfonsin contro Luder nel 1983, per Menem contro Angeloz nel 1989 e per De la Rúa contro Duhalde nel 1999 (...) ecc.
Ora si ripete lo stesso comportamento avallando Duhalde-Kirchner contro Menem. Con ciò, dimenticano semplicemente che la divisione è un altro dei tanti riallineamenti all´interno del giustizialismo. Così come Duhalde fu vicepresidente di Menem (quindi corresponsabile del retaggio degli anni Novanta), il menemista Scioli sarà il vicepresidente di Kirchner, con poi tutta la serie degli ex ministri e governatori che cambiano banda a seconda delle occasioni.
La maschera di rinnovamento che accompagna l'ascesa di Kirchner è francamente grottesca, perché tutte le "facce nuo-ve" che lo appoggiano fanno parte della rete mafiosa di caudillos giustizialisti che lo hanno portato al ballottaggio.
False alternative e modelli
L'area progressista sostiene Kirchner con due argomenti: evitare la scalata di aperta repressione propugnata da Menem, e sostenere il modello economico produttivistico contro il neoliberismo.
Innanzitutto, l'appello a sconfiggere il Le Pen argentino si basa nel tenere conto di quel che dice Menem e nel nascondere quel che fa Duhalde. Mettendo in guardia dall'intervento dell´esercito proposto dal primo, si nasconde la campa-gna di stangate che propone il presidente con l'avallo del candidato. Duhalde è stato l'ideatore del massacro di Avellaneda e della repressione alla Brukman. Non saranno per caso l'azione dei commissari fascisti e dei giudici della dittatura contro gli operai della fabbrica autogestita l'anticipazione del "male minore" propugnato dagli antimenemisti?
Vale la pena di ricordare che, quando certi progressisti arrivano al ministero, chiamano terrorizzati le forze repressive di fronte alla prima sollevazione popolare. (...) Giustificare quindi il voto per Kirchner sostenendo che "non si può esitare tra la vita e la morte" (D'Elia) implica una falsa alternativa, giacché la morte non è estranea a nessuna delle due schede elettorali. Che Menem o Kirchen operino come repressori dipende dall'andamento dello scontro di classe.
Il secondo vessillo del progressismo si fonda sulla ancor più fittizia natura dei modelli economici che si scontrerebbero. Questa contrapposizione è stata accuratamente predisposta da un anno di lodi dedicate al responsabile del record di povertà, disoccupazione e indigenza. Lavagna non ha applicato alcun programma keynesiano di ripresa, eppure gode di uno stato di grazia costruito dall´abilità politica e dalla complicità dei suoi cultori. Poiché attribuisce le disgrazie del pa-ese all'eredità ricevuta, si considera estraneo all'ecatombe causato dal modello che ha sostenuto e dalla svalutazione che ha consentito. L'artefice del modello produttivista ha permesso concretamente il recupero dei banchieri a spese del pub-blico erario ed applica da quasi un anno una politica nazionale basata sulla remunerazione con pagamenti plurimiliardari dei creditori del Fmi.
L'immagine industrialista diffusa da Lavagna ha la pretesa di ingrandire i limitati disaccordi che ha con l'avversario Melconian. Le reali divergenze fra entrambi gli esponenti del neoliberismo sono molto più lievi di quelle che ci sono in seno alle due squadre economiche. Come Lavagna, Melconian elogia di fronte ai giornalisti il capitalismo progressista ma non promuove minimamente il ritorno alla parità col dollaro. Né è sicuramente chiaro se dissente dal rivale sull'Alca e il Mercosur.
La crisi economica è ormai arrivata a un punto di svolta giacché alla depressione tende a seguire un recupero, come di solito accade dopo gravi collassi. Nel nuovo quadro, i due potenziali artefici della prossima ristrutturazione sostengono la stessa strategia esportatrice di bassi salari e di rafforzamento della miseria concepita dal grosso della classe capitali-stica. Per questo l'establishment non sbaglia e lavora con i due referenti, senza ostentare decise preferenze. Una ripresa basata sulla ricomposizione dei redditi popolari è un programma estraneo a Melconian non meno che a Lavagna. I due papabili sono impegnatissimi a predisporre un menu di soprusi sociali che promuoveranno per negoziare con i creditori la soluzione del debito.
Il centrosinistra dell'Ari che appoggia Lavagna si consola osservando il risultato passabile della sua elezione e si illude che sostenendo tatticamente Kirchner si guadagni tempo, si accumulino forze e si possano intessere le alleanze necessa-rie per un programma progressista. Mentre tuttavia proclama questo obiettivo, ripete ostinatamente il percorso frustrante che ha preceduto il governo dell'Alleanza. Da quell´esperienza Carrió ha ricavato che conviene anticipare lo slittamento a destra ed è per questo che ha scelto come socio un uomo (Gutierrez) che parla spudoratamente contro i piqueteros e le mobilitazioni popolari.
I portavoce dell´Ari vagheggiano di essere protagonisti della costruzione del futuro PT argentino, ma hanno in testa più il nuovo Lula presidente che accoglie le richieste del Fmi che non il vecchio Lula organizzatore dei lavoratori. Intraprendendo la strada di appoggiare la normalizzazione del paese scelgono di facilitare l'ascesa di un governo reazionario e a preparare la presa di distanza quando si concretizzasse il prevedibile tradimento del nuovo presidente. Torna a ripe-tersi ancora una volta il film già visto dell´Jp con Perón, dell´Jr con Alfonsin, del Chacho con Menem e di Carrió con l´Alleanza. Ma andare sempre a sbattere contro lo stesso muro è ormai un destino insuperabile del progressismo argen-tino.
Il profilo della sinistra
Nel quadro delle difficoltà che ci sono per tradurre la ribellione sociale in un progetto politico popolare, il dato più promettente è la crescita della sinistra. Questo settore ha conquistato un ruolo di primo piano nel movimento sociale, per il suo coraggioso atteggiamento nei confronti della lotta. A differenza del centrosinistra che sparisce, ritarda o si nasconde nei momenti difficili dello scontro, la sinistra è presente nei blocchi stradali, nelle fabbriche occupate e nelle manifestazioni di piazza. Quando c'è da rischiare fisicamente, i dirigenti e i militanti della sinistra non vacillano.
Il contrasto tra questo comportamento e il disimpegno dei dirigenti della Cta si è approfondito dopo il 19 e 20 dicembre. La Brukman è soltanto l'esempio più recente di questa differenziazione. La cautela della direzione della Cta di fronte alla lotta è coerente con la decisione del voto a Kirchner. Pronunciandosi così, la Centrale rientra nel tronco peronista e converge con i burocrati delle CGTs nel sostegno all'eletto di Duhalde.
In aperto contrasto con questo, tutta la sinistra proclama di votare scheda bianca al ballottaggio. Le convergenze in questo ambito sono molto maggiori che in passato, quando varie ali della sinistra promuovevano fronti nazionali e popolari con i Kirchner del momento. Queste tendenze, ora, sono minoritarie. Il discorso abituale della sinistra, inoltre, contesta l'intero sistema capitalista e non solo le sue modalità neoliberiste. Questa posizione radicalizzata è poco frequente in America Latina e costituisce un ulteriore merito delle organizzazioni argentine.
La crescita della sinistra è evidente nel movimento piquetero, sindacale, studentesco e di quartiere e la sua presenza è palpabile in tutte le grandi manifestazioni. Per la prima volta da decenni, la sinistra sta guadagnando consistenza sociale e non soltanto qualche scanno parlamentare o una momentanea guida dell'avanguardia. Il radicamento sociale riflette l´indebolirsi dei pregiudizi antisocialisti, l´avanzare dello spirito antimperialista (molto presente nel rigetto dell'invasione dell´Iraq) e un qualche progresso della coscienza anticapitalista. Quando i destri della Nación interpretano il voto del 27 aprile come una reazione alle manifestazioni di sinistra stanno riconoscendo l'influenza di una corrente che fino a poco fa ignoravano del tutto.
Quest'influenza è ammessa anche dagli esponenti progressisti. Per quanto le loro critiche al settarismo e al dogmatismo della sinistra somiglino a quelle di tanti altri settori, per loro si tratta di un ben preciso obiettivo: favorire il ritorno al rituale scioglimento in alleanze borghesi.(...). Per i critici del centrosinistra, ampiezza e flessibilità sono sinonimi del voto a Kirchner e del ritorno dell'Alleanza al galleggiamento sotto l'egida di Carrió.
Altri critici dello stesso campo resuscitano il lessico maccartista (D'Elia) e tutti danno alla sola sinistra la responsabilità del riflusso delle assemblee di quartiere. Tuttavia gli obiettori non si accorgono che l'accusa contrasta con il carattere insignificante che attribuiscono ai partiti in questione. Se la sinistra è tanto irrilevante, come ha potuto di per sé indebolire il movimento dei quartieri? Come mai il centrosinistra non è riuscito a contrastare azioni così dannose?
In realtà, la predica in voga contro gli apparati segue una direzione stranamente contraddittoria. Ogni manipolazione orchestrata dall'Ari o dalla Cta viene presentata come una legittima iniziativa di organizzazione sociale, mentre quando coinvolge i militanti della sinistra viene demonizzata automaticamente. Quel che infastidisce di più il campo progressista è accorgersi di come stia scomparendo lo stereotipo che assegna al popolo argentino un'identità invariabilmente antisocialista.
L'avanzata effettiva della sinistra ha sicuramente mancato di una sua espressione elettorale il 27 aprile. Sia l'alternativa dell'astensione sia il voto per le due correnti che hanno presentato candidati (Iu e Po) hanno avuto magri risultati. Lo scarto tra avanzamento politico e frustrazione elettorale dipende dal successo dell'operazione governativa di ricomposizione della dominazione capitalistica. Duhalde è riuscito a spostare la rissa elettorale verso il "voto utile" e a scoraggiare i voti che avrebbe potuto ottenere la sinistra.
Va inoltre tenuto conto che le presidenziali sono un terreno particolarmente avverso alla sinistra, che tende a perdervi parte delle adesioni ottenute nelle politiche. Il peso dei miti e delle credenze si rafforza nelle presidenziali rispetto ai messaggi programmatici.
Non c´è comunque da essere indulgenti, né da nascondere le serie difficoltà che ostacolano la costruzione di una sinistra di massa e convincente. Molti intellettuali fanno incursione a distanza in questo dibattito. Pontificando dal pulpito denunciano le "dispute frazioniste", le "illusioni deliranti", gli "atteggiamenti dogmatici" e le "parole d'ordine preistoriche" della sinistra, come se questi limiti fossero estranei alla loro stessa attività e si potessero correggere con una semplice predica. Sia l'astrattezza, sia lo scetticismo (il paese è peronista, crede in Dio e saluta i vigili che stanno all'angolo) non servono minimamente a superare gli scogli che bloccano la costruzione della sinistra. Le difficoltà ruotano, in questo momento, intorno a tre problemi: l'astensione elettorale, l'unità e la caratterizzazione della fase.
Astensione tattica
Va riconosciuto l'insuccesso del tentativo di inficiare le elezioni. Le schede bianche sono scese a un livello mai visto dalle presidenziali del 1946 (0,89%), si è registrata una partecipazione record dell´80% e le schede nulle (1,62%) sono state insignificanti rispetto all'esito di massa che ebbe il voto protestatario ("voto bronca") del 2001.
Non ha senso disconoscere questi dati di fatto sostenendo che il 22% degli aventi diritto non ha votato, perché è evidente che questo assenteismo tecnico non ha il valore di rigetto che aveva due anni fa. Ancor più sbagliato è che questo tipo di voto nullo è superiore ai voti ottenuti da Menem, perché si assegna alla diserzione un valore politico che non ha. Confrontare grandezze incomparabili è inutile come non registrare i milioni di voti che non sono andati al menemismo.
Fare appello a discutere e a rivedere quel che è successo è molto positivo, se si ammette la realtà e ci si ricorda che l'atteggiamento riflessivo non può emergere solo da un risultato elettorale. Il bilancio deve però andare oltre la semplice descrizione ("la classe dominante è riuscita a imporsi") ed evitare che i pronostici di crisi future si sostituiscano alla caratterizzazione del presente. Affermando ad esempio che la gente subirà una delusione e che sta arrivando lo scontro non si chiarisce ciò che è accaduto. Inoltre, che la crisi si approfondisca non implica uno sbocco favorevole al popolo, se nella sinistra non riusciamo a correggere le nostre debolezze. Altrettanto inutile, tuttavia, eludere la riflessione accusando il ceto medio ("passato il corralito, si dimenticano di noi" dimenticando che la simpatia degli strati intermedi ha finora impedito l'isolamento del movimento piquetero.
Punto di partenza di un bilancio è riconoscere che l'astensione è stata un errore. Certamente le elezioni sono state manipolate, ma non somigliavano alla "frode patriottica del 1930" o alla "proscrizione del peronismo", perché un'elezione fraudolenta non è la stessa cosa di una che impedisce la presentazione di una forza politica significativa che viene esplicitamente considerata illegale, come è accaduto per decenni per il giustizialismo.
Nessuno discute che la convocazione della tornata elettorale è stata accolta da un'ampia fascia di popolazione con la sensazione che si trattasse di una truffa. Ma, passato qualche mese, era evidente che la prima contestazione stava cadendo, in parte per mancanza di un canale di espressione organizzata. La speranza di provocare il fallimento dell'operazione governativa - forzando un'altra elezione che includesse il rinnovo di tutte le cariche - si era andata completamente diluendo alla fine dello scorso anno. Perciò hanno perso vigore gli argomenti astensionistici, che si giustificano solo se l'opposizione è in grado di gestire una scelta che vada oltre la diatriba elettorale. Questo terreno è propizio per la classe capitalistica, ma abbandonarlo lascia campo libero agli esponenti della borghesia.
Per ignorare l'arena elettorale bisogna disporre di istanze di potere alternativo, che non sono nate in Argentina. In mancanza di un'alternativa del genere, astenersi significa semplicemente rinunciare alla battaglia e porta a identificare la sinistra con l'impotenza. Le proposte di "voto programmatico" sono ancora più enigmatiche per la popolazione, che vede che la sinistra è capace di lottare, ma non di proporre alternative rispetto ai partiti padronali. Se la sinistra non partecipa alle elezioni si priva della possibilità di valutare quale grado di ricettività ottengano i suoi messaggi e non riesce a correggere ciò che nella sua propaganda è incomprensibile o inadeguato. Per questo, pur con tutti i suoi limiti, il quadro elettorale contribuisce a facilitare la politicizzazione del popolo più che non la contestazione del meccanismo elettorale.
Tutti questi inconvenienti dell'astensione sono stati di fatto ammessi dai partiti, che alla fine hanno deciso di girare le spalle alle presidenziali e di presentarsi alle provinciali. Questa incoerenza è incomprensibile per la popolazione, che non riesce a distinguere perché i brogli accettabili in un'istanza non lo siano in un'altra. Basti ad esempio ricordare che nelle elezioni migliori per la sinistra (2001) il broglio consisteva nel non riconoscere i mandati di due deputati eletti e sicuramente questo non mise in questione che fosse opportuno presentarsi. Per costruire altre regole del gioco bisogna prima convincere la maggioranza, che abitualmente partecipa alle elezioni e respinge spaventata l'incubo di un ritorno all'epoca dittatoriale delle "urne ben controllate".
Astensione strategica
C'è un'altra giustificazione dell'astensione non basata sulla concreta analisi dell´ultima congiuntura elettorale, ma sulla strategia politica di costruire al di fuori del sistema. Che questa concezione non sia sinonimo di comportamento rivoluzionario lo prova la politica del Pcr, i cui invariabili appelli a votare scheda bianca coincidono da vent'anni con intese con il peronismo e con politiche di alleanza con D'Elia contro la sinistra piquetera.
L'astensionismo di principio si alimenta di vecchie tesi anarchiche fautrici della costruzione di una società più ugualitaria, tramite lo sviluppo di organizzazioni separate dallo Stato. Il problema delle assemblee o delle cooperative che si sviluppano secondo questo orientamento è quello delle difficoltà che devono affrontare nel farlo senza alcun contatto con gli organismi statuali. Il sogno dell'isolamento si infrange tutte le volte che qualche affare impone che si ammetta la realtà onnipresente dello Stato.
Questa impostazione tende ad accrescere la distanza che c´è tra il grosso della popolazione e l'avanguardia più illuminata. Invece di tendere ponti solleva muri, specie allorché disprezza le convinzioni di milioni di persone. Organizzare ad esempio un corso elettorale per burlarsi della farsa del 27 aprile ha costituito un gesto sprezzante, sia verso gli elettori sia verso l'avversario capitalista, che ha preso molto sul serio l´operazione di ricostituire la propria dominazione.
C´è anche l'impressione sbagliata che la "cittadinanza ribelle" passa solo per scenari di iniziativa diretta appena modificati dalla "distrazione" elettorale. Qui si dimentica che l'esperienza politica popolare passa per entrambi i terreni, perché chi lotta vota anche, e questa partecipazione non inficia, né per forza di cose indebolisce, la battaglia nelle fabbriche o i picchetti. Per questo la sfida per la sinistra non sta nel disprezzare le elezioni come deviazione, ma nell´utilizzarle per cercare di ridurre la frattura che c'è fra la posizione classista e il basso livello di coscienza politica prevalente fra molti lavoratori.
Certe correnti che caldeggiano di non votare nessuno conducono una lettura sbagliata anche del significato delle assemblee popolari. Tendono a vederle come modelli di democrazia diretta, il cui allargamento consentirebbe di superare i difetti dell'attuale sistema rappresentativo. Perciò rivendicano questa forma di contropotere e prescindono dalla partecipazione alle comuni elezioni. Questa visione, tuttavia, segna una linea di divisione sbagliata, perché sotto il capitalismo nessuna delle due modalità consente di esprimere la sovranità popolare. Il sistema indiretto comprende tutti i meccanismi di filtro di cui ha bisogno la borghesia per distorcere la volontà popolare, ma le modalità dirette non consentono di trasformare in realtà i desideri della maggioranza, perché il potere è in mano ai capitalisti. Inoltre, la democrazia diretta è molto soggetta all'andirivieni della partecipazione alle assemblee e non può quindi costituire l'unico meccanismo di organizzazione di un sistema decisionale basato sulla sovranità popolare.
Solo nel quadro del superamento del capitalismo e della progressiva scomparsa del ruolo repressivo dello Stato la democrazia diretta e indiretta potrebbe cominciare ad acquisire un significato genuino e un contenuto reale. Il socialismo permetterebbe di porre fine al sistema di separazione tra l'inamovibile potere economico e le strutture politiche che la dominazione borghese riproduce continuamente. Tuttavia non c'è un salto magico verso questo futuro, ma una costruzione complessa che comprende l'esperienza di voto nelle elezioni attuali e lo sperimentare i legislatori della sinistra, sia nel loro comportamento di fronte alla lotta, sia nella loro specifica pratica.
Il problema dell'unità (I)
Le organizzazioni partecipanti alle elezioni sono state d'accordo nel valutare che Iu ha avuto un risultato accettabile (ha raddoppiato i voti delle ultime presidenziali), mentre il Po non è riuscito ad avanzare (è cresciuto del 25%), tutti sono andati in dietro in confronto alle politiche del 2001 e che la mancanza di un fronte è stata decisiva per il ben magro risultato.
Le trattative per dare vita al fronte hanno ripetuto la sceneggiata delle consuete difficoltà che si ripetono ogni due anni. Iu di solito propone l'accordo con un certo anticipo, il Po lo rilancia quando è vicino il termine per le presentazioni, e le trattative quindi falliscono nel bel mezzo di reciproci rimproveri. Dal momento che questa situazione si ripete da circa un ventennio, converrebbe ricavarne un'ovvia conclusione: l'unità è necessaria (e per questo si ripropone), ma è impossibile concordarla in extremis. Se per esempio si costruisse un rapporto più continuativo tra tutte le organizzazioni, si potrebbero discutere i meccanismi di distribuzione degli incarichi (attraverso selezioni preliminari aperte, assemblee, conteggio dei voti precedenti, ecc.), che tanto ostacolano la concretizzazione del fronte. Non c'è da vergognarsi né nascondere il contrasto, visto che esprime una legittima polemica sulla vicenda politica. Quel che dà fastidio a molti sostenitori dell'unità non è che esista questa divergenza, ma che questa si mascheri dietro inesistenti divergenze programmatiche.
Per fortuna, in questa occasione, sia i dirigenti di Iu sia quelli del Po hanno esplicitamente chiarito, in molti incontri pubblici e dichiarazioni, che non ci sono divergenze politiche. Un ulteriore passo avanti è stato il clima di minore belligeranza, rispetto alle elezioni precedenti. In quegli scontri, la preoccupazione di sottrarsi voti tra compagni era spesso superiore all'attenzione prestata per il comune progresso.
Sarebbe un peccato che questi passi avanti si dissipassero alla luce dell'ultimo risultato elettorale e che si tornasse ad accentuare le differenziazioni. Un arretramento del genere si insinua in certi bilanci del Po, che attribuiscono gli esiti migliori di Iu all'incomprensione popolari delle differenze esistenti tra le due tendenze. Si tratta di una conclusione sbagliata, perché dopo tante presentazioni, gli elettori che simpatizzano per la sinistra ormai conoscono i candidati e ne hanno ascoltato il messaggio.
Se optano per Iu non è per disinformazione o ignoranza, ma per la maggior forza di attrazione che ha l'esistenza di una coalizione. I membri ricevono maggiore riconoscimento per il profilo unitario che sono riusciti a mostrare e che si può constatare a partire da un semplice dato: il mantenimento dell'accordo tra due parti, indipendentemente dalle importanti divergenze che hanno. Visto che riescono a conservare queste divergenze entro un quadro comune, il loro richiamo all'unità è maggiormente credibile.
La chiave per ottenere un avanzamento collettivo della sinistra è l'avvicinamento e non la separazione, per due evidenti motivi. Primo: l'unità è uno strumento - per ora insostituibile - per dare battaglia contro il grave ostacolo costituito dalla perdurante influenza conservata dal peronismo e dalle varianti del radicalismo sulle masse. Secondo: diversamente da altri periodi, l'assenza del fronte non corrisponde a ragioni programmatiche, perlomeno vedendo ciò che ogni tendenza espone ufficialmente nella sua propaganda di massa.
Un recente articolo del Po si muove in senso sbagliato, insinuando che esistano tendenze filoimperialiste in Iu e che questo raggruppamento sarebbe appoggiato da un settore di banchieri. L'errore sta sia nell'accusa come nelle assurde conseguenze. Che senso ha, infatti, rivolgere proposte unitarie a un raggruppamento filoimperialista e legato alla banca? Se la mano di Lopez Murphy e di Menem arriva fino a Iu, proporle alleanze elettorali è stato un controsenso in passato e non sarebbe giustificato in futuro. Inoltre, è ovvio che riflessioni del genere impediscono di creare il quadro favorevole per un lavoro continuativo.
Il problema dell´unità (II)
L'unità lavora in direzione contraria alla costruzione del partito rivoluzionario? Anche questo incubo minaccia l'allargamento sul piano elettorale degli accordi raggiunti sul terreno politico, sindacale o studentesco. Pur balzando agli occhi che non c'è alcuna incompatibilità tra i due obiettivi (l'unità è uno strumento di crescita di ogni partito e viceversa), l'aggregarsi di un fronte argina invece l'autoproclamazione.
Le esperienze "frontiste" consentono lo sviluppo delle organizzazioni che vi partecipano, ma rendono al tempo stesso evidenti i limiti di ciascuno nello svilupparsi in modo autoreferenziale. Una costruzione collettiva consente di ridurre l'autosufficienza e di valutare i progressi con maggiore realismo. Serve, ad esempio, ad abbassare i livelli di illusioni sul numero di voti raggiungibili da soli (il 15% al massimo di quanto previsto in varie occasioni) e forse anche ad evitare sorprendenti scoperte postelettorali ("non abbiamo ancora conquistato un'identità in seno alle masse"). L'identità non ce l'ha nessun partito di sinistra e per questo il fronte si ripropone così di continuo da tanto tempo.
L'unità contribuisce a prendere coscienza del fatto che la costruzione rivoluzionaria è uno scambio reciproco di esperienze e non un processo di ascesa fino al riconoscimento di autoproclamati visionari.
Pur rappresentando questa impostazione un'apprezzabile fonte di entusiasmo, che allevia le difficoltà della militanza, ostacola e blocca la presa d'atto di alcuni dati ovvi della realtà.
Facilitando il convergere delle forze, il fronte unitario può contribuire ad accrescere la credibilità popolare della sinistra. L'avanzamento non avverrà come premio per la correttezza di analisi e pronostici, ma come frutto di conquiste progressive da parte delle masse. Certi compagni sopravvalutano il peso che possono avere talune avvertenze, dimenticando che l'atteggiamento profetico non suscita grandi risultati. I lavoratori premiano soprattutto la capacità della sinistra di ottenere conquiste materiali e ricordano quello che "noi abbiamo detto" solo in rapporto a queste. Poco importa la certezza di una previsione, se non comporta, ad esempio, la rottura della maledizione dell´1% in un'elezione dopo l'altra.
Vale altresì la pena di non stare ad aspettare che le masse confluiscano nella sinistra come frutto di un processo "inevitabile", giacché questa alternativa è solo una delle possibilità e non c'è potenza storica che possa compensare la nostra incapacità di avanzare. Sul terreno elettorale, questo progresso implica l'esigenza di mettere lo sviluppo della sinistra al passo e in sintonia con il salto in avanti già conquistato su altri piani. Il bilancio del 27 aprile deve servire per capire che cosa manca e non come occasione di sterili flagellazioni catartiche. Bisogna procedere nell'unità e assumere in modo più convinto la definizione dell'identità della sinistra.
Alcuni compagni discutono che convenga sottolineare questa appartenenza, facendo notare quanto poco prestigio abbia ancora il termine "sinistra". La stessa prevenzione, però, c'è per qualsiasi altro termine, con l'inconveniente che la parola "sinistra" viene associata chiaramente, nell'Argentina di oggi, a una linea di lotta e a una positiva differenziazione dal "progressismo". I simboli hanno importanza, ma non bastano. Occorre anche costruire uno campo di attrazione popolare e di organizzazione aperta che, per esempio, Iu non è finora riuscita a mettere in piedi.
La fase
Il 20 dicembre 2001 ha aperto una situazione rivoluzionaria? Dopo il 27 aprile questa fase si è chiusa? E' forse meglio utilizzare il termine di "fase prerivoluzionaria" per entrambi i momenti? La prima esplosione è stata una rivoluzione e la seconda operazione una controrivoluzione?
Nei dibattiti della sinistra si è fatto ricorso, in vari momenti, a ciascuno dei due concetti, senza chiarirne il significato preciso. Il riferimento all'idea leninista di una fase segnata da "acute crisi in alto e irruzioni storiche in basso" non sembra sufficiente a chiarire la natura di una fase caratterizzata, in primo luogo, dallo sgretolamento dello Stato e dal collasso di un regime politico per l'impatto di una rivolta popolare e contraddistinta, poi, dalla parziale ricostituzione dei meccanismi di dominio capitalistico.
In compenso, quel che risulta indiscutibile è che nessuno scossone del contesto politico basterà a creare uno sbocco favorevole al popolo, se nel corso del medesimo processo non maturano i protagonisti soggettivi della trasformazione sociale. Per il momento, persiste uno scarto netto tra la portata della catastrofe economico-sociale e il sottosviluppo della sinistra. Finché questo scarto perdura, la crisi può raggiungere una situazione prerivoluzionaria, rivoluzionaria o ultrarivoluzionaria senza mai sboccare in un processo socialista. Per questo è così importante registrare le nostre debolezza e i nostri errori.
Superare queste difficoltà non sarà frutto spontaneo del disastro economico, della disgregazione del sistema politico o dell'intensificarsi dello scontro sociale. La storia argentina è zeppa di grandi contraccolpi del genere su tutti e tre questi piani. Ma né l'iperinflazione, né la guerra delle Malvine, né le sollevazioni degli operai e dei piqueteros hanno dato luogo al nascere di un massiccio polo di sinistra. La rivolta iniziata nel 2001 ha creato una nuova occasione per risolvere la grande contraddizione argentina e avanzare nella creazione di un'alternativa socialista. Poiché tuttavia questa scelta non cadrà dal cielo, né sarà frutto di un semplice sforzo volontaristico, dobbiamo capire in che cosa siamo carenti.
La crescita della sinistra esige inoltre che si precisi la nostra visione del potere. Porre l'accento sulla necessità di conquistarlo è vitale, perché la lotta è una ricerca di soluzioni che richiedono l'avvento al governo, la trasformazione del regime e il cambiamento della natura sociale dello Stato. Per questo tutti i messaggi lirici che auspicano di "cambiare il mondo senza prendere il potere" non spiegano come si possa modificare in concreto la realtà prescindendo dal principale strumento politico di questa stessa trasformazione. Per aumentare i salari, percepire imposte proporzionali al reddito, frenare l'emorragia del debito o ottenere la confisca dei banchieri, è necessario conquistare il potere popolare e avanzare verso l'obiettivo di un governo dei lavoratori.
Eludendo questi obiettivi, costruire la sinistra perde senso. Ma incorrere nell'errore opposto di parlare allegramente del potere senza avere la possibilità di conquistarlo non è meno dannoso. Molte volte si afferma che "si pone il problema del potere" o che "si delinea un'alternativa di potere", senza rendersi conto del lungo cammino che va fatto per trasformare i desideri in realtà. Finché la sinistra non avrà maggiore influenza e credibilità popolari, queste definizioni rimarranno semplici slogan da diffondere con cautela, perché le parole vanno sempre adeguate ai fatti e i messaggi alla loro fattibilità, altrimenti la prolungata lontananza concreta del potere si concluderà paradossalmente nel consolidamento delle illusioni nella sua imminente vicinanza.
Scenari
Esistono due scenari possibili per la prossima fase: il nuovo governo assicura la ricomposizione dello Stato avviata da Duhalde, cavalca la ripresa e indebolisce la resistenza popolare, oppure prevale il quadro opposto e il nuovo presidente affoga nel pantano economico, sotto il duplice peso della frammentazione della classe dominante e della resistenza sociale. In entrambe le alternative, la sinistra ha un ampio margine per avanzare, ma nel primo scenario di collasso l'appello originario della rivolta ("que se vayan todos") potrebbe riemergere, aprendo anche la possibilità di una più concreta formulazione dell'obiettivo della convocazione dell'Assemblea Costituente.
Importante è tenere fermo che anche in questo caso le difficoltà che la sinistra conosce non spariranno d'incanto. Se, ad esempio, lo scorso 27 aprile si fossero svolte elezioni non del presidente, ma di membri di una Costituente, la rappresentanza della sinistra non sarebbe stata maggioritaria neanche in questo caso. Tenere presente questo problema è vitale per capire che non c'è parola d'ordine che possa sostituire il lavoro di costruzione unitaria. Le prossime elezioni provinciali (specie a Buenos Aires e nella Capitale Federale) offrono un canale per correggere i problemi della recente tornata. Nelle prossime scadenze elettorali il ricatto del "voto utile" avrà meno peso e il contesto potrebbe essere di nuovo favorevole per la sinistra.
Un grande passo in avanti nella costruzione di un polo unitario si è concretizzato nella celebrazione del 1° Maggio. Per la prima volta dopo tanto tempo questa cerimonia ha raccolto tutte le varianti della sinistra in una giornata di mobilitazione e di notevole convergenza su tre parole d'ordine: Fuori l´imperialismo dall'Iraq! Né Menem, né Kirchner! La Brukman appartiene ai lavoratori! Questa convergenza indica come procedere in un progetto comune. I giovani, i lavoratori e i disoccupati si avvicinano oggi alla sinistra con una carica di entusiasmo che rinnova la nostra esperienza. Quanti di noi hanno già accumulato una certa esperienza in questa costruzione debbono guardare in faccia gli ostacoli per riconsiderare gli errori e per inaugurare un corso vittorioso.
(6 maggio 2003)