VII° CONGRESSO

Documento Bellotti
Una svolta operaia
Per una nuova rifondazione comunista



Il fallimento dell’Arcobaleno e della sinistra di governo

Il fallimento inglorioso dell’esperienza dell’Unione costituisce la prova inappellabile della
sconfitta della linea del congresso di Venezia. La prova dei fatti è stata talmente devastante da
non lasciare spazio a interpretazioni o sfumature. La rottura tra il partito e la nostra base
sociale è stata drammatica, l’avere subìto il protocollo sul welfare senza dare battaglia prima e
senza rompere con il governo Prodi una volta che questo impose la fiducia sul testo è stato il
passaggio qualitativo. Il rifiuto della maggioranza del gruppo dirigente, in tutte le sue
articolazioni, di partecipare e organizzare la battaglia per il No nel referendum nei luoghi di
lavoro, rompendo così con quel milione di lavoratori e lavoratrici che si espressero contro
l’accordo, ha rappresentato un vergognoso abbandono del settore più combattivo e cosciente
della classe lavoratrice proprio mentre questo cercava un canale e uno strumento per
esprimere la propria radicale opposizione alla controriforma del welfare.
Prima di quella rottura, una lunga serie di cedimenti, adattamenti, travestimenti della
realtà, aveva già logorato e minato il rapporto tra il partito e la sua base sociale. La finanziaria
2007 presentata come di svolta, il voto sulle missioni militari, il 9 giugno 2007 con le piazze
contrapposte durante la visita di Bush, l’aumento delle spese militari, gli sgravi fiscali alle
imprese, il rifiuto di cancellare le leggi vergogna di Berlusconi, il rifiuto del governo di
ascoltare il movimento No Dal Molin, il rifiuto della commissione d’inchiesta sul G8 di
Genova, l’assoluta impermeabilità del governo di fronte a qualsiasi rivendicazione salisse dal
basso...
L’operazione maldestra e opportunista della lista Arcobaleno è rapidamente esplosa di
fronte a queste contraddizioni insanabili e dopo le elezioni vede una vera e propria diaspora.
Sinistra democratica, che fin dal giorno dopo la sua nascita ha perso un pezzo ogni settimana,
sia verso i socialisti che verso il Pd, si avvia a una definitiva frantumazione. I Verdi sono già
in larga maggioranza impegnati in una marcia a tappe forzate di avvicinamento al Partito
democratico. Il Pdci ha lanciato la proposta della “Unità comunista”.
Chi oggi tenta di riproporre percorsi costituenti di una sinistra cosiddetta unitaria,
maschera coscientemente il fatto che i nodi politici che hanno determinato il fallimento della
sinistra non solo nelle elezioni, ma soprattutto nei due anni di governo, non sono stati sciolti e
neppure affrontati in un dibattito aperto. Sinistra di classe e alternativa o sinistra “di governo”
e subordinata al Pd? Sinistra anticapitalista o sinistra inserita nell’orizzonte
dell’Internazionale socialista? Queste domande oggi più che mai necessitano di una risposta
chiara e trasparente.
La realtà è che una costituente della sinistra è possibile solo dando a queste domande una
risposta moderata, subordinata al Pd e fondata su una concezione socialdemocratica. Questo
implica quindi una rottura profonda con il nostro partito, con la larga maggioranza dei suoi
iscritti e militanti che intende militare in un partito che mantenga aperta la prospettiva del
superamento del capitalismo e di una società socialista libera dal dominio del profitto.
Costituente della sinistra oggi significa scissione a destra di Rifondazione comunista: questa è
la realtà nuda e cruda, una volta che si tolgano i veli della retorica con la quale la si avvolge.
Né da questo punto di vista si vede una differenza qualitativa fra le proposte di costituente e
quelle di federazione, che altro non sono che un tentativo di andare nella medesima direzione
ad un ritmo più lento, ma senza sciogliere i nodi politici sopra indicati e ripiombando
immediatamente nelle contraddizioni che in questi due anni hanno portato alla sconfitta
politica del nostro partito. La proposta federativa riporrebbe immediatamente il problema
della sovranità del partito e dei suoi iscritti su scelte politiche decisive che saremo chiamati a
compiere nella prossima fase, sottraendo il dibattito e soprattutto le decisioni al corpo
militante e consegnandole a una diplomazia opaca fra gruppi dirigenti che ha già dato pessima
prova di sé con l’Arcobaleno e, in precedenza, con la fallimentare proposta della “Sezione
italiana della Sinistra europea”.
Rifondazione comunista rimane la forza principale della sinistra, abbiamo il dovere di
investire tutte le nostre forze nel rilancio di questo partito, nell’elaborazione di basi politiche,
programmatiche e organizzative che possano riaprire un percorso credibile per tutti quei
compagni e compagne che proprio in questo frangente drammatico mettono a disposizione
con generosità le proprie energie e la propria passione militante. È riduttivo e fuorviante un
dibattito si limiti a cercare nel passato la “rifondazione ideale” dalla quale partire e
individuandola, chi in quella pre-scissione del 1998, chi in quella del 2001, chi in quella di
Venezia. Dobbiamo invece ripercorrere la nostra storia per salvaguardarne la parte migliore,
le battaglie più limpide, il coraggio di andare contro corrente e di sfidare l’ideologia e il
sistema dominante, la capacità militante, quell’“orgoglio plebeo” senza il quale è impossibile
costruire una battaglia antagonista, e per liberarci di quegli aspetti deteriori, che individuiamo
in primo luogo nel governismo, nell’istituzionalismo, nel distacco fra gruppi dirigenti e
partito e fra partito e lavoratori, in una “innovazione” ideologica che ha travestito idee e
pratiche profondamente moderate presentandole come “ultimo grido” nel rilancio teorico
della rifondazione.
Per questo motivo è da respingersi anche la proposta di “Unità comunista” così come
attualmente si configura, ossia come ritorno alla Rifondazione precedente alla scissione del
1998. Quella divisione non è affatto superata dalla storia, ma va rivisitata precisamente oggi,
perché quello che ha rischiato di ucciderci, oggi come negli anni ’90, è stato precisamente il
governismo e la subordinazione al centrosinistra, e su questo nessun ragionamento critico è
mai venuto dai gruppi dirigenti del Pdci. Questo non significa ignorare o peggio guardare con
disprezzo a tanti compagni che militano nel Pdci o che sono al di fuori tanto del Prc che del
Pdci, né rifiutare di porsi il problema dell’unità d’azione con le altre forze di sinistra,
comprese quelle che in questi anni si sono scisse da sinistra da Rifondazione.
Tale problema deve porsi oggi innanzitutto in termini di azione comune su piattaforme
chiare e definite, che siano dettate non dalle necessità di fare diplomazia elettorale fra gruppi
dirigenti, ma alla mobilitazione attiva sui terreni fondamentali dello scontro di classe e
dell’opposizione al governo delle destre. Tanto più saremo in grado di costruire in questa
direzione, senza nascondere le differenze politiche, tanto più sarà possibile avviare anche un
confronto politico che estenda all’intero corpo della sinistra d’alternativa una profonda
correzione di rotta rispetto a quanto fatto in questi anni, e che sottoponga a una critica
implacabile politiche e gruppi dirigenti che sono collettivamente responsabili della sconfitta.
Processi unitari veramente fertili potranno attivarsi soprattutto in presenza di un effettivo
rilancio della mobilitazione di massa e del protagonismo dal basso, che creerebbero le
condizioni migliori per una definitiva sconfitta del moderatismo e dell’istituzionalismo dei
gruppi dirigenti. Questo fu l’esperienza dell’Flm, frutto della grande avanzata operaia del
1969 e degli anni ’70, che oggi è stata del tutto impropriamente chiamata in causa per
qualcosa di radicalmente diverso se non opposto, ossia dare una copertura ideologica a un
processo tutto interno alla logica istituzionale e d’apparato.

Una destra minacciosa rialza la testa


Di tutte le posizioni sbagliate diffusesi nel nostro partito negli scorsi tre anni, una delle più
platealmente errate era la quella secondo la quale allearsi con l’Ulivo sarebbe servito a
combattere la destra.
Mai come oggi nel nostro paese la destra e l’estrema destra conquistano facilmente terreno,
diffondono la loro ideologia avvelenata, si muovono con un’impunità e un’agibilità inedite.
Va analizzato il ruolo specifico di queste forze. L’attivismo dei partitini neofascisti, e in
particolare di Forza Nuova e della Fiamma tricolore, risponde in primo luogo, come sempre,
all’imperativo di togliere l’agibilità politica alle forze della sinistra, ma non si esaurisce in
questo, nelle intimidazioni, nelle aggressioni, sempre più numerose a militanti e sedi della
sinistra. Oggi attraverso le campagne xenofobe e razziste condotte in collaborazione, diretta o
indiretta, con i partiti della destra parlamentare, i neofascisti ottengono lo scopo fondamentale
di “sdoganare” idee e comportamenti che per decenni erano stati considerati accettabili solo
all’interno di ghetti ben delimitati. Decine e decine di episodi, da Opera (Milano) a Pavia, da
Verona a Roma, hanno mostrato fin troppo chiaramente lo schema di queste campagne nelle
quali si stabilisce una perfetta divisione dei compiti fra l’“attivismo” sul territorio (fiaccolate,
“ronde”, ecc.), che vede protagoniste in particolare Forza Nuova e la Lega Nord, e le
campagne più a vasto raggio che coinvolgono i partiti della destra “rispettabile” e la grande
stampa.
L’importanza di queste campagne consiste quindi soprattutto nella loro capacità di rendere
accettabili e legittime idee le peggiori idee razziste, xenofobe, omofobe, reazionarie in genere
e nel veicolarle attraverso l’intero spettro della politica ufficiale. Il loro successo non si
misura solo e tanto nei voti raccolti da queste liste (che finora sono in generale pochi), ma nel
fatto che la loro ideologia e i loro contenuti vengano legittimati e rilanciati su scala più vasta.
Quanto detto qui per la questione immigrazione vale allo stesso modo per le campagne
revisioniste rivolte contro la memoria storica della sinistra e del movimento operaio, per le
campagne di stampo cattolico/integralista, familista, omofobico, e via di seguito.
I vertici del Pd non si fanno nessun problema nel porsi in prima fila nelle campagne
xenofobe, col risultato di legittimarne gli argomenti senza per questo strappare consensi alla
destra. Dall’altro lato, il fatto che ci siano stati “i comunisti” al governo crea il terreno ideale
per il diffondersi della demagogia razzista precisamente in quei settori popolari più poveri,
che più si sono sentiti traditi e abbandonati dal governo Prodi. La paralisi imposta al
movimento operaio lascia le piazze libere per il diffondersi del veleno del razzismo.
Alla demagogia reazionaria della Lega e della destra non si risponde con la sinistra dei
salotti che fa appello ai buoni sentimenti.
Dobbiamo quindi rispondere sul piano ideologico e culturale all’onda di destra, ma saremo
credibili solo se la nostra battaglia si legherà in modo indissolubile a una prospettiva di classe
coerente che leghi l’antifascismo e l’antirazzismo alle nostre battaglie sociali.

Una profonda crisi economica e sociale

I dati pubblicati pochi mesi fa dall’Ires-Cgil sui salari italiani confermano il totale disastro
prodotto dalla concertazione basata sugli accordi del luglio 1992-93. Nel 1993-2006 i salari
lordi di fatto tengono a malapena il passo dell’inflazione (ufficiale), mentre quelli contrattuali
perdono in media lo 0,5% all’anno. Negli anni 2002-2007 la perdita del potere d’acquisto è
pari a oltre 1200 euro l’anno, ai quali vanno aggiunti quasi 700 euro di mancata restituzione
del fiscal drag che portano la perdita complessiva a 1900 euro. Mentre i padroni strillano
contro le imposte, l’aliquota Irpef effettiva pagata dai lavoratori sale dal 18,5 del 2000 al 19,6
del 2006.
L’arretramento generale si accompagna a un aumento delle differenze: nel 2006 il
“lavoratore standard” guadagnava 1171 euro, che scendono a 969 nel mezzogiorno, a 961 per
le donne, a 866 nelle piccole imprese, a 856 per gli immigrati, a 854 per i giovani.
I giovani risultano particolarmente colpiti: un collaboratore fra i 15 e i 34 anni guadagna in
media 768 euro mensili; un apprendista 736. Il tasso di povertà fra i lavoratori giovani (18-34
anni) è superiore alla media nazionale.
I profitti, viceversa, schizzano alle stelle. Il modesto aumento della produttività creato in
questi 13 anni è andato per il 13 per cento ai salari, per l’87 per cento alle imprese. Secondo il
campione di Mediobanca (1000 imprese con circa un milione di dipendenti), tra il 1995 e il
2006 i salari aumentano in media dello 0,4% annuo, i profitti dell’8,1 per cento: oltre venti
volte di più! Una lotta di classe unilaterale condotta e vinta dai padroni.
Il capitalismo italiano rimane indietro nella competizione economica mondiale, i padroni
investono poco e competono comprimendo salari e condizioni di lavoro
Particolarmente drammatica la situazione del Mezzogiorno. Secondo lo Svimez, 270mila
giovani e lavoratori prendono ogni anno la strada dell’emigrazione, 120mila dei quali in
forma permanente, sia per motivi di studio, sia per cercare lavoro. Sono cifre paragonabili a
quelle degli anni ’60, con una differenza: mentre allora l’emigrazione garantiva un flusso di
reddito verso il sud, oggi le condizioni di lavoro e di vita si sono talmente deteriorate che
quegli stessi lavoratori emigrati spesso necessitano di un sostegno economico dalle proprie
famiglie per sostenersi al nord, essendo insufficienti i salari e mancando la certezza del posto
a tempo indeterminato, particolarmente considerato l’altissimo costo delle abitazioni e degli
affitti. 10 miliardi di euro all’anno viaggiano così dal sud al nord, costituendo un’ulteriore
depauperamento del Mezzogiorno. È una situazione insostenibile, nella quale le famiglie
erodono rapidamente quei margini conquistati dalle generazioni passate: la proprietà di una
casa, le pensioni o il reddito dei genitori, per tentare di garantire una sopravvivenza alle nuove
generazioni.
È in questo contesto economico che si collocherà l’azione del nuovo governo di destra.

Il governo Berlusconi e l’offensiva confindustriale

La vittoria elettorale della destra e la cancellazione della sinistra dal parlamento aprono la
strada a una violenta offensiva padronale sia sul terreno economico e sociale che su quello dei
diritti, accompagnata da campagne ideologiche oscurantiste e regressive.
Il “decalogo” dettato dalla Confindustria già prima della campagna elettorale verrà ora
applicato in tempi rapidi, essendo venuti meno tutti gli ostacoli al pieno dispiegarsi
dell’offensiva padronale.
Il passaggio di consegne fra Montezemolo e Marcegaglia è stato accompagnato da una
vera e propria dichiarazione di guerra al sindacato e alla sinistra, la cui sconfitta è stata
salutata con entusiasmo dagli industriali come sconfitta delle forze “portatrici di una cultura
anti-impresa, anti-mercato e anti-sviluppo”.
I punti centrali di questo “decalogo”, non più libro dei sogni dei padroni, ma programma
immediato di azione, sono noti.
1) Svuotamento del contratto nazionale di lavoro, da ridurre ai minimi termini
allungandone la durata a tre anni e comprimendone il ruolo economico al mero recupero
dell’inflazione “realisticamente prevedibile”, nuova denominazione di quella “inflazione
programmata” che in questi 15 anni ha demolito il potere d’acquisto di salari e stipendi.
Parallelamente verrebbe “potenziata” una contrattazione aziendale e/o territoriale che nel
contesto dato, dove solo il 10 per cento delle aziende vede una contrattazione interna,
significherebbe il ritorno alle gabbie salariali e a un aziendalismo da anni ‘50 sul modello da
tempo propugnato dalla Cisl. Il sindacato verrebbe sempre più ridotto a un organismo
istituzionalizzato cogestore, assieme allo Stato e alle organizzazioni padronali, di fondi
pensione, in prospettiva anche sanitari, di servizi individuali al lavoratore, perdendo ogni
funzione unificante, di organizzazione e di lotta. Ultima inevitabile conseguenza di questo
programma, la completa soppressione di ogni forma di controllo democratico reale nel
sindacato, nelle Rsu e nei luoghi di lavoro
2) Ulteriori privatizzazioni a partire dalla svendita del patrimonio immobiliare pubblico,
dalle Poste, ecc.
3) Nuove liberalizzazioni (all’orizzonte il trasporto pubblico locale, i trasporti ferroviari,
ecc.).
4) Ulteriore frantumazione del sistema scolastico e universitario, subordinazione alle
imprese e alla Chiesa, proposta di attribuire nuovi finanziamenti solo sulla base del
“rendimento” degli istituti, proseguendo nella logica aziendalista che dall’introduzione
dell’autonomia scolastica e universitaria ha già fatto enormi danni all’istruzione pubblica. In
prospettiva l’obiettivo di Confindustria e della destra è l’abolizione del valore legale del titolo
di studio, che segnerebbe la definitiva vittoria del mercato nella scuola e nell’università.
5) Si rilancia sulle grandi opere, dalla Tav al Ponte sullo Stretto, replicate a livello locale
con progetti speculativi di ogni genere, fino a grandi abbuffate quale è l’Expo 2015 di Milano.
6) Richiesta di ulteriori sgravi fiscali per le imprese, compresa la defiscalizzazione degli
straordinari.
I padroni vogliono mano libera su tutto: salario, orari, flessibilità, mercato del lavoro,
formazione, si punta a demolire tutti i vincoli e gli ostacoli quali che siano, fiscali, ambientali,
normativi (si veda l’attacco al Testo Unico sulla sicurezza da poco approvato), al pieno
dispiegarsi della “libera iniziativa”, la quale peraltro non disdegna affatto gli aiuti di Stato,
dagli sgravi fiscali fino ai mercati protetti costituiti dalle grandi opere di cui sopra.
All’offensiva sul terreno economico e sociale si accompagna una violenta offensiva
ideologica e culturale: campagne razziste, omofobia, proibizionismo, legittimazione storica
del fascismo, clericalismo rampante, aggressione costante alla legge 194 e
all’autodeterminazione femminile... In queste campagne si intrecciano motivi economici e di
potere (ulteriore spazio per la scuola e la sanità private, rafforzamento economico della
Chiesa e della rete associativa e imprenditoriale ad essa legata, fortemente allargatasi in questi
anni a seguito dei continui attacchi allo Stato sociale), ma non solo. Si punta a creare una
pesante cappa ideologica e culturale, un’aria irrespirabile che renda più difficile
l’organizzazione della controffensiva sociale da parte del movimento operaio e della sinistra,
si vuole trasmettere la sensazione di un pesante isolamento fra gli elementi più attivi e
combattivi, isolare nella paura gli strati più deboli e vulnerabili, a partire dagli immigrati e
dalle donne.
Proprio la violenza dell’attacco che si prepara deve responsabilizzarci di fronte a quegli
elementi che per primi vorranno porsi il problema di organizzare una resistenza e una risposta
da sinistra a questa offensiva. Nell’asprezza di questo scontro inevitabilmente una nuova
generazione di giovani, di lavoratori, di donne, cercherà una convincente risposta di sinistra,
che sia all’altezza della sfida in tutta la sua durezza.
Tale risposta non può venire né dal Partito democratico, né dagli attuali vertici della Cgil.
Si creerà pertanto lo spazio per la ricerca di altre posizioni, sul piano politico, programmatico
e anche della mobilitazione organizzata. È in questo percorso, e solo all’interno di esso, che
può essere avviato il percorso di una nuova rifondazione comunista che sia vitale e che sappia
connettersi con quanto di più avanzato e coraggioso si esprimerà nelle condizioni difficili
create dalla sconfitta dell’Unione, della sinistra e del nostro partito in particolare.

Il Partito democratico è un nostro antagonista

La campagna elettorale e le successive reazioni hanno confermato in modo inequivocabile
la natura compiutamente borghese del Partito democratico. La scelta di correre “libero” da
parte di Veltroni, il cosciente tentativo di distruggere le forze alla sua sinistra, non è stata una
scelta tattica di posizionamento per la campagna elettorale, ma una decisione assunta in
coerenza con quella che è la missione di fondo che il Pd si è dato fin dal suo nascere:
distruggere la sinistra nel nostro paese, distruggere ogni forma di rappresentanza di classe, in
qualsiasi modo la si voglia intendere.
La sconfitta elettorale delle politiche, alla quale si è aggiunta la sconfitta di Rutelli a Roma,
ha aperto uno scontro nel Pd. Sarebbe tuttavia il peggiore degli errori ipotizzare che da questo
scontro possa emergere un qualche “spostamento a sinistra” del Pd, o la nascita di una
“sinistra del Pd” che possa in qualche modo riaprire spazi per il Prc. Un settore del Pd ha
reagito alla sconfitta delle politiche rilanciando proposte se possibile ancora più a destra di
Veltroni. Ci riferiamo alla proposta del “Partito democratico del Nord”, rapidamente bocciata
da Veltroni, e che tuttavia dimostra come settori importanti del Pd ritengano indispensabile
lavorare per costruire ulteriori aperture verso la destra e la Lega. Lo stesso Fassino, del resto,
già mesi fa aveva esplicitamente teorizzato l’idea che in Lombardia, Veneto e Sicilia non si
può vincere, e quindi governare, se non in alleanza con pezzi del centrodestra. E non a caso
una delle rivendicazioni di Cacciari era precisamente che il “Pd del Nord” potesse
determinare autonomamente gruppi dirigenti e alleanze politiche ed elettorali.
Veltroni prosegue per la sua strada, quella della cosiddetta “vocazione maggioritaria” del
Pd, ossia del rifiuto di accordi a sinistra. La sua proposta di costituire un “governo ombra” fa
ben intuire quale tipo di opposizione possiamo attenderci da questo partito nei prossimi anni:
un’opposizione di Sua Maestà, sempre pronta al dialogo con la destra, e che su certi terreni
potrebbe esprimere persino posizioni più liberiste dello stesso Berlusconi (si veda la vicenda
Alitalia).
Alla linea dell’“autosufficienza” del Pd si contrappone ora D’Alema, che sull’onda della
sconfitta ripropone una logica di alleanze e si produce in solenni certificazioni dell’esistenza
in vita della sinistra (“tre milioni di voti”) nonostante questa sia stata spazzata via dal
parlamento. L’operazione di D’Alema risponde a una logica forse più profonda di quella di
Veltroni, ma proprio per questo ancor più pericolosa.
D’Alema sa che la sconfitta elettorale della sinistra non cancella il Prc, né tantomeno
significa che sia finita la lotta di classe e il conflitto sociale. Come Cossiga ed altri che dopo
le elezioni hanno manifestato la loro preoccupazione per una possibile evoluzione
“estremista” della sinistra una volta che questa è stata cancellata dal parlamento, D’Alema si
preoccupa per il futuro e lavora per far sì che quando in futuro, di fronte agli attacchi della
destra e dei padroni, si manifesterà una nuova spinta a sinistra, il Prc sia ben ingabbiato
all’interno di un’alleanza col Pd, che la sinistra (che sanno bene non essere affatto morta
nonostante la sconfitta) rimanga saldamente ancorata al Pd, continui a ruotare attorno ad esso
come un satellite, che la sua politica si riduca sempre e soltanto a mendicare la graziosa
concessione di una alleanza elettorale che possa ricostituire una presenza in parlamento e
nelle istituzioni.
La manovra è quindi evidente, soprattutto se la si collega alle proposte di inserire uno
sbarramento elettorale anche per le elezioni europee, che costringa le forze che componevano
l’Arcobaleno a restare unite. Si intende usare quelle forze moderate come Sinistra
democratica (o quello che ne resta) e il settore istituzionalista dello stesso nostro partito per
mantenere il cordone ombelicale fra il Prc e il Pd, per impedire che dalla sconfitta
dell’Unione possa nascere una sinistra di classe, combattiva, radicata fra i lavoratori e i
giovani, realmente antagonista.
È un’offensiva insidiosa che va respinta con una altrettanto lucida controffensiva sul piano
politico, programmatico e di lotta. Se è vero che il governo di destra sarà il nostro primo
nemico nei prossimi anni, è altrettanto vero che nessuna alternativa reale verrà dal Pd; l’unica
via per una rinascita del nostro partito è quella di un conflitto antagonista anche nei confronti
dello stesso Partito democratico. Questo significa non solo rifiutare ogni tentativo di
riproporre una nuova versione dell’Unione o del centrosinistra, ma anche rompere quelle
alleanze locali che tuttora vedono il nostro partito coinvolto in amministrazioni regionali e
comunali responsabili di privatizzazioni, liberalizzazioni, precarizzazione, tagli, pesantemente
compromesse con i peggiori blocchi di potere economico e clientelare.
L’esempio della Campania è solo il più drammatico. Grida vendetta al cielo che dopo che
la sinistra ha perso 4 voti su 5 (200mila su 250mila) in quella regione, dopo la crisi dei rifiuti,
mentre il sistema di potere costruito da Bassolino mostra il suo volto più inguardabile, il Prc
permanga in quella maggioranza di governo; lo stesso dicasi per la manifesta volontà dei
gruppi dirigenti del Prc calabrese di riavvicinarsi alla giunta regionale guidata da Loiero.
Campania e Calabria sono solo i due casi più clamorosi. Il profilo confindustriale,
repressivo, liberista del Pd è emerso chiaramente anche nelle giunte locali, dalle giunte Bresso
e Chiamparino che marciano in prima fila a favore della Tav, alla giunta Capitelli (Pavia)
responsabile negli sgomberi dei rom in favore dei progetti speculativi immobiliari del gruppo
Zunino, fino ai vari Cofferati e Domenici... La rottura col Pd deve essere quindi estesa alle
giunte locali, facendola finita una volta per tutte con equilibrismi e ipocrisie con le quali fino
ad oggi si sono giustificati accordi e alleanze inaccettabili.
Rompere col Pd significa rompere con le compatibilità imposte dal sistema, rifiutare quella
logica fallimentare che già durante lo scorso governo Berlusconi del 2001-2006 ingabbiò le
lotte dirompenti di quegli anni nella gabbia dell’Unione, condannando quella stagione di lotte
generose e straordinarie a spegnersi nella palude del governo Prodi. Quella linea così
pesantemente sconfitta viene nonostante tutto riproposta oggi nella logica frontista della
cosiddetta “riscossa democratica”. Alla base di questa ostinata ripetizione di una linea
fallimentare c’è l’illusione che dalla sconfitta del Pd possa emergere uno spostamento a
sinistra di quel partito, o una corrente di sinistra al suo interno.
Si tratta di un’illusione priva di qualsiasi fondamento. Naturalmente il Pd ha raccolto il
voto di tanti elettori di sinistra, grazie al ricatto del “voto utile” e all’assoluta inconsistenza
politica dell’alternativa proposta dall’Arcobaleno, voti che possiamo riconquistare ad una
battaglia coerente in difesa degli interessi dei lavoratori. Ma non emergerà alcuna sinistra
suscettibile di produrre un cambiamento nella natura del Pd, partito organicamente
confindustriale, liberale e borghese fin dalla sua costituzione. Ciò che può emergere nel Pd è
al l’illusione ottica di una sinistra, uno specchietto per le allodole volto ad abbagliare il ceto
politico più deteriore che dopo il tracollo dell’Arcobaleno va in cerca di ricollocazione
istituzionale, nonché a mantenere accesa l’eterna illusione di “condizionare” da sinistra, ieri
l’Unione, oggi il Pd, quella stessa illusione che è stata alla base del disastro prodotto dalla
linea governista del congresso di Venezia.

Resistere alla capitolazione della Cgil

La destra e i padroni si apprestano ora a schiacciare la Cgil sul piano sindacale come hanno
schiacciato la sinistra sul piano elettorale.
Il Pd ha condotto una vittoriosa guerra di conquista nell’apparato della Cgil, una guerra
della quale la firma del protocollo sul welfare del 23 luglio 2007 e la successiva campagna
referendaria nelle fabbriche sono stati i punti di svolta cruciali. Quel settore dei vertici Cgil
che veniva accreditato come riferimento sindacale della sinistra ha dimostrato nel giro di
poche settimane il suo completo opportunismo capitolando alla pressione del Pd. La sola
Fiom è rimasta come punto di riferimento alternativo, peraltro non senza incertezze e
cedimenti, come testimoniano sia il rifiuto di organizzare una campagna attiva e militante nei
luoghi di lavoro per il NO alla controriforma sul welfare, sia i contenuti dell’ultimo contratto
dei metalmeccanici. Solo ridotti settori di delegati, lasciati nell’isolamento più totale dalla
disastrosa decisione del nostro partito di estraniarsi da quella battaglia fondamentale, delegati
e lavoratori per lo più legati alla Rete 28 aprile, hanno condotto una vera campagna nei luoghi
di lavoro, tentando di offrire un canale di espressione a quel milione di lavoratori che hanno
testimoniato con il loro NO la loro opposizione alla concertazione. Il sindacalismo di base si
divise fra chi sostenne il NO e chi – la maggioranza delle organizzazioni – assunse una miope
posizione astensionista.
Oggi, in un quadro ulteriormente compromesso dall’esito elettorale e dalla pesante
egemonia del Pd sull’apparato della Cgil, il vertice sindacale si appresta ad una nuova e più
pesante capitolazione entrando nella trattativa sulla controriforma del contratto nazionale di
lavoro. Si profila il pericolo di un nuovo luglio 1992.
La maggioranza del gruppo dirigente della Cgil sta assumendo rapidamente
l’armamentario che per anni ha contraddistinto la Cisl. Se non un sindacato unico vero e
proprio, è certo che si vede avanzare una sorta di “cislizzazione” della Cgil. A farne le spese
saranno i diritti dei lavoratori da un lato, e la democrazia nel sindacato e nei luoghi di lavoro
dall’altro.
Le prove generali sono già state fatte durante il governo Prodi: campagne di
criminalizzazione del dissenso, con la ricorrente accusa di contiguità col terrorismo; strette
organizzative negli apparati, con il tentativo di centralizzare ulteriormente scelte e potere
decisionale sugli accordi e di imporre una rigida disciplina alle categorie e agli organismi;
restringimento della democrazia alla base, con numerosi tentativi di ridurre ulteriormente la
rappresentatività delle Rsu e il loro legame con i lavoratori che le eleggono (controllo
burocratico delle candidature, esclusione di candidature critiche, campagne volte a
delegittimare i delegati “fuori dal coro”).
Questo processo può precipitare anche in tempi brevissimi con una nuova pesante stretta
che inevitabilmente accompagnerebbe la conclusione della “trattativa” sulla controriforma del
modello contrattuale. Si pone quindi come compito urgente e di assoluta priorità quello di
costruire una forte battaglia del nostro partito nei luoghi di lavoro, nelle Rsu e nella stessa
Cgil.
Va abbandonata ogni forma di diplomazia nei confronti dell’apparato burocratico del
sindacato. Va condotta una campagna seria e sistematica fabbrica per fabbrica, categoria per
categoria, Rsu per Rsu, in difesa del contratto nazionale e in favore di una piattaforma
sindacale radicalmente alternativa e anticoncertativa. Va sostenuta ogni eventuale forma di
resistenza che il gruppo dirigente della Fiom dovesse decidere di opporre alla deriva della
Cgil, ma senza in alcun modo limitare o vincolare le nostre scelte e la portata della nostra
battaglia alle scelte di Rinaldini, il quale pur contrapponendosi giustamente all’accordo del
2007 ha mostrato già in quell’occasione di non avere le determinazione necessaria ad
allargare la battaglia uscendo dagli organismi e dagli apparati ed estendendola al di fuori della
stessa Fiom.
Va a maggior ragione sostenuta la battaglia della Rete 28 aprile, unico settore della Cgil a
farsi carico, pur con insufficienze limiti, di organizzare un’opposizione dal basso al protocollo
del 23 luglio e al rinnovo contrattuale dei metalmeccanici.
Il nostro obiettivo non sarà quello di costituire una corrente di partito in Cgil, ma di
proporci come sostegno e punto di riferimento per tutti quei lavoratori e delegati che vorranno
opporsi alla capitolazione di Epifani e al definitivo soggiogamento della Cgil al Partito
democratico.
La sola battaglia interna al sindacato è oggi più che mai insufficiente. Opporsi alla
controriforma del contratto nazionale e all’ulteriore degenerazione concertativa della Cgil
significa non solo avanzare una forte piattaforma alternativa, ma anche investire tutte le
energie in percorsi di autorganizzazione dal basso, che al di là e al di sopra di tutte le barriere
interposte dagli apparati burocratici, sappiano rivolgersi direttamente alla base, nei luoghi di
lavoro, con proposte di autoconvocazione, coordinamenti di delegati e comitati, mobilitazioni
dal basso in tutte le forme possibili. Come nel 1992, come nel 1984, alle capitolazioni dei
vertici e alla cappa concertativa si deve rispondere tornando alla migliore tradizione del
movimento operaio italiano, alla tradizione della democrazia operaia e consiliare che può
rinascere in futuro in reazione alla deriva moderata delle burocrazie.
Come conseguenza della svolta governista e dell’allontanamento dalle concezioni di
classe, il Prc ha perso gran parte dell’influenza e dei rapporti che aveva in passato col
sindacalismo di base. Parallelamente si è sviluppata in diversi settori dei sindacati di base una
risposta che teorizza l’autosufficienza dell’azione sindacale e il rifiuto della battaglia politica,
in una logica di sostituzione del sindacato al partito. Questa situazione, unita alla storica
frammentazione di quest’area, ha limitato di molto la possibilità dei sindacati di base di
svolgere un ruolo propulsivo negli scorsi due anni, anche a causa dei limiti storici di
frammentazione. La situazione creata dall’ulteriore involuzione della Cgil ci deve spingere a
riaprire tutti i possibili terreni di convergenza e azione comune sulla base di piattaforme
condivise e di un metodo ispirato ai criteri della autentica democrazia sindacale, mettendo al
centro i delegati eletti e percorsi di autoconvocazione e autorganizzazione. Non si tratta di
proporre l’ennesima “costituente” in campo sindacale, che diventerebbe immediatamente
terreno di scontro fra organizzazioni e apparati e di contraddizione fra chi è collocato nelle
aree di sinistra della Cgil e della Fiom e chi milita nei sindacati di base, ma di lavorare in
maniera leale e trasparente a piattaforme chiare e condivise e a percorsi di mobilitazione volti
ad allargare il più possibile il fronte della lotta contro il nuovo patto concertativo.
Va quindi sviluppata un’ampia campagna per la democrazia nel sindacato e nei luoghi di
lavoro, che senza cedere in nulla alla propaganda demagogica e reazionaria contro la
cosiddetta “casta” sindacale, avanzi rivendicazioni quali: eleggibilità e revocabilità dei
funzionari da parte dei lavoratori; salario operaio a tutti i livelli; allargamento della
rappresentatività e dei poteri delle Rsu, abolizione delle quote riservate a Cgil Cisl e Uil nelle
Rsu, apertura delle candidature a tutti coloro che lo richiedono, aumento del numero di
delegati; effettiva libertà di organizzazione con l’abolizione delle norme antidemocratiche che
limitano i diritti di assemblea per le organizzazioni non firmatarie dei contratti nazionali;
consultazioni vincolanti e democratiche dei lavoratori interessati su piattaforme ed accordi,
con la possibilità di far conoscere con pari dignità le diverse posizioni. La rappresentatività
del sindacato e dei delegati deve essere misurata solo ed esclusivamente in base alla volontà
dei lavoratori, liberamente espressa.
La stretta imposta dall’apparato Cgil contro la segretaria Fiom di Milano, costituisce
un’accelerazione e un salto qualitativo nel processo in corso. È chiaro l’intento di provocare
una scissione o un’esodo dalla Cgil da parte dei settori più combattivi, nella Fiom e non solo.
Il messaggio della burocrazia è chiaro: piegarsi o andarsene. Siamo quindi di fronte a uno
scontro decisivo, dal quale sarà impossibile uscire con un compromesso. O la linea della
burocrazia verrà sommersa da un’ondata di rivolta dalla base e dai luoghi di lavoro, oppure
diverrà indispensabile porsi il problema di quale battaglia sarà possibile in una Cgil
normalizzata e definitivamente soggiogata al Pd. La deriva moderata crea il rischio di una
rottura che potrebbe essere la più profonda dai tempi della rottura fra Cgil e Cisl del 1947.
Tanto più sarà decisa la nostra battaglia oggi, quanto più sarà possibile evitare dispersioni e
demoralizzazione e legarci in modo indissolubile alle migliaia di lavoratori e delegati, non
solo nella Fiom, che rifiuteranno gli ultimatum burocratici e lotteranno per mantenere aperta
la battaglia di un sindacalismo di classe, democratico e di massa nel nostro paese.

Il mezzogiorno fra degrado e rivolta

La situazione nel mezzogiorno sta raggiungendo livelli intollerabili. La borghesia italiana
si è dimostrata completamente incapace di dare una prospettiva di sviluppo economico e
sociale. Dopo l’epoca dell’industria di Stato e delle “cattedrali nel deserto”, chiusa con il
processo di privatizzazione e smantellamento dell’industria pubblica a partire dalla fine degli
anni ’80, è stata la volta dei piani di “sviluppo” fondati sui vari patti d’area e sui
finanziamenti europei. Ancora una volta, mentre si comprimevano salari e diritti di lavoratori,
si dava spazio a una imprenditoria predona e parassitaria, votata a una logica di saccheggio
del territorio e delle risorse umane, che investiva a costo zero per poi ritirarsi dal territorio
non appena finivano gli incentivi lasciando la situazione immutata.
Da tempo ormai la questione meridionale non si può porre semplicisticamente in termini di
lotta all’arretratezza. Il capitalismo del mezzogiorno, in particolare quello criminale, è
pienamente inserito nei flussi economici e finanziari internazionali, fruisce di tutte le
opportunità derivanti dal controllo del territorio, dai legami politici stabiliti ai massimi livelli
(anche fuori dall’Italia), si inserisce in tutti i settori dell’economia, come dimostra la vicenda
dei rifiuti in Campania, ricicla i propri giganteschi profitti sulle piazze finanziarie
“rispettabili”.
A fronte di questa situazione vediamo il rinascere di un movimento antimafia che dimostra
come nonostante tutto settori importanti particolarmente fra i giovanissimi siano alla ricerca
di un’alternativa. Negli scorsi anni il mezzogiorno ha visto alcune delle lotte più significative
e radicali, dalla Fiat di Termini Imerese nel 2002, a Melfi, a Scanzano Ionico, ad Acerra, al
porto di Gioia Tauro.
La lotta contro le mafie non può essere condotta né come lotta per una astratta “legalità”;
lo stesso concetto di “antimafia sociale” va come minimo qualificato, pena il rischio di cadere
in una logica volontarista generosa ma inefficace rispetto alla scala del problema. Le mafie
possono essere sconfitte solo se vengono aggredite le radici fondamentali del loro potere, che
sono in ultima analisi le radici stesse del capitalismo italiano. Il potere criminale vive sul
degrado sociale, sul controllo di enormi risorse economiche, sulla compenetrazione con
l’apparato statale, la lotta alle mafie è quindi innanzitutto lotta di classe.


La centralità della classe lavoratrice, ieri, oggi, domani

Con la sconfitta del movimento operaio occidentale nei primi anni ’80 e il successivo
crollo dei regimi dell’Est, si è aperta una nuova fase sul piano economico e geopolitico. Il
modo di produzione capitalistico che usciva trionfatore dalla “guerra fredda” ne traeva
vantaggio in varie direzioni. Un vantaggio economico e commerciale era determinato
dall’apertura di nuovi mercati nei paesi del vecchio blocco “socialista”, parallelamente sul
piano politico si assisteva a un indebolimento progressivo delle organizzazioni del movimento
operaio e della sinistra anticapitalista.
In un contesto del genere l’imperialismo non aveva più freni nell’imporre la propria
volontà e la guerra tornava ad essere la condizione normale del capitalismo.
Il profondo processo di riorganizzazione capitalista che ne è scaturito, se da una parte
produceva una estrema finanziarizzazione dell’economia e una gigantesca delocalizzazione
delle forze produttive, dall’altra determinava una concentrazione della ricchezza senza
precedenti. A questo faceva da contraltare un gigantesco processo di impoverimento e
precarizzazione del proletariato e delle classi subalterne.
Alla deindustrializzazione che si produceva nelle zone centrali del capitalismo faceva da
contrappeso una rapida industrializzazione in altre zone del mondo (Asia in particolare). Ed è
così che il proletariato industriale che pure si è accresciuto su scala mondiale è più “diluito” e
“disperso” in Europa, in Italia più che altrove.
Da una parte la manifattura si spostava alla ricerca di bassi salari, dall’altra parte le nuove
tecnologie favorivano una forte scomposizione del ciclo produttivo e un ridimensionamento
dei siti industriali nel vecchio continente (oltre che negli Usa).
La grande fabbrica con decine di migliaia di operai su cui si è appoggiato per decenni il
movimento operaio organizzato ha così subito un declino oggettivo. Sono nate nuove figure
lavorative. La classe lavoratrice non è più quella degli anni ’70. Sulla base di questa
affermazione quasi banale si sono costruite varie scuole di pensiero.
In particolare una, che per anni ha avuto grande eco nel nostro partito, ha tentato di dedurre
da una descrizione puramente sociologica determinati comportamenti politici. Secondo i
“teorici della moltitudine”, la classe lavoratrice è soggetto antagonista in virtù della propria
conformazione sociale e non per il ruolo che occupa nel sistema di produzione capitalista.
Questa concezione oltre ad essere profondamente antimarxista rappresenta una negazione
della realtà e dell’esperienza viva del movimento operaio fin dalle sue origini.
Secondo questa idea falsamente oggettiva se ne deduce che la rivoluzione si sarebbe
dovuta affermare lì dove il proletariato era maggiormente concentrato (e cioè nei paesi
capitalisti sviluppati), e non certo nella Russia “arretrata” e più in generale nei paesi coloniali
come invece è avvenuto. Sarebbe utile rileggere alcuni passaggi di Gramsci sulla rivoluzione
in occidente per gettare più luce sull’argomento.
Per altro le trasformazioni del capitale e le conseguenti mutazioni del lavoro dipendente
non sono una novità degli ultimi 20-30 anni. Già Marx nel Manifesto spiegava come il
capitalismo ha bisogno di rivoluzionare costantemente le forze produttive.
L’avvento del fordismo ha ad esempio prodotto un nuovo tipo di lavoratore, l’operaio della
catena, l’”operaio massa” che in una prima fase rappresentava la disperazione dei dirigenti
sindacali dell’epoca. Spesso e volentieri si trattava di un lavoratore proveniente dalle zone
depresse del paese, di recente proletarizzazione, privo di tradizioni politiche e sindacali, senza
alcuna coscienza di classe e che soprattutto odiava la fabbrica e la propria condizione di
operaio.
Una figura molto diversa dalla gran parte degli attivisti sindacali dell’epoca che erano:
operai di mestiere, che non solo si identificavano con la propria fabbrica ma erano orgogliosi
della propria condizione.
Oggi sono tutti unanimi nel dire che quel soggetto considerato privo di coscienza ebbe un
ruolo centrale nell’Autunno caldo e nelle grandi lotte degli anni ’70.
Similmente in futuro ci saranno soggetti oggi considerati non conflittuali che
raccoglieranno il testimone delle lotte; non saranno necessariamente gli operai industriali a
muoversi per primi e non è accettabile identificare la classe lavoratrice solo con queste
categorie di lavoratori. Vedremo i precari dei call-center, del servizio pubblico, degli
ipermercati, dei trasporti, e tutte quelle figure del lavoro intellettuale che subiscono un rapido
processo di proletarizzazione e le cui condizioni si precarizzano ogni giorno di più, rendersi
protagonisti di lotte altrettanto radicali.
Come diceva il padre dell’operaismo italiano, Raniero Panzieri: dall'analisi del "livello del
capitale" non si può dedurre l'analisi del "livello della classe operaia"
I grandi cicli di lotte non sono l'espressione di un dato sociologico ma il prodotto di
complessi processi strutturali e sovrastrutturali, che in alcuni momenti si saldano e
determinano quel salto di coscienza politica che assume un carattere dirompente sugli
equilibri dominanti. L’aspetto politico-soggettivo e più precisamente il ruolo del partito
operaio assume un’importanza enorme da questo punto di vista.
Il capitalismo è certamente cambiato in questi anni, come è cambiata la classe ma ciò che
non sono mutate sono le leggi fondamentali del sistema che Marx analizzava già un secolo e
mezzo fa.
Il marxismo ha certo bisogno di essere aggiornato ma, come diceva Gramsci, a partire
dalle sue basi.
La struttura di classe non dice tutto, per quanto è importante indagarla per trarne
conclusioni di tipo politico-organizzativo o tattico. Ma il ruolo decisivo della classe
lavoratrice deriva dalla centralità dell’estrazione del plusvalore nell'ambito della società
capitalista. Questo era e questo è.
Lo sfruttamento non è qualcosa che riguarda il passato ma ha assunto caratteristiche
sempre più brutali nel lavoro dipendente come in quello “parasubordinato” o che
ingiustamente viene definito autonomo.
Tutto questo produrrà nuovi conflitti antagonisti nel cuore del sistema che porranno
oggettivamente le basi per il superamento del capitalismo.
Da qui deduciamo sul piano teorico l’importanza e il ruolo di un moderno partito
comunista che, libero dalle incrostazioni dello stalinismo, si proponga come organizzazione
generale della classe lavoratrice e di tutti gli sfruttati.


Riaprire il dibattito sul programma, nel Prc e fra i lavoratori

Da quasi un decennio il nostro partito ha di fatto chiuso qualsiasi tentativo di discussione
programmatica complessiva. Gli anni della “sbornia” movimentista, durante i quali veniva
esplicitamente teorizzato il rifiuto di qualsiasi piattaforma in nome della “contaminazione” e
della “crescita del movimento come fine del movimento stesso” sono stati seguiti dagli anni
della collaborazione col centrosinistra, durante i quali il partito ha dissolto ogni residuo
profilo rivendicativo e programmatico autonomo, subordinando le proprie parole d’ordine alla
necessità della continua mediazione con le forze dell’Unione. È stata la fase mortificante e
fallimentare nella quale il famigerato “Programma dell’Unione” veniva sbandierato in modo
sempre più patetico nel tentativo di dare un’identità al partito mentre si sprofondava nella
palude governista.
Tale impostazione ha continuato a vivere dopo la caduta di Prodi e persino, assurdamente,
dopo la rottura con Veltroni, poiché la stessa logica fallimentare è stata alla base della
mediazione con le altre forze dell’Arcobaleno.
Lavoriamo per gettarci definitivamente alle spalle quella fase e per riaprire un forte
dibattito, nel partito e fra i lavoratori, su quale programma sia necessario per contrapporsi alle
destre. Senza pretesa di esaustività, indichiamo alcuni punti di partenza imprescindibili.

1. Questione salariale. Il crollo del potere d’acquisto di salari e stipendi va affrontato con
rivendicazioni che agiscano su diversi livelli, in una logica di ricomposizione del ventaglio di
condizioni salariali e normative sulle quali è stata frantumata la classe lavoratrice. Va
rivendicato un salario minimo intercategoriale, fissato per legge e non solo nei contratti, che
costituisca la soglia minima al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro in nessuna forma
può scendere. Tale salario di 1000 euro al mese dovrebbe costituire la base sulla quale
parametrare tutta la condizione salariale definita dai contratti nazionali, dimodoché
rivalutandosi il salario minimo trascini verso l’alto l’intera struttura salariale, costituendo così
la base di una nuova scala mobile.
Parallelamente vanno rivendicati forti aumenti salariali su basi egualitarie (300 euro come
indicazione di base) come mezzo per ridurre il distacco accumulato dai salari più bassi.
Va ribadita l’inderogabilità del contratto nazionale rispetto a qualsiasi tentativo di
sfondamento verso il basso su base territoriale e/o aziendale. La contrattazione articolata deve
essere uno strumento di ulteriore miglioramento e tutela dei lavoratori, non un grimaldello per
aggirare leggi e contratti di valore universale. Va infine riaperta la battaglia per un salario ai
disoccupati, legato al salario minimo legale e indicizzato.
Una forte offensiva sul terreno salariale è indispensabile per riaprire la battaglia per la
riduzione dell’orario di lavoro e contro la flessibilità dilagante, che in molti casi si impongono
ai lavoratori precisamente a causa della intollerabile situazione salariale.

2. Precarietà. Abolizione delle leggi precarizzanti: legge 30, Pacchetto Treu. Conversione
dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Abolizione delle agenzie
di lavoro interinale e ricostituzione di un effettivo collocamento pubblico sotto il controllo dei
lavoratori e delle loro rappresentanze. Introduzione di maggiore rigidità e controllo delle Rsu
e dei lavoratori sull’orario di lavoro in tutte le sue problematiche: part-time, turni, cicli
continui, lavoro domenicale e festivo, turni spezzati, ecc.

3. Sicurezza sul lavoro. La questione sicurezza è innanzitutto questione di potere in
fabbrica. Solo lavoratori tutelati sul piano normativo e salariale possono essere in condizione
di combattere efficacemente le condizioni di rischio sul luogo di lavoro. Nello specifico va
rivendicato l’aumento del numero degli Rls, della loro formazione e soprattutto dei loro
poteri. Diritto degli Rls di interrompere la produzione in presenza di situazioni di rischio.
Elezione degli Rls sulla base di tutti i lavoratori presenti in un determinato sito produttivo.
Abolizione di tutte le forme di subappalto per le imprese che operano nel settore pubblico.
Abolizione della legge 66 che permette lo sfondamento verso l’alto dell’orario di lavoro
giornaliero. Reintroduzione dell’obbligo in forma inderogabile delle 11 ore di riposo tra un
turno di lavoro e l’altro.

4. Per la ripresa della lotta alla guerra, per il ritiro delle missioni militari da tutti i teatri di
guerra. Per la chiusura delle basi Usa e Nato sul nostro territorio, per l’uscita dalla Nato. Lotta
alle servitù militari. Rilanciare il nostro internazionalismo costruendo legami politici e
organizzativi con le esperienze rivoluzionarie più avanzate a livello mondiale, fuori dai limiti
politici e organizzativi della Sinistra europea, fortemente condizionata sul piano politico da
logiche di compatibilità, e fuori dalla logica “campista” che lega le speranze della lotta
all’imperialismo non ai movimenti di massa dei popoli oppressi, ma alle contrapposizioni
diplomatiche e militari fra gli Usa e regimi reazionari come l’Iran o la Russia di Putin, o alle
posizioni del governo cinese, da oltre un quarto di secolo impegnato in una “lunga marcia”
verso la reintroduzione del capitalismo.

5. Immigrazione e diritti. Ci battiamo contro ogni legge che determini clandestinità e
discriminazione e quindi contro la logica dei flussi e delle quote, la quale inevitabilmente
impone il mantenimento di un apparato repressivo che garantisca internamenti ed espulsioni
dei clandestini. Permesso di soggiorno per tutti, diritto di voto in tutte le elezioni per chi
risiede in Italia da un anno, pieno accesso ai servizi sociali, cittadinanza dopo 5 anni di
residenza per chi ne faccia richiesta.

6. Casa. A 10 anni dalla controriforma della legge sulla casa e dall’avvio dello
smantellamento del patrimonio abitativo pubblico, il bilancio è disastroso. L’Italia è il paese
europeo con meno edilizia pubblica, la gran parte delle famiglie è stata gettata in mano alle
banche e alle finanziarie per poter accedere al diritto alla casa. Mentre la speculazione
immobiliare conosce uno sviluppo frenetico, si sta creando una vera e propria emergenza
abitativa.
Questa politica va completamente invertita. Si deve avviare un immediato censimento del
patrimonio abitativo lasciato sfitto dalla speculazione immobiliare e finanziaria. Le grandi
immobiliari vanno espropriate senza indennizzo e le loro risorse vanno impiegate in un piano
di ricostituzione e riqualificazione di un patrimonio immobiliare pubblico che offra case
popolari con canoni non superiori al 10 per cento della retribuzione. Come misura temporanea
contro l’esplosione degli interessi sui mutui a tasso variabile, che sta strozzando migliaia di
famiglie, va istituito un fondo pubblico che garantisca la conversione gratuita di tutti i mutui
delle famiglie che ne facciano richiesta in un prestito a un tasso fisso determinato al di sotto
dei livelli di mercato.

7. Stato sociale, scuola, servizi pubblici. La penetrazione delle logiche aziendaliste
determinata dalle varie riforme Bassanini, Berlinguer e Moratti, ecc. ha causato esclusione di
fatto di una parte della popolazione dai servizi pubblici, aumento dei costi, peggioramento
delle condizioni di lavoro del personale, esternalizzazioni dilaganti, minando fortemente il
principio dell’universalità dei diritti sociali e del servizio pubblico, oggi ulteriormente messa
a rischio dalle proposte federaliste della Lega.
Dobbiamo rilanciare quindi la battaglia per un welfare universale e gratuito, nel quale il
pieno coinvolgimento dei lavoratori e degli utenti garantisca la qualità e la capillarità dei
servizi. Dobbiamo riaffermare il concetto basilare di un welfare rivolto a tutti in quanto
individui titolari del diritto alla salute, alla casa, all’istruzione, ecc. combattendo ogni
tentativo di legare le prestazioni dello stato sociale a logiche familiste o aziendaliste. Tale
battaglia non può essere in alcun modo sostituita dalle logiche del volontariato e del “privato
sociale”, che hanno dimostrato in questi anni di essere pienamente funzionali al processo di
smantellamento dello Stato sociale, nonché spesso responsabili di condizioni di lavoro
inaccettabili dei propri dipendenti.

8. Diritti. La continua aggressione alla legge 194 e ai diritti delle donne non può essere
contrastata in una logica puramente difensiva. In realtà la legge 194 è già ampiamente minata
nelle sue basi. Va pertanto rilanciata sui punti cruciali: estensione e rilancio della rete dei
consultori pubblici, esclusione dai consultori di qualsiasi struttura privata, in particolare
quelle legate alla Chiesa, gratuità degli anticoncezionali, introduzione della RU 486 su tutto il
territorio nazionale, educazione sessuale nella scuola. La legge 194 andrà infine emendata per
chiudere quei varchi che sono stati ampiamente sfruttati da tutte le forze avversarie del diritto
all’aborto e dell’autodeterminazione femminile, primo fra tutti la cosiddetta obiezione di
coscienza, nonché per garantire appieno i diritti delle minorenni.
Unioni civili con parificazione dei diritti e doveri con il matrimonio, legge contro
l'omofobia e la violenza omofobica e possibilità di cambio di sesso anagrafica per i/le
transessuali a inizio del percorso di transizione.
Difesa e completamento della legge 180 (Basaglia) contro i tentativi di reintroduzione di
pratiche coercitive nella cura del disagio mentale. Incremento delle dotazioni organiche
destinate ai dipartimenti di salute mentale pubblici e dei finanziamenti rivolti ai progetti di
inclusione socio-lavorativa delle persone disabili.

9. Opposizione alle “grandi opere” speculative quali la Tav o l’Expo di Milano, alle linee
dei vari piani per i rifiuti e per l’energia, basati su logiche speculative e di saccheggio del
territorio. La battaglia del movimento operaio sui temi della salute, del controllo pubblico del
territorio e dell’ambiente va rilanciata in una logica di classe, che metta al centro il concetto
di nazionalizzazione delle risorse chiave come mezzo per garantire il controllo dei lavoratori e
dei cittadini sul proprio ambiente di vita e di lavoro.

10. Raddoppio immediato dei finanziamenti destinati all'istruzione pubblica. Cancellazione
dell'autonomia scolastica e universitaria, e di tutte le proposte che mirano a trasformare istituti
ed atenei in fondazioni. Taglio di ogni forma di finanziamento alla scuole private o paritarie.
Abrogazione di tutte le controriforme dell'istruzione (Berlinguer, Zecchino, Moratti). Per la
gratuità dell'istruzione e di tutti i servizi a essa correlati (libri, mezzi pubblici, alloggi,
mense...) se essa è un diritto, o è gratuito o non è.
Contro la selezione di classe: rifiuto di ogni forma di doppio binario, di regionalizzazione,
e di sbarramenti come numeri chiusi o test d'ingresso. Innalzamento dell'obbligo all'istruzione
fino a 18 anni, alla divisione tra “arti umanistiche” e “arti meccaniche” va contrapposto un
percorso di studi unico fatto di materie umanistiche, scentifiche e tecniche, a partire un
biennio unico per le scuole superiori. Cancellazione del meccanismo dei debiti-crediti, sia alle
superiori che all'università. Abrogazione immediata del decreto riguardante la reintroduzione
dell'esame di riparazione.
Contro ogni forma di scuola-lavoro. Gli stage, se necessari devono essere retribuiti e sotto
il controllo di rappresentanze sindacali e studentesche. La formazione professionale deve
essere pubblica e non deve essere in alcun modo sostitutiva del percorso scolastico.
Contro l'autoritarismo, per una scuola e un'università democratiche. Pariteticità del
consiglio d'istituto e di facoltà fra le varie componenti, con diritto di revoca dei
rappresentanti. Diritto di assemblea d'ateneo e di facoltà una volta al mese, con conseguente
sospensione delle lezioni. Moltiplicazione degli appelli in università, abolizione ogni forma di
sbarramento.
Per un piano nazionale di edilizia scolastica pubblica. Contro il sovraffollamento, non più
di 20 alunni per classe. Abolizione dell’ora di religione, per una scuola e un'università laica e
scientifica.

11. Pensione pubblica, egualitaria, con ritorno al sistema a ripartizione, riconsegna del Tfr
ai lavoratori e inglobamento dei fondi pensione in un unico sistema Inps. Scorporo delle
prestazioni assistenziali dall’Inps, trasferendole a carico della fiscalità generale.


Proprietà pubblica, nazionalizzazioni, controllo operaio


La crisi finanziaria ha fra le sue conseguenze una crisi dell’ideologia liberale sulla quale
per quasi tre decenni si è fondata la pratica dominante nella cosiddetta “globalizzazione”
capitalistica. Di fronte alla crisi del loro stesso sistema, i rappresentanti del capitale
“riscoprono” l’importanza dello Stato e dell’intervento pubblico per salvare banche e
finanziarie dal fallimento.
Al tempo stesso in America Latina, e particolarmente in Venezuela, Ecuador e Bolivia,
vediamo dopo i decenni del liberismo selvaggio, una inversione di tendenza che sia pure fra
mille contraddizioni vede ritornare in campo una politica di nazionalizzazioni nel terreno
delle risorse energetiche, delle telecomunicazioni e ora, con la nazionalizzazione da parte di
Chavez della acciaieria Sidor (gruppo Techint), la quarta più grande acciaieria del continente
latinoamericano, anche nell’industria pesante, per giunta in un settore attualmente in forte
espansione.
Questa nuova situazione fa tornare in campo quelle che per trent’anni erano state vere e
proprie “parole proibite”, anche a sinistra: nazionalizzazione, esproprio, pianificazione. La
discussione sul programma deve partire precisamente da questo punto. Possiamo riaprire un
dibattito e soprattutto una mobilitazione di massa attorno a parole d’ordine centrate sui
concetti di proprietà pubblica e controllo operaio e popolare dei settori economici strategici.
Nel dopoguerra il movimento operaio italiano conobbe due grandi momenti di discussione
attorno a questi temi. Il primo successivo alla sconfitta del 1948, quando la Cgil lanciò il
Piano del lavoro; il secondo negli anni ’60, quando con primo centrosinistra si avviò il
dibattito sulla “programmazione”. Il Piano del lavoro fu un tentativo della Cgil di uscire da un
duro isolamento e dalla sconfitta politica della sinistra, tuttavia partiva dal presupposto errato
che uno sviluppo della produzione fosse incompatibile con le dinamiche del capitalismo del
dopoguerra, che invece si avviava alla forte espansione del “miracolo economico”; centrato su
obiettivi produttivi, perse qualsiasi implicazione antagonista e antisistema. La
programmazione del centrosinistra costituiva invece un esplicito tentativo di cooptare almeno
un settore della classe operaia nelle logiche del sistema. Per quanto diversi, quindi, quei due
precedenti storici ebbero in comune la caratteristica di non indicare nella pratica il nesso tra
obiettivi parziali e immediati e rottura con le compatibilità del sistema, e quindi con la
prospettiva della trasformazione sociale e del superamento del capitalismo.
Di fronte alla crisi economica e sociale, al fallimento completo delle politiche di
liberalizzazione, all’irrazionalità economica, sociale e ambientale che caratterizza in modo
sempre più evidente questo sistema economico, dobbiamo lanciare una battaglia di massa che
indichi una serie di priorità economiche e di diritti sociali da affrontare con obiettivi unificanti
che leghino la rivendicazione immediata e universale di un diritto, al tema delle basi
economiche per soddisfare tale rivendicazione, del controllo di massa, da parte dei lavoratori
e degli utenti, su tali risorse come unica forma possibile per garantire la soddisfazione dei
bisogni sociali, e per dare una base concreta e comprensibile all’idea della nazionalizzzione e
del controllo operaio, che come detto rinasce oggi in America latina nei punti più avanzati del
conflitto di classe.
Una serie di piattaforme elaborate e discusse a livello di massa su temi quali: diritto
all’istruzione, alla salute; reti di trasporto, acqua, energia, ciclo dei rifiuti, telecomunicazioni,
casa, ecc, che ponga in relazione la definizione dei bisogni, la questione della proprietà statale
e del controllo e gestione di tali risorse economiche andrebbe a costituire un profilo politico e
anche una base di mobilitazione sulla quale ricostuire ciò che più drammaticamente manca
alla sinistra e al nostro partito oggi: un progetto di società che possa legarsi in modo credibile
ai bisogni dei lavoratori e di tutti i settori oppressi della società.
Si tratta quindi di una visione contrapposta a quella di chi propone come sbocco alla crisi
sociale la logica del volontariato, dell’associazionismo più o meno no-profit che in realtà
costituisce l’altra faccia della medaglia dei processi di privatizzazione e sussidiarietà avanzati
in questi anni e che, come già si dimostra in questa fase, è in gran parte integrabile nella
logica lobbistica proposta dal Partito democratico.
Strettamente legato a questi temi è quello della inversione del processo di privatizzazione
che nel giro di 20 anni ha regalato ai privati settori decisivi dell’industria italiana.

“Que se vayan todos!”: per la ricostruzione del partito

Definiamo “svolta operaia” quella che riteniamo necessaria per il rilancio di una vera e
propria nuova rifondazione comunista. Con questa espressione intendiamo sottolineare 1) la
necessità di un programma intransigentemente di classe; 2) la necessità di combattere tutta
quella revisione ideologica che per varie vie tende a sminuire o a negare la centralità della
lotta di classe; 3) la necessità di un partito saldamente insediato nella classe lavoratrice, nel
quale strutture, apparati, gruppi dirigenti, metodi di funzionamento e democrazia interna
vengano subordinati a questo obbiettivo essenziale.
È necessario compiere una vera e propria rivoluzione interna che faccia piazza pulita dei
veleni del carrierismo e dell’istituzionalismo, nonché di tutte le pratiche deteriori legate alle
logiche del partito leggero e d’immagine. Il gruppo dirigente responsabile del disastro deve
essere messo da parte per creare le condizioni di una rinasciia del nostro partito.
I circoli e le federazioni devono diventare innanzitutto luoghi di intervento e di dibattito
politico costante, di studio della società e della condizione sociale, di approfondimento
teorico della storia del movimento operaio, della situazione internazionale, dei punti più
avanzati del conflitto di classe. Solo una militanza organizzata, cosciente, politicamente
consapevole può generare un regime interno autenticamente democratico, nel quale la
democrazia non sia solo un simulacro o un brutta copia di un parlamento borghese.
Gli organismi dirigenti debbono essere selezionati in base a questo criterio. Mantenendo
uno scrupoloso rispetto delle diverse posizioni politiche e del pluralismo, anche gli organismi
più ampli (cpf, cpr e cpn) dovrebbero essere visti non solo come spazi di dibattito e confronto,
ma anche come organismi operativi e di lavoro. Ogni componente di questi organismi
dovrebbe essere inserito in una struttura d’intervento specifica dove esercitare la propria
funzione di dirigente. È questa anche la via migliore per aprire la strada a una selezione dei
gruppi dirigenti basata sulla qualità politica e sulla capacità di costruzione.
Un partito operaio ha assoluta necessità di un forte apparato organizzativo. Tuttavia tale
apparato va selezionato in modo trasparente, democratico e mantenuto sotto un costante
controllo della base e dei militanti. Va introdotto innanzitutto in forma rigida e inderogabile il
criterio del salario operaio a tutti i livelli istituzionali e per qualsiasi incarico di partito. Va
introdotto un meccanismo effettivamente democratico di selezione delle candidature da parte
dei militanti per tutti i livelli elettorali.
Nella scelta dei dirigenti a tutti i livelli vanno privilegiati innanzitutto lavoratori e
compagni giovani che abbiano dimostrato una capacità di costruzione nel proprio contesto
sociale; un delegato Rsu capace di raccogliere consenso nel proprio luogo di lavoro, uno
studente capace di costruire un effettivo intervento nella propria scuola o università, un
attivista protagonista delle vertenze territoriali... questo è il tipo di figura al quale dobbiamo
guardare al momento di scegliere un segretario o di assegnare una responsabilità di una
commissione o di un dipartimento.
Il dirigente deve smettere di essere considerato, come è avvenuto in maniera predominante
in questi anni, come un compagno “parcheggiato” in attesa di candidatura istuzionale alla
prima tornata elettorale utile, ma deve essere la figura di un militante che in maniera
volontaria o, nel migliore dei casi, per un salario modesto, sia disposto a mettersi a
disposizione di un lavoro paziente e spesso oscuro di costruzione, di formazione, di aprire
campi difficili per l’attività dell’insieme dei militanti.
Ogni circolo dovrebbe, con l’aiuto delle strutture superiori, studiare con attenzione il
tessuto sociale, economico e produttivo circostante, costruire relazioni sistematiche con tutte
le realtà lavorative, lavorare alla costruzione di circoli o nuclei in tutti i luoghi di lavoro e di
studio significativi.
Questo non significa trasformare il partito o i circoli in organismi parasindacali, che
discutono solo di salario o precariato. Al contrario, la svolta operaia deve significare lavorare
per portare verso i lavoratori tutte le tematiche politiche, sociali, internazionali, persino
ideologiche, legate alla crisi sociale e alla nostra prospettiva di lotta rivoluzionaria per il
cambiamento della società.
È necessario organizzare una discussione in tutto il partito riguardo al nostro quotidiano
Liberazione, che culmini in una conferenza per il rilancio del quotidiano su basi
completamente nuove. Liberazione può vivere solo se diventa effettivamente giornale di
partito, ossia espressione viva dei circoli, dei militanti e dell’intera area alla quale il partito si
rivolge. Le competenze professionali e le risorse tecniche esistenti debbono essere messe al
servizio di un progetto che si fondi sull’idea che i 2000 circoli del partito possono essere
occhi, orecchie e voce e braccia di un grande quotidiano comunista, capace di parlare un
linguaggio accessibile e non elitario, di affiancare il lavoro di costruzione del partito con una
propria capacità di inchiesta e di agitazione politica, di fare formazione e informazione per i
nostri compagni e per il popolo della sinistra.
Va infine ricostruita una seria tradizione di autofinanziamento del partito, sia interna che
esterna.

Per un partito di lotta e di opposizione!

Ci aspetta una lunga battaglia controcorrente. L’emarginazione del partito da qualsiasi
prospettiva di governo non può essere vista come una semplice parentesi dalla quale uscire al
più presto. Il Prc si ricostuirà nelle lotte e in una battaglia coerente di opposizione al Pdl e al
Pd; ogni altra prospettiva porta inevitabilmente alla dissoluzione politica. Oggi siamo ridotti
elettoralmente ai minimi termini, ma esiste un enorme potenziale per la nostra ricostruzione,
un potenziale che si esprimerà nei prossimi anni nei conflitti sociali che si produrranno in
reazione alle politiche della destra. Nelle grandi battaglie che si preparano tornerà al centro la
necessità imprescindibile di un partito che rappresenti e organizzi in maniera coerente i
lavoratori e gli sfruttati. La nuova rifondazione comunista devc guardare con fiducia a questa
prospettiva: immergiamoci con umiltà e con fiducia nella nostra gente, e scopriremo quelle
risorse inesauribili di combattività, coscienza di classe e capacità di sacrificio sulle quali da
sempre si sono costruite le migliori battaglie dei comunisti.


Claudio Bellotti, direzione nazionale Prc, Alessandro Giardiello, esecutivo nazionale Prc,
Simona Bolelli, comitato politico nazionale Prc, Mario Iavazzi, comitato politico nazionale
Prc, Jacopo Renda, comitato politico nazionale Prc, Alessio Vittori, collegio nazionale di
garanzia Prc, Antonio Santorelli, segretario circolo Avio, Prc Napoli, Paolo Brini, comitato
centrale Fiom, Prc Modena, Bruno Rossi, Prc Genova, Dario Salvetti, coordinamento
nazionale Gc, Serena Capodicasa, coordinamento nazionale Gc, Giovanni Savino,
coordinamento nazionale Gc, Matteo Molinaro, Coordinatore nazionale Csp (Comitato in
difesa della scuola pubblica), Andrea Tavano, comitato poltico federale Prc Torino, Maria
Lucia Bisetti, circolo di Bussoleno, Prc Torino, Josè Salinas, circolo San Salvario, Prc Torino,
Damiano Vespoli, Prc Alessandria, Stefano Ingala, resp. cittadini immigrati, Prc Biella,
Alessandro Riatti, direttivo circolo Levante, Prc Genova, Franco Ferrara, direttivo circolo
Levante, Prc Genova, Benni Abarbanel, circolo centro storico, Prc Genova, Cristian Briozzo,
circolo di Albenga, Prc Savona, Marco Speranza, comitato politico federale, Prc Imperia,
Sonia Previato, direttivo provinciale, Prc Milano, Francesco Bavila, Cpr Lombardia, Prc
Milano, Paolo Grassi, Cpr Lombardia, Prc Milano,, Giuseppe Lania, collegio prov. di
garanzia, Prc Milano, Pietro Sassi, comitato politico federale, Prc Milano, Fortunato Lania,
comitato politico federale, Prc Milano, Angelo Raimondi, comitato politico federale, Prc
Milano, Roberto Sarti, comitato politico federale, Prc Milano, Sara Parlavecchia, comitato
politico federale, Prc Milano, Francesca Esposito, circolo trasporti (Atm), Prc Milano,
Antonio Forlano, circolo trasporti (Ups), Prc Milano, Antonio Mangione, circolo trasporti
(Appalti ferroviari), Prc Milano, Emanuele Cullorà, coordinamento provinciale Gc Milano,
Mara Ghidorzi, coordinamento provinciale Gc Milano, Alessio Marconi, coordinatore Csp
Milano, Francesca Interlandi, direttivo circolo Affori, Prc Milano, Ivan Piacentini, Gc circolo
Affori, Milano, Vincenzo Di Blasi, circolo Legnano, Prc Milano, Marzio Dotti, circolo
Legnano, Prc Milano, Enrico Duranti, comitato politico federale Prc Crema, Andrea
Bettinelli, Prc Crema, Carola Giannino, coordinatrice Csp Crema, Valerio Interlandi, Prc
Lodi, Ambra Romio, coordinatrice Csp Lodi, Irina Bezzi, coordinatrice Gc Pavia, Alessandro
Villari, coordinamento provinciale Gc Pavia, Orietta Piazza, comitato politico federale Prc
Pavia, Miguel Suescun, Prc Pavia, Davide Ronzoni, comitato politico federale, Prc Lecco,
Mauro de Michele, coordinamento Gc Brianza, Alberto Bertoli, comitato politico federale Prc
Bergamo, Marco Giovannessi, comitato politico federale Prc Brescia, Luisa Belli, comitato
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politico federale, Prc Varese, Stefano Bernasconi, comitato politico federale, Prc Varese,
Laura Ponte, comitato politico federale, Prc Padova, Silvio Zanella, circolo Bassano del
Grappa, Prc Vicenza, Gabriele Donato, comitato politico regionale Friuli Venezia Giulia, Prc
Trieste, Stefano Pol, comitato politico regionale Friuli Venezia Giulia, Prc Udine, Marco
Vicario, coordinamento provinciale Gc Trieste, Freya Behrens, circolo Primo Maggio, Prc
Trieste, Patrick del Negro, comitato politico federale, Prc Udine, Luca Cesarano,
coordinamento provinciale Gc Udine, Irene Ceccotti, coordinamento provinciale Gc Udine,
Orfeo Cortella, direttivo circolo Cividale del Friuli, Prc Udine, Davide Bacchelli, Cpr Emilia
Romagna, Prc Bologna, Francesco Giliani, Cpr, Emilia Romagna, Prc Modena, Carlo Simoni,
comitato politico federale Prc Bologna, Gianplacido Ottaviano, segretario circolo operaio
Bonfiglioli riduttori, Prc Bologna, Serafino Pirillo, circolo operaio Bonfiglioli riduttori, Prc
Bologna, Simone Raffaelli, coordinamento provinciale Gc Bologna, Stefania Pieri, circolo
universitario, Prc Bologna, Djordje Sredanovic, circolo universitario, Prc Bologna, Orlando
Maviglia, circolo S. Donato, Prc Bologna, Rosanna Minadeo, circolo Savena, Prc Bologna,
Domenico Minadeo, circolo Savena, Prc Bologna, Sara Signoretti, circolo centro storico, Prc
Bologna, Ilaria Pietrafesa, circolo centro storico, Prc Bologna, Gianpietro Montanari, circolo
Borgo Panigale, Prc Bologna, Antonio Buongiorno, coordinamento Csp Bologna, Andrea
Davolo, direzione provinciale Prc Parma, Filippo Agazzi, coordinatore provinciale Gc Parma,
Deborah Pezzani, segretaria circolo di Monchio-Palanzano, Prc Parma, Stefano Quaglia,
segretario circolo "Musci" San Lazzaro, Prc Parma, Ferdinando De Marco, comitato politico
federale, Prc Parma, Davide Ledda, comitato politico federale, Prc Parma, Pietro Previtera,
collegio di garanzia federale, Prc Parma, Daniele Chiavelli, coordinamento provinciale Gc
Parma, Federico Toscani, coordinamento provinciale Gc Parma, Remo Di Legge, comitato
politico federale Prc Modena, Riccardo de Giuli, comitato politico federale Prc Modena, Luca
d’Angelo, coordinamento provinciale Gc Modena, Antonino Grimaldi, circolo Castelfranco
Emilia, Prc Modena, Francesco Santoro, collegio provinciale di garanzia, Prc Modena,
Daniele Prampolini, segretario circolo aziendale Terim "Lenin", Prc Modena, Piero Ficiarà,
circolo aziendale Terim “Lenin”, Prc Modena, Davide Tognoni, comitato politico federale,
Prc Reggio Emilia, Marco Paterlini, comitato politico federale, Prc Reggio Emilia, Gianluca
Pietri, comitato politico federale, Prc Reggio Emilia, Alessandra Lo Fiego, coordinamento
provinciale Gc Reggio Emilia, Giorgio Chiaranda, comitato politico federale, Prc Ferrara,
Antonio Vergoni, coordinamento provinciale Gc Ferrara, Ares Pedretti, circolo di Comacchio,
Prc Ferrara, Nima Zarb Haddadi Azari, circolo Primo, Prc Imola, Alessia Piras, comitato
politico federale, Prc Cesena, Silvia Strada, circolo S. Togni, Prc Cesena, Marco Barducci,
comitato politico federale Prc Firenze, Tatiana Chignola, coordinamento provinciale Gc
Firenze, Giulio Trapanese, coordinamento provinciale Gc Pisa, Fulvio Battisti, comitato
politico federale, Prc Grosseto, Chiara Tondani, circolo Prc di Pontremoli (Ms)., Manuel
Musetti, Giovani Comunisti, Lucca, Gabriele Vannucchi, coordinamento provinciale Gc
Pistoia, Gemma Giusti, comitato politico federale, Prc Fermo, Luca Morganti, comitato
politico federale, Prc Ascoli Piceno, Antonino Rapisarda, circolo Pesaro centro, Prc Pesaro-
Urbino, Stefano Meacci, direttivo del circolo Prc di Villastrada Umbra, Perugia, Paolo
Cipressi, comitato politico regionale Lazio, Prc Roma, Gabriele D’Angeli, coordinamento
provinciale Gc, Roma, Alessia Càndito, coordinamento provinciale Gc, Roma, Ion Udroiu,
circolo S. Lorenzo, Prc Roma, Marianna D’Angeli, circolo Ciampino, Prc Roma, Ilaria Lolini,
circolo Torpignattara, Prc Roma, Filippo Tomili, comitato politico federale Prc Tivoli, Davide
Dell’Isola, circolo di Genzano, Prc Castelli, Giampiero Di Fiore, comitato politico federale
Prc Frosinone, Domenico Mazzieri, circolo Cassino, Prc Frosinone, Giulio Capponi, comitato
politico federale, Prc Teramo, Alfonso Capodicasa, Prc Pescara, Terenzio De Benedictis, Prc
L’Aquila, Patrizia Fiammelli, circolo Che Guevara, Prc Campobasso, Giacomo Gattozzi,
circolo Che Guevara, Prc Campobasso, Mario Sannino, segretario circolo Casalnuovo, Prc
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Napoli, Luigi Mannini, segretario circolo Agerola, Prc Napoli, Vittorio Saldutti, Cpr
Campania, segretario circolo universitario, Prc Napoli, Piero di Nardo, collegio provinciale di
garanzia, Prc Napoli, Grazia Bellamente, dir. circolo universitario, Prc Napoli, Livio
Barbagallo, coordinamento provinciale Gc, Napoli, Massimiliano Rielli, coordinamento
provinciale Gc Salerno, Margherita Colella, comitato politico federale, Prc Caserta, Antonio
Erpice, comitato politico federale, Prc Caserta, Gianluca Limatola, comitato politico federale,
Prc Caserta, Lucia Erpice, comitato politico federale, Prc Caserta, Lello Mele, centro sociale
Spartaco, Santa Maria Capua Vetere (CE), Girolamo Petracco, circolo Capodrise, Prc Caserta,
Giuseppe Ventriglia, circolo Calvi Risorta, Prc Caserta, Luigi Piscitelli, Coordinatore Gc S.
Maria a Vico, Caserta, Lino Canta, circolo Prc Caserta, Matteo Notarangelo, comitato politico
federale, Prc Foggia, Giuseppe Palestra, comitato politico federale, Prc Taranto, Emanuele
Miraglia, circolo P. Impastato-Casarano, Prc Lecce, Michele Satriano, coordinamento
provinciale Gc Matera, Antonio Centonze, comitato politico federale, Prc Matera, Giampiero
Palermo, comitato politco regionale Calabria, Lidia Luzzaro, comitato politico federale,
Cosenza,, Luigi Orsini, Coordinamento provinciale GC, Cosenza, Massimiliano Mezzatesta,
segretario circolo P. Impastato di Molochio, Prc Reggio Calabria, Ilario Pinnizzotto, circolo
Molochio, Prc Reggio Calabria, Giannatonio Currò, direttivo provinciale Prc Messina,
Fabrizio Crescenti, comitato politico regionale Sicilia, Prc Messina, Camillo Navarra,
segretaro circolo di Castellammare del Golfo, Prc Trapani, Mauro Piredda, coordinatore
provinciale Gc Sassari, Emilio Fois, segretario circolo Putifigari, Prc Sassari, Gabriele Ara,
coordinamento provinciale Gc Sassari, Gianfranca Oronesu, circolo studentesco Majakovskij
Sassari, Antonio Budroni, circolo studentesco Majakovskij Sassari, Manuel Scudu, circolo di
Posada, Prc Nuoro, Fernando d’Alessandro, circolo Prc Londra.