VII° CONGRESSO

Documento De Cesaris
Disarmiamoci
Liberi/e, pacifici/che, per un congresso di discontinuità e radicalità



La proposta politica

1. Un congresso di discussione e confronto

Ci serve un congresso di discontinuità. Un congresso di routine, la cui unica finalità, dopo una
sconfitta elettorale di portata storica, sia nella gara a chi conquista i ‘posti di comando’, è destinato
ad accentuare tutte le dinamiche negative che hanno investito Rifondazione comunista e messo
nell’angolo la sinistra.
Discontinuità nel modo di fare i conti con la dura realtà che le elezioni ci hanno consegnato con la
violenza di uno schiaffo; discontinuità con le pratiche, fino a oggi per lo più oligarchiche e auto-
referenziali che ci rendono simili al resto del mondo politico; discontinuità nella formazione dei
‘gruppi dirigenti’ e nelle modalità del loro funzionamento: è questo che ci serve, un congresso di
netta e radicale discontinuità. Questa scelta deve riprendere, rafforzare ed estendere il rinnovamento
del pensiero e delle pratiche che ha segnato positivamente la storia di RC e che ha conosciuto una
parabola discendente negli ultimi anni. Sono prevalsi allora il primato ‘governamentale’ e la
tentazione di risolvere, in termini di tatticismi e di alleanze tra ceti politici, la sfida della costruzione
di una nuova sinistra e di una nuova visione della società: una rinnovata relazione tra libertà,
liberazione e uguaglianza (uguali in quanto persone, diversi/e in quanto individualità); l’apertura
dell’orizzonte dei ‘beni comuni’; la delineazione di una vera res pubblica, di una ‘cosa pubblica’ -
di un altro mondo possibile.
Il congresso di Venezia e la conferenza di Carrara avevano posto al centro del nostro dibattito e del
confronto di RC con le altre forze della sinistra temi essenziali per mantenere in vita, in quest’epoca
storica attraversata da inedite e a volte ancora inesprimibili contraddizioni, la scommessa di un
pensiero critico e di un agire politico di sinistra: la ridefinizione del rapporto con i movimenti e la
critica femminista dell’intreccio tra patriarcati (vecchi e nuovi) e globalizzazione capitalista; la
nonviolenza come decostruzione del potere e dei poteri; la critica della forma-partito - a cominciare
dalle separatezze e presunzioni che contraddistinguono in maniera crescente i comportamenti dei
gruppi dirigenti; la ricerca di nuove modalità dell’azione politica, di nuovi spazi pubblici, di
democratica partecipazione popolare.
Tutto ciò si è perso ed è stato contraddetto dalla frenesia politicista, che ha permeato la nostra
azione alla ricerca di alleanze e di equilibri di governo. L’illusione di rendere permeabile l’Unione e
il governo Prodi alle istanze dei movimenti si è trasformata in realpolitik, nel compromesso su tutto,
a danno delle esperienze di movimento straordinariamente avanzate come quelle del ‘No Dal
Molin’.
Ripartire da dove ci siamo fermati e garantire il rilancio autentico del processo innovativo di RC: a
questo ci serve il congresso.
Dopo una sconfitta di dimensioni inedite, e inattese, avremmo dovuto chiuderci in un ‘silenzio
zapatista’ necessario per avviare una riflessione profonda e un ascolto non confinato nelle nostre
anguste stanze, al fine di proporre una via d’uscita unitaria indispensabile per un rafforzamento di
RC. Senza RC ogni processo a sinistra rischia di ridursi a una realtà depauperata.
Al congresso non si può chiedere a nessuno/a il solo gesto di schierarsi: per tutti/e noi è il tempo
dell’assunzione di responsabilità dopo aver discusso ed esserci confrontati/e su analisi, riflessioni,
proposte.
Abbiamo subito una sconfitta drammatica. Non serve minimizzarne la dimensione storica.
Dobbiamo indagare i nostri errori: dobbiamo assumercene collettivamente la responsabilità,
partendo da chi ha rivestito ruoli dirigenti politici e istituzionali. Serve una discussione che vada
oltre i confini di RC.
Un congresso di ‘avvicinamento’: la precipitazione del dibattito congressuale è necessaria ma non
sufficiente. La nostra proposta è di istruire una discussione di largo respiro, libera da costrizioni di
schieramento.
Per questo motivo, avanziamo una proposta: il dibattito del congresso di luglio sia considerato
come la prima fase di un percorso, come l’apertura di un confronto che si rivolge anche all’esterno
del partito. Un congresso di avvicinamento ai e di esplorazione dei difficili problemi dinnanzi a cui
siamo. Un congresso di ricerca collettiva che riconosca la nostra inadeguatezza a intendere a fondo
la società e i mutamenti che la attraversano e, perciò, non pretende di fornire risposte ultime e
proposte definitive.
Per disarmare il dibattito interno, assumiamo un impegno: nel congresso di luglio non si elegga il/la
segretario/a del partito e con un atto di responsabilità collegiale si chiami alla direzione e alla
gestione soprattutto gli/le esponenti delle realtà territoriali di partito, senza seguire criteri di
rappresentanza per componenti cristallizzate. Analoghe gestioni unitarie vengano sperimentate nei
circoli, nelle federazioni, nei regionali, a sancire il comune riconoscimento della non-
autosufficienza di tutte le parti ‘in campo’.
L’immediata mobilitazione sociale è fondamentale per costruire l’opposizione alle destre a livello
territoriale così come a quello delle politiche generali. Sul tema di fondo della sinistra e del
carattere del processo unitario fermiamoci a riflettere, continuiamo una discussione approfondita
tra di noi ma anche e soprattutto con chi è fuori del partito e fuori dai partiti. Ripartiamo
dall’impegno collettivo per salvaguardare il patrimonio di RC e la sua cultura, avendo cura della sua
esistenza - necessaria per un progetto di costruzione di una sinistra plurale. Una sinistra che non
può e non deve nascere dall’alto, da operazioni di ‘ingegneria politica’: non una Costituente della
Sinistra ma un’opposizione - sociale e politica - costituente di un processo di rifondazione della
sinistra.

2. Indagare le cause della sconfitta
La scomparsa della sinistra dal parlamento italiano è un passaggio epocale e segna uno spartiacque,
dopo il quale o si ha la capacità di mettersi radicalmente in discussione o ci si condanna al
definitivo declino. Non si può leggere la sconfitta con lenti che guardano solo allo Stato nazionale.
Le sue cause di fondo rimandano alla globalizzazione neoliberista e a quella che abbiamo chiamato
‘rivoluzione restauratrice’. È un vento gelido che soffia verso destra, che distorce e cambia valori,
coscienze, intelligenze in Europa e nel mondo intero - le elezioni britanniche ne sono l’ennesimo
tassello; spira attraverso guerre che non accennano a trovare vie d’uscita, che spingono il mondo
intero sull’orlo dello scontro di civiltà; lo si avverte nei cambiamenti climatici e nei disastri
ambientali - e, poi, nello spettro della recessione globale, nella crisi finanziaria dei mutui subprime,
nell’impennata dei prezzi dei generi alimentari e nella crisi energetica. Non esiste più nessuna
certezza sul futuro.
La paura è divenuta la cifra del nostro tempo: la paura dell’altro, la paura del futuro, il panico che
disarticola linguaggio e immaginazione. Noi siamo stati sconfitti da classi dominanti che hanno
offerto a questa diffusa insicurezza, da essi stessi prodotta, lo sbocco della contrapposizione
all’altro vissuto come nemico, costruendo identità tramite l’immaginario della guerra di civiltà e
dell’opposizione al ‘diverso’, in cui violenza e sopraffazione divengono spesso lo strumento per
riacquistare l’identità perduta.
Ha scritto l’esecutivo dei/delle Giovani comunisti/e che «il paese scopre che molti degli operai
sindacalizzati del Nord hanno votato per la Lega: è lo stesso paese che li ha ignorati quando con la
cieca politica economica del governo Prodi ogni redistribuzione è stata negata, ogni possibilità di
politiche d’alternativa cancellata a priori». Per questo si è prodotta «la chiusura nella dimensione
territoriale, la scorciatoia della competizione violenta contro ogni diversità, il giustizialismo, la
sfiducia nella politica».
Il risultato tanto paradossale quanto reale è che RC e la sinistra sono apparsi quali difensori dello
status quo, conservatrici; le classi dirigenti invece quali portatrici del cambiamento.
Nel nostro paese è avvenuto ‘un livellamento del senso comune’ intriso di egoismo sociale, non
confinabile solamente negli strati ricchi del nostro paese da sempre insofferenti a politiche di
giustizia sociale. L’egoismo si è generalizzato così come il disprezzo per le regole e per tutto ciò
che è ‘pubblico’. Le acque del ‘berlusconismo’ sono filtrate anche nella PD, nell’intento di
conquistare i padroni, piccoli e grandi, del Nord-est. L’Italia ha bisogno di una cultura che
sconfigga, soprattutto tra le nuove generazioni, i germi dell’egoismo e della ‘cura del particulare’.
Il populismo, nei suoi variegati aspetti, è il linguaggio con cui le destre parlano della e alla
sofferenza e solitudine, del e al profondo ‘disagio di civiltà’ delle persone.
Dobbiamo indagarlo a fondo. Esso si esprime nel capo carismatico, nel padre benevole o nell’uomo
di successo, personificati volta a volta da Berlusconi; si manifesta nell’antipolitica di Grillo e nel
giustizialismo di Di Pietro; in Veltroni si celebra nel rapporto diretto del ‘leader buono’ con il
popolo, legittimato attraverso primarie costruite con i media. Il populismo è facilitato anche dalla
sconfitta di RC, che con le sue battaglie per la democrazia rappresentativa è fra gli argini alle derive
plebiscitarie. Dobbiamo rispondere ai fenomeni di protesta, dando di nuovo senso alla politica come
ricerca di soluzioni collettive a problemi collettivi: la critica della politica come potere, intrapresa a
Venezia, è una base per superare la separatezza tra politica e società.

3. I nostri errori: il governo, il PD
Il governo ha assunto per RC il carattere della sfida, mai quello della certezza. La sfida era nel
cambiamento, che non è avvenuto: la sfida è stata persa. La speranza nella permeabilità del governo
ai movimenti si è dimostrata illusoria, pur essendo il paese attraversato da importanti mobilitazioni
- si pensi al Pride, alla manifestazione contro la nuova base di Vicenza e alla visita di Bush a
Roma, al grande corteo del 20 ottobre. Esse si sono infrante contro il muro del governo. Il
contraccolpo nel partito ha innescato meccanismi involutivi, mettendo a repentaglio dieci anni di
innovazione politica e culturale.
Dobbiamo indagare anche le ragioni di questa impermeabilità alla luce dei processi di
globalizzazione che svuotano le istituzioni nazionali della sovranità, riducendo la politica a tecnica
di governance. Dobbiamo allo stesso tempo interrogarci sull’autonomia dei movimenti e sui motivi
dei loro cicli carsici, altalenanti.
Dobbiamo guardare al mutamento del quadro politico del nostro paese per comprendere a fondo i
caratteri di rottura che il PD tenta di immettervi per giungere a una ‘democrazia decidente’. Il
tracollo e la scomparsa della sinistra sono indispensabili per il progetto di costruzione del
bipartitismo, di cui sono elementi fondanti l’eliminazione del conflitto dalla politica, la
sterilizzazione delle sue espressioni dirette (a partire dal sindacato), l’equidistanza tra lavoro e
impresa.
Dalla sconfitta elettorale del PD, Veltroni non fa discendere una proposta di alleanza nazionale di
governo con la sinistra, anzi la esclude.
Non è più riproponibile lo schema-base dell’Unione, il bipolarismo invece del bipartitismo: il
bipolarismo è stato già sperimentato con Prodi - ha squassato la sinistra. Il bipolarismo è morto.
La formazione del PD e le sue scelte elettorali bipartitiche manifestano una tendenza di fondo,
quella della rottura con la sinistra: la scelta strategica è la competizione al centro come unico spazio
della sua politica.
È sbagliato pensare che si possa riproporre in forme rinnovate la stagione del centro-sinistra: il PD
chiude un ciclo, quello del centro-sinistra, e ne apre un altro, quello del centrismo dove far vivere
solo la competizione con il PdL.


4. Rifondazione, l’Arcobaleno e la sinistra d’alternativa
Si parla ora di ‘costituente della sinistra’: il processo costituente andava aperto nel 2003, a ridosso
di Genova 2001 e dell’insorgenza del movimento ‘no global’, altermondialista, delle grandi
manifestazioni pacifiste e del referendum sull’articolo 18. Fu commesso da tutti/e noi un gravissimo
errore.
Della Sinistra/l’Arcobaleno, oltre ai vizi verticistici, di mediazione fra gruppi dirigenti, va messa in
luce la contraddizione di fondo: per alcune forze, il tema della partecipazione al governo era ed è
irrinunciabile, tale da essere elemento di identità politica; per noi, al contrario, la critica del potere e
del governo come fine - e anche come strumento neutro utilizzabile per il cambiamento - è un
tratto irrinunciabile della riflessione e dell’innovazione introdotte con la ‘rottura costituente’ del
1998 e articolate con il congresso di Venezia. Si deve essere ben consapevoli del fatto che non
abbiamo mai portato alle conseguenze necessarie il confronto con il governo - nonostante per ben
due volte avessimo deliberato una consultazione di popolo per decidere cosa fare e se continuare la
nostra presenza nell’Unione - anche a causa del percorso avviato con Sinistra Democratica, Verdi e
PdCI.
Il nostro errore è stato di politicismo e verticismo, avendo collocato al primo posto la fedeltà al
governo e alla maggioranza a scapito del rapporto con i movimenti. L’esatto contrario di quanto
facemmo nel 1998. Tra la fedeltà al ‘popolo del 20 ottobre’ e quella al ‘quadro politico’, questa
volta abbiamo scelto la seconda.
Non abbiamo, inoltre, per tempo preso atto che il governo non era permeabile da parte dei
movimenti: veniva con ciò a cadere una delle scelte qualificanti del Congresso di Venezia, dove
avevamo sviluppato la critica del potere come base dell’autonomia dei movimenti e del partito dal
governo e dal quadro politico: principio proclamato e mai praticato.
Per questo sono sbagliate le proposte sia dell’unità dei comunisti sia della Costituente della sinistra
o, peggio ancora, di una federazione tra partiti che rimangono uguali a sé stessi: prospettive
autoreferenziali e, di fatto, rivolte ai ceti dirigenti. Esse eludono le due questioni di fondo: il
rapporto di ‘internità’ ai movimenti e l’autonomia dal governo e dagli equilibri delle alleanze
politiche. Esse sono volte a configurare soggetti identitari, incapaci di intraprendere un itinerario di
costruzione della sinistra dal basso, a partire - senza alcuna gerarchia di valore - dai conflitti di
genere, di generazione, di territorio, di luoghi, di classe.
Non vogliamo definire un soggetto, bensì un processo che nasca dalla materialità e dai molteplici
soggetti dei conflitti che si svilupperanno nella società, nell’opposizione al governo Berlusconi.
Perciò crediamo sia inutile oggi inchiodare la discussione intorno al contenitore, si tratta al
contrario di avviarsi in un percorso, di cui è chiaro il punto di partenza ma non è predeterminato
quello di arrivo.


Linee di ricerca e di azione politiche

5. La globalizzazione

Per comprendere la globalizzazione, con i suoi fenomeni di ‘distruzione creativa’, è fondamentale
l’indagine sull’impresa secondo la prospettiva di Marx: l’innovazione e il rivoluzionamento
permanente quali caratteri basilari dell’impresa, motore del dinamismo dell’intera formazione
sociale borghese.
Si mantiene sulla superficie chi vede la finanza solo nei suoi aspetti speculativi, perché perde la
tendenza caratteristica dello sviluppo capitalistico: il rivolgimento dello stesso contesto sociale.
È questa distruzione e creazione di nuovi contesti sociali che può spiegare la contorsione in cui è
preso l’operaio che ‘iscritto alla Fiom’ si schiera con la Lega: l’innovazione capitalistica non è solo
tecnologica od organizzativa, implica un rivolgimento del senso comune e, complessivamente, delle
relazioni sociali. In un’ottica di mera difesa individualistica, oggi può anche vincere chi è portatore
di politiche protezioniste, che sono pur sempre strumenti di guerra mercantilista nell’arena globale.
Inoltre, continuare a contrapporre capitalismo produttivo e finanza, come se quest’ultima fosse solo
parassitismo e pura rendita fa perdere di vista che i « mercati finanziari sono e sono sempre stati il
centro di comando del sistema capitalistico, da cui partono le direttive per ogni settore e le decisioni
che vi si discutono e vi si prendono riguardano, in definitiva, sempre la pianificazione dello
sviluppo futuro» (Schumpeter).
C’è stato nel nostro tempo un salto nel rapporto tra economia e società. Lo slogan – ‘l’economia
domina la politica’ – nella sua semplificazione coglie un fenomeno di assoluto rilievo storico perché
se è vero, come mostrato da Polanyi, che il capitalismo ha sempre trasformato mondi vitali in
relazioni mercantili pure non era mai riuscito a mercificare completamente l’intera esistenza. Ora
ogni cosa non solo può essere prodotta dall’impresa privata e scambiata sul mercato, ma si pretende
che solo lo scambio di mercato guidato dal profitto sia indice di socialità dei beni (materiali,
biologici, relazionali che siano). La stessa scienza e la conoscenza in generale sono divenute da
organismi esterni all’impresa, che trasformava in tecnologie e merci le loro scoperte e ‘brevetti’, le
sue divisioni interne di R&S, di ricerca e sviluppo.
La sfida da portare è all’impresa e al mercato, ed essa deve riguardare: a) la condizione di
generalizzata precarietà mirando, al tempo stesso, b) a mettere in discussione ‘chi decide cosa,
come e per chi produrre’.
In questo contesto sostenibilità ambientale e sociale, relazioni umane solidali e assunzione del
limite della riproducibilità delle risorse naturali, allargamento della sfera della convivialità e
decrescita della sfera mercantile sono condizioni per interpretare e praticare l’economia come cura
della casa comune: sono valori che orientano la prassi trasformatrice per un’alternativa di società.

6. Rompere la precarietà, riprendersi la vita
L’impresa pretende di gestire in assoluta libertà il lavoro, e di controllare l’intero tempo di vita. Il
neoliberismo - quello della ‘modernizzazione’, dello Stato sociale minimo per ridurre le tasse ai
ricchi, della globalizzazione delle imprese e del mercato come motori capaci di trascinare il mondo
verso ‘sorti migliori e progressive’- ha fatto molti adepti, fino a permeare il PD.
Dopo aver attaccato e mortificato salari pensioni e diritti, il capitalismo risponde alle nuove crisi
finanziarie con l’aggressione al contratto di livello nazionale, perché le condizioni di lavoro ed
economiche dei lavoratori diventino variabile dipendente della produttività dell’impresa e il profitto
funga da esclusiva ‘autorità salariale’. Con l’aggressione al lavoro pubblico esso si prefigge
l’ulteriore riduzione della spesa sociale per dare spazio al libero mercato nei settori del welfare. Al
capitale privato interessa intervenire sul lavoro pubblico non per migliorarne efficacia ed efficienza,
ma per ridurre i servizi e liberare risorse: si mira a più ampie privatizzazioni in nome della lotta al
‘capitalismo municipale’.
Negli ultimi venti anni, la politica dei redditi e la moderazione salariale, la necessità di ‘acquistare
sul mercato’ servizi che prima erano erogati dalle istituzioni pubbliche, i tagli delle pensioni, il
ricorso sempre maggiore al lavoro precario, la permanente evasione fiscale, hanno spostato enormi
masse di ricchezza, circa il 15 % del PIL, dai redditi da lavoro dipendente ai profitti. I ricchi sono
meno numerosi e più ricchi, i poveri sono più numerosi e più poveri.
Il sindacato non è stato capace di contrastare queste politiche. Dovremo far sì che il movimento
sindacale tutto, rispettandone l’autonomia (che dovrebbe valere innanzitutto nei confronti del
governo e del padronato), affronti una profonda e critica riflessione sull’efficacia delle sue strategie
e sulle ragioni della progressiva passivizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori.
Si assiste a una nuova crisi del diritto del lavoro, sottoposto a un’azione di restaurazione: l’impresa
tende a imporre un ritorno alla libera contrattazione della forza-lavoro sul mercato. Le persone
tornano a essere pura merce, al pari di tutti gli altri ‘fattori’ produttivi. Battersi per salari e pensioni
‘decenti’ è importante quanto conquistare diritti nei luoghi di lavoro per la libertà e l’autonomia
reali della prestazione lavorativa, sottraendole al dominio e al controllo della gerarchia aziendale.
La precarietà, e con essa, l’insicurezza del lavoro si sono generalizzate, provocando una
schizofrenia del lavoratore tra il suo essere sociale e il suo essere politico: con il sindacato dentro la
fabbrica e con la Lega fuori. La sconfitta elettorale interroga anche i sindacati, sia quelli di più
lunga storia sia quelli nuovi.
È perciò necessario avviare da subito campagne di mobilitazione contro la cancellazione del
contratto nazionale di lavoro e contro l’attacco al lavoro pubblico da parte del governo Berlusconi.
Difendere il contratto nazionale per evitare ulteriore precarizzazione, frammentazione,
impoverimento e solitudine nelle fabbriche e nei posti di lavoro; difendere il lavoro pubblico per
migliorare l’insieme dei servizi a garanzia dei diritti sociali universali, che concernono in primo
luogo i ‘beni comuni’. La società che vogliamo edificare è una società dove lo spazio pubblico è
luogo della democrazia partecipata ma anche della gestione da parte di tutti/e delle risorse e dei
‘beni comuni’ - acqua, terra, aria, risorse naturali, energia.
Va ripresa la piattaforma della manifestazione del ‘4 novembre’ 2006, guardando con attenzione
anche ai contenuti di quella grande e ‘moltitudinaria’ parade precaria che è l’euro-mayday. Si deve
riscrivere l’intera legislazione su lavoro e sul welfare abrogando le tre leggi cardine della precarietà:
la legge 30, avendo come riferimento la ‘proposta Alleva’; la legge Bossi-Fini sui migranti; le leggi
sulla scuola (da Berlinguer alla Moratti).
La garanzia del diritto a una continuità di reddito per le precarie e i precari è la rivendicazione da
cui partire - superando la tradizionale ottica lavorista – per tentare una ricomposizione del
polverizzato mondo del lavoro precario: rimane valida la proposta per il reddito sociale messa a
punto dai Giovani comunisti/e e dal dipartimento lavoro.
La precarietà non è più una dimensione legata esclusivamente al singolo contratto di lavoro, diviene
una condizione esistenziale generale che mina la possibilità stessa di immaginare e progettare la vita
di ognuno/a. Con questa dimensione non siamo ancora in grado di fare i conti, affezionati a
categorie e pratiche ormai del tutto inadeguate a intendere il tempo presente e a parlare alla e della
materialità delle vite delle persone. Così quando parliamo, per esempio, del voto operaio al Nord ci
dimentichiamo che stiamo nominando solo metà dei soggetti perché l’altra meta è costituita dal
lavoro migrante che, forse perché privo del diritto di voto, appare dimenticato e marginale nella
nostra iniziativa. Il nostro resta un partito ‘biancocentrico’, ancora restio a fare i conti con un
fenomeno globale – quello delle migrazioni – che è soltanto all’inizio e rispetto al quale non
dobbiamo avere alcuna esitazione o reticenza nell’affermare il diritto di fuga da guerre, fame,
disastri ambientali, fenomeni purtroppo ormai permanenti nel nostro tempo.

7. La sfida ambientalista
L’ambiente dovrebbe essere la leva della ‘grande trasformazione’, e invece è diventato
un’occasione per allargare i business, gli affari, per colonizzare ancora una volta il Sud del mondo e
riprodurre gli insostenibili stili di vita dell’Occidente.
Le ripetute tragedie ambientali, i mutamenti climatici e la fame ripropongono il tema decisivo del
rapporto con la natura. La globalizzazione capitalistica sta determinando con la distruzione del
pianeta un salto nel buio, e provocando una rottura tra processi produttivi e riproduzione sociale-
ambientale: l’interruzione del ricambio organico tra esseri umani e natura. Come ripetutamente
argomentato da L’insostenibile, la novità è che dal movimento dei movimenti sono venute proposte
per un altro modo di fare economia, sociale, non più affidato alla ‘crescita’, ma basato su una
capacità di interazione positiva con i cicli ambientali. È possibile creare un’economia fondata sulla
qualità merceologica che, non creando rifiuti, non richiede inceneritori e discariche, bensì recuperi e
riusi in modo sistematico; garantire la sovranità alimentare come pratica del ‘ciclo corto’, capace di
tenere in equilibrio agricoltura, industria, servizi e distribuzione, valorizzando il lavoro e il diritto
per tutti gli esseri umani al cibo di qualità, Ogm free; affermare il diritto alla ‘mobilità sostenibile’
attraverso il trasporto pubblico collettivo; fermare la cementificazione e le grandi opere definendo,
invece, grandi piani di risanamento territoriale e di riuso urbano. È necessaria una politica
energetica fondata su risparmio e fonti rinnovabili: fermo deve rimanere il no al nucleare e a fonti
inquinanti come il carbone.
Per tutto ciò la cultura rossoverde, quella della critica della merce insegnataci da F. Giovenale e che
G. Nebbia continua a proporci, va assunta nella costruzione dei nuovi orizzonti della sinistra.
Ha scritto Vandana Shiva, traendo una ‘lezione’ dallo tsunami, che si attaglia alla tragedia birmana
e al terremoto in Cina con le loro decine di migliaia di vittime: «Lo tsunami ci ricorda che non
siamo meri consumatori in un mercato che tende al profitto. Siamo esseri fragili e interconnessi, e
abitiamo un pianeta fragile. Questo è un richiamo alla responsabilità e al dovere nei confronti della
terra e di tutte le persone».


8. I valori della democrazia e della nonviolenza

Si è andata imponendo una costituzione economica che mina alle fondamenta il costituzionalismo
democratico: ne sono espressione esemplare i Trattati dell’Unione europea, che hanno assunto la
concorrenza come ‘principio’ guida. Così si è configurata una ‘cittadinanza di mercato’, ridotta a
libero accesso alle contrattazioni mercantili, quindi non più fondata sui diritti della persona. La
crescita delle istituzioni ademocratiche è conseguenza della presa egemonica dell’impresa e della
finanza che piegano le istituzioni alle loro esigenze, spostando i centri decisionali in sedi tecnico-
economiche slegate dalle sedi della rappresentanza politica.
Rimane valida l’intuizione di Gramsci secondo cui la contraddizione di fondo della società
capitalistica, in parallelo con lo sfruttamento delle persone, sono la scissione tra dirigenti e diretti, e
il restringimento alle élites del potere decisionale, con il risultato di comprimere le potenzialità
intellettuali e creative dell’intera società.
La democrazia maggioritaria e il bipartitismo – introdotto dall’accordo Veltroni-Berlusconi - hanno
già cambiato di fatto la Costituzione. Il bipartitismo comporta la competizione tra partiti di centro,
partiti pigliatutto, programmaticamente simili, che si confrontano solo per conquistare consensi
elettorali al fine di gestire il governo entro le compatibilità stabilite dalle dinamiche dei poteri
capitalistici.
Siamo di fronte a un’Italia in rapido e inquietante mutamento, a una profonda metamorfosi
antropologica del senso comune. Questa trasforma le complesse e differenti ragioni dell’insicurezza
in cui vivono oggi ampi strati della popolazione, in fantasmi e paure indirizzate soprattutto a
esorcizzare l’altro come il nemico che insidia i nostri territori e i nostri beni. La sicurezza senza
oggetto preciso, assurgendo a valore in sé, si trasforma in un delirio ossessivo che dà legittimazione
a un pervasivo controllo poliziesco del territorio.
Le carceri, da sempre, sono il contenitore dell’esclusione: tossicodipendenti, migranti costretti al
lavoro nero e all’illegalità, prostitute sono le figure ricorrenti della popolazione carceraria. Contro le
nuove e le vecchie forme di ‘istituzioni concentrazionarie’ va condotta la lotta per la garanzia dei
diritti dei/delle detenuti/e, ormai cancellati in nome del ‘sorvegliare e punire’. C’è un paradosso
dell’illegalità: è creata dalle stesse leggi dello Stato – quella Bossi-Fini o quella sulla
tossicodipendenza -, produce devianza sociale ma è sempre lo Stato a punirla. In questo senso la
battaglia antiproibizionista non è una rivendicazione per pochi, ma l’apertura a un’idea generale di
società che rifiuta il carcere e la repressione come soluzione ai problemi dell’insicurezza sociale
delle persone. Rimane sempre attuale la prospettiva delineata da L. Ferrajoli di uno Stato e un
diritto penali minimi.
La critica della violenza del potere affonda la sua radice nella nonviolenza, in quanto pratica della
trasformazione. Essa riguarda l’affermazione della pace e del pacifismo come valori primari, da
perseguire in quanto scelta individuale e collettiva per contrastare le guerre e il bellicismo: valori
che si disperdono se non si è conseguenti nel contrastare le scelte di guerra in tempo di ‘pace’,
battendosi contro armamenti e basi, e impedendo in particolare la costruzione del nuovo ‘Dal
Molin’ a Vicenza – sciaguratamente avallata da Prodi. La nonviolenza chiama, in secondo luogo, a
un lavoro di decostruzione dei dispositivi antropologico-culturali che alimentano la creazione del
‘nemico’ interno o esterno, del ‘capro espiatorio’. Dunque, ci interroga direttamente come soggetti
della trasformazione. La nonviolenza è stata da RC proclamata, quasi mai praticata: essa anzitutto è
azione diretta di sottrazione ai meccanismi di violenza del potere, attraverso per esempio le
campagne per l’obiezione fiscale alle spese militari, per il disarmo e la riconversione degli apparati
dell’industria militare, per la costituzione dei corpi di pace.
Dai movimenti globali contro il neoliberismo è stata posta in discussione la scissione tra morale e
politica. Essi lottano anche in nome di principi morali: la pace o la dignità della persona sono valori
che sovradeterminano e limitano le opzioni e lo spazio della politica; mirando così a riarticolare il
nesso tra morale, politica e diritto proponendosi di superare la separazione tra mezzi e fini, da
sempre chiamata a giustificare il cinico realismo del potere e della ‘ragion di Stato’.
Alla politica spetta il compito di ‘fare società’, non di perseguire il potere, la cui critica è da agire
anche al nostro interno, al fine di rompere l’autoreferenzialità e separatezza dei gruppi dirigenti, che
rischia di rendere impossibile recuperare la capacità del partito ad essere reale rappresentanza
sociale.
F. Bertinotti ha indicato la fallacia della ‘democrazia militante’ in quanto questa si svela essere
‘democrazia dei pochi’, tratto tipico dell’ideologia del movimento operaio nel Novecento; al suo
posto ha dato voce a una ‘democrazia deliberativa’ per coinvolgere tutte le persone, e non la sola
‘avanguardia’, alle decisioni che le riguardano direttamente (si pensi al referendum sui contratti). In
questa prospettiva la democrazia, concepita come spazio della ragione pubblica ove tutti/e
prendono parte ai processi deliberativi e decisionali - nei limiti invalicabili segnati dai diritti
universali della persona, essendoci infatti sfere indecidibili per ogni collettività, a essa sottratti per
salvaguardare l’autonomia delle persone (quali la scelta sessuale, le credenze religiose, i tempi e le
modalità individuali della propria esistenza) -, mostra la via per superare la frattura tra dirigenti e
diretti, compresa quella tra ‘politici’ di professione e cittadini/e.

9. L’europeismo di sinistra

Rompere la centralità dello Stato nazionale e del suo governo e assumere l’Europa come spazio di
pensiero e di azione è condizione indispensabile per la sinistra. L’agire politico di RC deve
continuare a essere europeo ed europeista. RC deve continuare a operare nel e con il GUE, con la
Sinistra europea, e deve riprendere la sua attiva presenza nel Social forum europeo, la cui V
edizione si svolgerà a Malmoe nel prossimo settembre. Il movimento no global europeo, e con esso
RC, non ha commesso gli errori della sinistra storica, che dinanzi alla sfida europeista di Schuman,
Adenauer e De Gasperi si rinchiuse nei confini dello Stato nazionale (e nel «campo socialista», cioè
sotto le ali di Stalin). I movimenti sociali stanno elaborando un europeismo di sinistra, per
conquistare i diritti universali – sociali, politici e culturali – e per costruire una democrazia
sovranazionale.
Il costituzionalismo multilivello offre un terreno per progettare iniziative politiche in grado di
determinare una discontinuità netta con le prassi intergovernative. Esso prospetta l’istituzione dal
basso di una democrazia costituzionale senza Stato.
Per affermare la democrazia costituzionale europea si deve perseguire innanzitutto lo
smantellamento dell’Europa-fortezza, eretta per impedire i naturali flussi migratori, peraltro
indispensabili – come riconoscono gli stessi imprenditori - al funzionamento dell’economia e a
contrastare il declino demografico. Essa alimenta le politiche sicuritarie, con il suo apparato di Cpt
e di veri e propri campi di concentramento ai confini europei. Abbattere questa fortezza è
fondamentale non solo per un dovere di solidarietà verso chi fugge fame e miseria, ma per istituire
una nuova cittadinanza europea per tutti/e legata alla residenza, presupposto per una società
meticcia e multietnica.
Dopo il Trattato di Lisbona, poi, non bisogna abbandonare l’impegno per il processo di
democratizzazione dell’UE, che corre in parallelo con la conquista dei diritti sociali e del lavoro.
La prima richiesta, in questa direzione, è l’attribuzione al parlamento europeo della generale potestà
d’iniziativa legislativa - in quest’ottica si deve anche prevedere l’iniziativa legislativa popolare;
un’altra misura è l’istituzione di un’ulteriore potere d’iniziativa per i parlamenti nazionali, i quali
potrebbero rivolgersi direttamente al Parlamento europeo per proporre l’adozione di regolamenti o
di direttive.
Infine, il Parlamento europeo deve divenire organo della revisione dei Trattati, con lo scopo di
giungere alla costruzione, in rapporto con i movimenti sociali, di una democrazia costituzionale
europea.

10. L’esperienza femminista
Non serve scrivere qui di nuovo, con il rischio dell’approssimazione, la ricca elaborazione
femminista in RC, basilare contributo alla stessa critica della politica: essa resta un comune
patrimonio del partito. L’orizzonte della ricerca femminista è l’intreccio tra capitalismo e
patriarcato, che si esprime oggi in forme inedite, da analizzare alla luce delle trasformazioni
intervenute nel corso del Novecento, a cominciare dalla straordinaria rivoluzione delle donne che ha
lasciato un segno su tutto. Nei processi della globalizzazione neo-liberista, caratterizzati dal ritorno
della guerra, dalla militarizzazione dei territori, delle culture e delle menti, dall’ossessiva volontà di
erigere nuovi muri contro ogni diversità, dalle rinnovate forme di un infinito e devastante
saccheggio del pianeta, le donne, con la loro stessa esistenza quotidiana, portano alla luce le
contraddizioni essenziali tra le scelte del capitalismo globale e i bisogni primari e fondamentali
dell’umanità. Le donne generano e curano quei corpi che la globalizzazione destina ogni giorno di
più a un ‘mondo senza pianeta’, a un domani senza futuro. La contraddizione di genere, che informa
le relazioni tra uomini e donne, offre chiavi d’interpretazione fondamentali per capire i problemi
della contemporaneità. Il conflitto di genere, se attivato consapevolmente, modifica alla radice il
modo di pensare e di agire il cambiamento.

11. Laicità, diritti e libertà
Il governo di centro-sinistra, oltre a fallire nella politica sociale e del lavoro, non è stato neppure in
grado di affermare una politica dei diritti della persona, come portata avanti con successo, anche
elettorale, da Zapatero in Spagna.
I diritti di ognuno/a a definire i propri stili di vita, le scelte sessuali, le forme di convivenza, la
disponibilità del proprio corpo nella procreazione e nella fine della vita sono principi costitutivi per
una nuova sinistra. Essi sono stati sacrificati dal governo di centro-sinistra al rapporto con le
gerarchie ecclesiastiche.
Dobbiamo con coraggio, senza settarismi e anticlericalismi che negano validità alle esperienze di
solidarietà di cui è capace il mondo religioso (sia cristiano sia islamico) e alla libera adesione di
una persona a un ‘credo’, contrastare l’ideologia di una Chiesa che pretende di fondare sulla
‘ragione cattolica’ - contro il relativismo e in nome della preservazione dei ‘valori ultimi’ - i
principi morali di ciascuno/a, le relazioni tra le persone e lo stesso agire sociale.
La dignità dell’essere umano non è un dono divino che la Chiesa cattolica è chiamata a distribuire: è
una conquista storica costata tragedie come il genocidio nazista degli ebrei, dei rom e dei gay. Sono
state le lotte contro l’ingiustizia e la barbarie nazifasciste, così come quelle contro i totalitarismi,
che hanno condotto all’elaborazione e alla statuizione costituzionale della dignità umana.
L’attacco che la Chiesa porta alle conquiste dell’Illuminismo va contrastato e respinto. Della sua
tradizione, pure impregnata di ‘fede’ nell’ineluttabilità del progresso, non va persa l’esortazione al
«Sapere aude! Osa conoscere!». Quell’esortazione fonda l’uso critico della ragione e l’affermazione
delle procedure democratiche e degli spazi pubblici di confronto tra valori, idee e opinioni diversi.

Dare vigore al principio della laicità, fondamentale nella nostra Carta costituzionale, e tradurlo in
concreta politica delle istituzioni sono impegni primari di RC.

Rifondazione comunista, quale progetto?

12. Politica e movimenti

Dapprima una cruciale questione: il rapporto politica-movimenti. Ha più volte sostenuto P. Ferraris
che questa fase storica ha delle analogie con quella della costituzione della I Internazionale, quando
forze diverse sia per collocazione sociale sia per orientamenti ideali e culturali diedero vita al primo
movimento politico operaio.
Oggi dobbiamo di nuovo definire un ‘campo politico e ideale’: la sinistra di alternativa, connotata
dai valori del movimento altermondialista e dall’autonomia dai poteri, compresi i ‘governi amici’.
Questa era la forza della Sinistra Europea, che camminava proprio sul filo della ricucitura della
separatezza tra partiti e movimenti. La SE è stata contrastata da alcune componenti di RC perché
considerata contraddittoria con l’identità comunista e poi, di fatto, liquidata seccamente dal gruppo
dirigente nazionale perché considerata superata dalla Sinistra/ l’Arcobaleno.
Non dobbiamo ripetere quanto è accaduto nel percorso di Sinistra/l’Arcobaleno, in particolare in
relazione al rapporto tra il processo unitario e RC. Nella realtà, e al di là delle parole dei documenti,
è prevalso un modo di agire che implicava una dissolvenza del partito nella costruzione di
Sinistra/l’Arcobaleno. Questo è stato un errore, e come tale va riconosciuto.
Le forme organizzative e politiche che potrà assumere la Sinistra non sono definibili solo da RC, a
prescindere dal dibattito con le forze e con tutti/e coloro che sono interessati/e al progetto: RC non
può comportarsi come un’azionista di maggioranza della sinistra, che detta scelte tempi e
condizioni.
Riflettiamo ancora sull’esperienza di SE. Essa era un’utile innovazione perché non prevedeva lo
scioglimento delle forze contraenti ma la condivisione di uno ‘spazio comune’, legittimato dal
riconoscimento dell’autonomia delle singole forze che avrebbero dovuto cedere ambiti di sovranità,
cessioni mai avvenute da parte di RC. Difetti di SE sono stati quelli di non prevedere l’adesione
diretta di singoli (non appartenenti a nessuna delle sue componenti costitutive), se non attraverso
un’apposita associazione; di riproporre in SE organizzazioni del partito in quanto tali; di avere
quali azionisti di maggioranza talune organizzazioni.
Abbiamo la ‘presunzione’ di ritenere RC indispensabile oggi alla sinistra, accompagnata dalla
consapevolezza che essa non sia sufficiente a costituire il campo della sinistra di alternativa.
Processo costituente della sinistra alternativa come processo federativo dal basso: in questo
orizzonte, RC deve intraprendere un cammino di autorinnovamento che, al tempo stesso, deve
rivolgersi alle forze politiche di sinistra, alla ‘sinistra sociale’, ai movimenti, alle esperienze di
radicamento sociale (quali, per esempio, quella di Action a Roma), interessati a darsi una
dimensione politica.
Il processo federativo è aperto, deve essere nelle mani di coloro che vi prenderanno parte, non è la
confederazione tra partiti esistenti, che ricreerebbe la gerarchia tra chi sarebbe portatore di presunti
interessi generali (i partiti) e chi di interessi particolari (i movimenti). Ognuno deve riconoscere la
propria parzialità.
Processo costituente non è scioglimento dei partiti per la creazione di un soggetto indefinito che, se
prodotto delle forze esistenti, riprodurrebbe un partito tradizionale (incluse le correnti organizzate).
Il processo costituente è volto a formare un campo, la sinistra di alternativa, e a delineare le forme
per superare la separatezza tra politica, società, movimenti: serve su tutto ciò riflessione, ricerca e
sperimentazione. Non c’è una ricetta miracolistica né un demiurgo salvifico.


13. L’innovazione del fare e la politica della liberazione

Il problema centrale è trasformare i partiti che si richiamano alla sinistra da strutture
autoreferenziali, e istituzionali, in organismi impegnati nel ‘fare società’. L’orizzonte di un nuovo
mutualismo deve divenire modalità generale dell’agire politico.
RC deve continuare, a livello generale, nella sua attenta politica sui problemi della scuola e della
conoscenza e ‘investire’sulla formazione interna per rispondere ai problemi e alle istanze dei
cittadini. L’intuizione dei ‘beni comuni’, per esempio, si è oramai diffusa, non riusciamo però a
trasformarla in azioni concrete. Ciò richiede un impegno nella ‘formazione e autoformazione
continua’ per costruire, attraverso la contaminazione dei diversi saperi e delle diverse intelligenze,
proposte capaci di dare risposte ai bisogni dei cittadini.
Vogliamo portare a compimento il processo avviato con la Conferenza di Organizzazione di Carrara
e realizzare un salto nel funzionamento e nel modo d’essere del partito: è necessaria una
democratizzazione. Nonviolenza e ricerca del consenso non possono essere considerate buoni
comportamenti nelle relazioni tra e con i movimenti e, al contrario, nel partito essere sostituiti da
una logica di scontro tra schieramenti.
Il punto focale è la critica alla pratica della separatezza istituzionale, che si manifesta nello
slittamento del centro di interesse e di attività del partito dalla società alle istituzioni. Quello che
proponiamo è un salto: l’adozione di un modello partecipativo che rompa l’autoreferenzialità della
sfera del politico, a cominciare dalle forme di adesione ‘generalista’ che attualmente escludono la
possibilità di federarsi al partito da parte di associazioni e gruppi che agiscono sul territorio.
Rovesciare la struttura piramidale e gerarchica del partito, il suo carattere monosessuato,
‘biancocentrico’, assumendo come cogente il vincolo della democrazia di genere. Proponiamo,
dopo la moratoria che prospettiamo per questo congresso, che i designati a rappresentare il partito,
quelli che oggi chiamiamo segretario/a, siano sempre sessuati, una donna e un uomo.
Come già avviene in altre organizzazioni (quale la CGIL) e perfino nelle stesse istituzioni, va
stabilito il limite massimo di due mandati, che può, se non porre fine, limitare il leaderismo.
Abbiamo sempre più bisogno di un partito ‘glocale’, diffuso, superando la centralità del partito
‘romano’. Riflettiamo intorno a un progetto di organizzazione che metta al centro, attraverso
un’equa distribuzione delle risorse anche economiche, le federazioni territoriali e le strutture
regionali del partito. L’agire politico passa vieppiù attraverso le istanze locali e il partito deve essere
in grado di rispondere alle istanze e i bisogni che si manifestano sui territori.
Per superare la ‘divergenza’ di carriere tra chi svolge la sua attività nelle istituzioni e chi invece nel
partito e nei movimenti, si deve prevedere una rotazione secondo le indicazioni di ‘Carrara’ e
regolamentare in chiave egualitaria le differenze di stipendio; vanno previste misure per impedire
l’esercizio di più incarichi.
Occorre un radicale rinnovamento dei ‘gruppi dirigenti’, non solo su base generazionale ma anche
in funzione della pluralità di percorsi ed esperienze, così da rompere i meccanismi di affiliazione e
cooptazione che governano e determinano molte scelte del partito... ‘l’obbedienza non è più una
virtù!’.
La collettività politica di RC non può che avere forme di organizzazione e di relazioni coerenti con
il progetto di liberazione e di eguaglianza, di cui vuole essere portatrice. Vogliamo un partito
nuovo, interamente intessuto di relazioni sociali nel mondo del lavoro e del nonlavoro, intrecciato di
autonomie cooperanti attraverso le reti di territorio, immerso nelle pratiche dell’altra società, un
‘partito sociale’ e non un ‘partito delle cariche pubbliche’; una collettività di persone protagoniste e
partecipi, in cui la trasformazione sia un processo quotidiano che riguarda anche le forme di vita, i
linguaggi, le relazioni. Una collettività di uomini e donne liberi/e, senza più divise, generali, eroi.

Walter De Cesaris
Franco Russo
Gabriella Stramaccioni