VII°
CONGRESSO
Documento
Ferrero
Rifondazione
Comunista in movimento
Rilanciare il Partito, costruire l’unità a sinistra
Questo Congresso. L’impegno unitario come scelta di libertà
Il nostro Congresso è carico di straordinaria responsabilità.
Si svolge dopo una sconfitta
drammatica, che ha cancellato per la prima volta nella storia dell’Italia
repubblicana la sinistra dal
Parlamento, e una vittoria delle destre che si affermano con grande consenso
popolare.
Un’indagine compiuta delle cause della nostra sconfitta va oltre questo
stesso Congresso. Richiede
l’analisi delle trasformazioni strutturali, il rilancio dell’inchiesta
sulla modifica delle soggettività,
l’analisi profonda del nostro rapporto con la società e con i mutamenti
che la attraversano. Ma da
subito siamo chiamati a dare le prime risposte, ad elaborare una proposta per
la duplice sfida che
abbiamo davanti: continuare nel percorso della rifondazione comunista e contribuire
alla
ricostruzione della sinistra nel nostro paese.
Abbiamo bisogno di un congresso democratico, in cui la voce delle donne e degli
uomini che hanno
scelto di appartenere a questa comunità conti davvero, dal circolo al
congresso nazionale e in cui
quella democrazia partecipativa che abbiamo indicato come uno dei nodi decisivi
su cui rifondare
la politica viva non solo nei dibattiti, ma nel nostro agire quotidiano.
Abbiamo bisogno di un congresso aperto, in cui la sovranità piena delle
iscritte e degli iscritti sui
destini del partito e le scelte da compiere, non delimiti uno spazio autosufficiente,
separato dalla
discussione con chi una tessera di partito non ce l’ha, ma con noi si
interroga sul futuro della
sinistra.
Abbiamo bisogno di un congresso che si intrecci con la costruzione dell’opposizione
al governo
Berlusconi. Per questo avanziamo a tutta la sinistra politica e sociale la proposta
di elaborare
insieme piattaforme condivise di mobilitazione, per impedire la regressione
generalizzata che
rischia di determinarsi sul versante dei diritti del lavoro, dell’ambiente,
delle libertà.
Auspichiamo che sulle ragioni della divisione verificatasi in seno al gruppo
dirigente del Partito si
sviluppi nel Congresso un confronto franco e leale. Queste ragioni nulla hanno
a che vedere – lo
ribadiamo ancora una volta – con l’assunzione di responsabilità
per la sconfitta, che ci chiama in
causa tutte e tutti, e sulle cui radici c’è da scavare e da capire,
non già da dividersi né da cercare
capri espiatori.
Il punto di divisione ha riguardato e riguarda invece la prospettiva del «superamento»
di
Rifondazione Comunista in un nuovo soggetto politico. Questa proposta è
stata avanzata
autorevolmente e reiteratamente nel corso della campagna elettorale; ancora
dopo la sconfitta ci è
stato proposto di accelerare nel processo costituente della Sinistra Arcobaleno
«con chi ci sta». Una
prospettiva che non abbiamo condiviso e non condividiamo, nel merito e nel metodo,
non discussa
né decisa da alcun organismo dirigente del Partito. L’esistenza
del Prc non è, per noi, in
discussione né per l’oggi né per il domani.
La necessità di una discussione limpida sulle scelte e il futuro deve
accompagnarsi comunque alla
salvaguardia della massima unità del Partito.
Per questo abbiamo ripetutamente proposto un congresso con un unico documento
a tesi.
Per questo ci impegniamo sin d’ora – nell’ipotesi che la nostra
proposta politica venga accolta dalla
maggioranza del Congresso – a una gestione unitaria del Partito.
Per questo non ci trova concordi il tentativo di trasformare il congresso in
un referendum sul
leader.
Un percorso congressuale realmente democratico e partecipato, la scelta di gestione
unitaria del
partito, sono condizioni indispensabile al rilancio del progetto politico del
Prc. Ed in questo modo
si può realizzare, nel difficile passaggio che abbiamo davanti, una trasformazione
positiva del
nostro modo di essere, che bandisca dal nostro agire ogni traccia delle logiche
maggioritarie che
hanno inquinato nel tempo la nostra dialettica interna. L’impegno unitario
non è dettato solo dalla
gravità della situazione che viviamo e dalla necessità di farvi
fronte. È una scelta di libertà, per un
partito che sia capace di nominare fino in fondo i problemi, assumere con limpidezza
le scelte da
compiere, ricostruirsi come soggetto collettivo.
Non presentiamo, dunque, questo documento con l’ambizione di scrivere
“il programma” del
Partito: invitiamo, invece, le iscritte e gli iscritti a contribuire, dai territori,
ad emendare ed
arricchire questo documento. A costruire, insieme, il progetto politico, il
futuro di Rifondazione
comunista e della sinistra. Ripartiamo insieme a quella sinistra reale, a quelle
centinaia di migliaia
di compagni e compagne con e senza tessera, che ha colorato di rosso le strade
di Roma il 20
ottobre 2007.
Parte prima
LA PROFONDITÀ DELLA SCONFITTA E LE SUE CAUSE
Il risultato elettorale, che ha sancito la netta vittoria della destra, la fragilità
del progetto politico
del Partito democratico e la sconfitta verticale della sinistra, ci consegna
un’Italia profondamente
diversa da quella che immaginavano.
La forza della destra
La forza della destra è stata quella di confrontarsi apertamente con
la crisi del neoliberismo e di far
leva sulle paure derivanti dall’insicurezza sociale e dal consumarsi della
coesione sociale. È la
destra stessa, cioè, ad aver costruito una risposta egemonica alla crisi
neoliberista, connettendo
nuovi populismi nazionalistici, individualismo competitivo liberista e difesa
razzista ed identitaria
delle “piccole patrie”: una risposta che è risultata dilagante,
in Europa e, soprattutto in Italia, da
quando la sinistra non è stata efficace né nella difesa degli
interessi materiali né nel proporre
un’altra idea di società.
Mentre il Partito Democratico si è mostrato fermo nel sostenere il rispetto
dei vincoli liberisti e di
bilancio europei, la destra li ha criticati con grande spregiudicatezza, evocando
il recupero
dell’intervento dello Stato, al quale riaffidare ruoli di protezione e
direzione economica.
Replicando, in modi diversi, la scelta statalista operata negli anni Trenta
del ’900 dopo il disastro
provocato dal liberismo, la destra si è così accreditata come
garante delle ragioni dei territori, a
tutela degli interessi nazionali e delle comunità locali. Ciò
le ha consentito di recuperare consensi
presso vasti settori di lavoratori dipendenti e autonomi e, nel caso della Lega
Nord, presso fasce
popolari e di lavoro operaio.
La destra ha interpretato lo «spirito del tempo» dando all’insicurezza
e alla paura una risposta
precisa, in armonia con l’individualismo aggressivo radicatosi nel Paese
nel corso degli ultimi
venti anni: l’individuazione di un nemico esterno. In termini di insicurezza
sociale il nemico è di
volta in volta la Cina, la globalizzazione, l’Europa, lo Stato che impone
le tasse. In termini di
insicurezza personale il nemico è lo straniero, lo «zingaro»,
il diverso, chi dissente e lotta contro
l’ordine sociale esistente. La destra ha riproposto la costruzione di
una comunità basata sulla
difesa verso l’esterno e sulla necessità di disciplinamento all’interno.
«Più polizia e più dazi»
potrebbe esserne la parola d’ordine. In questo contesto il fondamentalismo
religioso e il richiamo
ad una presunta «civiltà europea» sono connotati essenziali
per costruire identità comunitarie
(europea, nazionale o locale a seconda delle versioni) in cui riconoscersi e
da difendere.
La debolezza del Partito Democratico
La debolezza del Pd a guida veltroniana è consistita nell’oscillare
tra l’inseguimento della destra
sul suo stesso terreno in materia di politiche securitarie, nella modalità
plebiscitaria di costruzione
della direzione politica, nell’interclassismo post-ideologico e la riproposizione
di un sogno
«progressista» scarsamente credibile. Ne è risultata una
proposta da un lato subalterna e dall’altro
minoritaria, capace di parlare solo ad una parte dell’Italia. La sconfitta
di Rutelli a Roma ne è
l’emblema.
Da questo punto di vista il Pd è obiettivamente dentro una crisi strategica,
solo velata dalla
presenza sui mezzi di comunicazione di massa. La vocazione a partito che vuole
tenere insieme
tutto e il contrario di tutto è spiazzata dall’azione politica
che la destra pone in atto dentro la crisi
della globalizzazione, sia sul piano degli interessi materiali che sul terreno
culturale e valoriale,
azione destinata a dividere il Pd su ogni passaggio significativo.
Non a caso la dirigenza veltroniana del Pd punta ad un ulteriore restringimento
degli spazi della
rappresentanza politica, alla eliminazione di ogni concorrente a sinistra con
la riforma della legge
elettorale per il parlamento europeo e con il referendum del prossimo anno.
Contrastare questa
prospettiva di riduzione bipartitica del sistema politico italiano è
dunque un punto decisivo che ci
consegna come interlocutori quelle parti del Pd che si oppongono a questo progetto
politico e
istituzionale, di segno regressivo.
La sconfitta della Sinistra Arcobaleno
La sconfitta della Sinistra Arcobaleno nasce dentro l’esperienza di governo.
Dopo le grandi lotte di
massa che hanno caratterizzato il periodo del secondo governo Berlusconi da
Genova in avanti,
una parte consistente del popolo italiano ci ha votato, affidandoci un cambiamento
da realizzare
non solo sul piano del quadro politico, ma anche direttamente sul terreno delle
proprie condizioni
di vita. Ma l’aspettativa di cambiamento è rimasta frustrata
Le poche scelte coerenti con l’impianto programmatico dell’Unione
(il ritiro delle truppe dall’Iraq,
la lotta contro l’evasione fiscale, la legge sulla sicurezza nei luoghi
di lavoro, il riavvio di una
politica per il diritto alla casa) sono rimaste marginali e isolate rispetto
ad un indirizzo nettamente
prevalente, segnato dalla priorità del «risanamento» della
finanza pubblica, dall’assenza di
politiche redistributive a favore degli strati sociali più deboli, da
scelte ad esclusivo beneficio di
imprese e banche, come la riduzione del cuneo fiscale.
La domanda espressa dalle grandi mobilitazioni di massa sino alla grande manifestazione
del 20
ottobre, di fare del contrasto alla precarietà, a partire dall’abrogazione
della legge 30, il centro
dell’azione del governo è rimasta inevasa. All’opposto si
è sostanzialmente confermato
l’innalzamento dell’età pensionabile introdotto dal precedente
governo Berlusconi, né si sono
abrogate le peggiori leggi di quella stagione: la Bossi-Fini, la Moratti, la
legge 40. Si sono disattese
le promesse in materia di diritti civili. Si è proceduto ad un aumento
della spesa militare, ed invece
della conferenza sulle servitù militari, si è dato il via libera
alla costruzione della nuova base di
Vicenza e si è riconosciuta la unilaterale e illegale dichiarazione di
indipendenza del Kosovo. La
mancata istituzione della Commissione d’inchiesta sui fatti di Genova
ha segnato anche
simbolicamente una cesura, non solo rispetto alla domanda di verità e
giustizia del movimento, ma
anche rispetto alla stagione delle grandi mobilitazioni su cui si era ricostruita
la possibilità di
sconfiggere le destre.
Nel concreto svolgersi dell’esperienza di governo, la nostra gente ci
ha visto come impotenti e
subalterni, cioè inutili e sovente ha subito con crescente irritazione
la maniera con cui abbiamo
giustificato e presentato scelte perlomeno discutibili: un atteggiamento supponente
invece che
l’aperta ammissione delle difficoltà e dei compromessi subiti in
una situazione oggettivamente
difficile..
Il risultato lo si è misurato alle elezioni di aprile, dove abbiamo perso
il consenso di larghissima
parte delle persone che ci avevano votato nel 2006. In questo contesto la parola
d’ordine della
sopravvivenza della sinistra è risultata politicista, dettata dalla volontà
di autotutela di un ceto
politico di cui non era chiara l’utilità sul piano sociale.
Per un bilancio critico di Venezia
Si possono rintracciare le ragioni della nostra sconfitta in mille passaggi,
ma il punto fondamentale
è che nel congresso di Venezia abbiamo sbagliato l’analisi dei
rapporti di forza esistenti. Abbiamo
creduto che la sinistra moderata fosse permeabile alle istanze sociali, mentre
essa si è mostrata
assai permeabile alle istanze dei poteri forti. Abbiamo pensato che le forze
sindacali potessero
svolgere un positivo ruolo di pressione, quando invece hanno svolto un ruolo
di stabilizzazione
del governo in diretta concorrenza con la sinistra. Abbiamo pensato che la scrittura
del
programma legasse ad un patto le altre forze politiche e invece queste ne hanno
fatto carta straccia.
Abbiamo sopravvalutato la nostra capacità di incidenza sul quadro politico
quando la dislocazione
dei poteri reali era tutta contro di noi. Abbiamo ipotizzato che l’alternanza
fosse il viatico per
l’alternativa e questa ipotesi si è rivelata completamente sbagliata.
In breve: abbiamo fatto parte della maggioranza parlamentare e siamo stati nel
governo, ma il
Paese lo hanno governato altri, spesso nella dialettica tra sinistra moderata,
opposizione e poteri
forti.
In questa esperienza il Partito ha via via perso molti legami sociali e l’internità
ai movimenti che ne
aveva contraddistinto il progetto politico negli ultimi anni, una progressiva
separazione che si è
materializzata in maniera emblematica il 9 giugno 2007 con la scelta di stare
nella piazza vuota dei
partiti della sinistra mentre una grande manifestazione anti-Bush attraversava
la capitale. Il partito
si è progressivamente ripiegato su se stesso, i circoli si sono in buona
misura svuotati. Si è
aggravata la crisi del radicamento sociale del Partito, figlia di una insufficiente
cura
dell’organizzazione sul territorio. Per di più, in una fase in
cui veniva a maturazione una radicale
crisi della politica, ci siamo trovati a ricoprire ruoli istituzionali percepiti
come totalmente interni
alla «casta», sottovalutando completamente la portata dell’ondata
“antipolitica” che coinvolgeva
tanta parte del nostro elettoralo e rispetto alla quale ci siamo lasciati cogliere
impreparati.
Oltre a questi elementi di fondo e decisivi, le modalità di costruzione
della Sinistra Arcobaleno
hanno prodotto ulteriori effetti negativi nella campagna elettorale.
In questo contesto siamo andati alle elezioni e abbiamo perso perché
per molti qualsiasi voto –
l’astensionismo, il voto al Pd in una logica frontista, addirittura il
voto alle destre populiste – è
sembrato più utile del nostro.
Abbiamo sbagliato l’analisi di fase e ne abbiamo subito impietosamente
le conseguenze.
La nuova fase caratterizzata dalla crisi della globalizzazione capitalistica
Dalla sconfitta non si esce semplicemente riprendendo il percorso interrotto
prima del governo
Prodi.
In primo luogo perché oggi ci troviamo dentro la crisi della globalizzazione
capitalistica, a partire
dalla crisi della finanziarizzazione dell’economia e dall’esplosione
della “bolla” finanziaria (con la
crisi dei famigerati mutui subprime), che ha determinato chiari segnali di recessione
negli Stati
Uniti e, conseguentemente, il rallentamento dell’economia in Europa. La
ricerca del massimo
profitto a breve ha negli ultimi anni considerevolmente accentuato il carattere
speculativo
dell’impiego di capitale, sollecitato dal crescente indebitamento di imprese
e famiglie, esasperando
il connotato di finanziarizzazione dell’economia. In questo quadro, la
crisi finanziaria in corso, ha
il carattere di un vero e proprio cambio di fase, destinato ad avere pesantissimi
effetti, nei prossimi
anni, sul piano economico e sociale.
In secondo luogo perché la negativa esperienza di governo ha esaltato
e fatto precipitare gli effetti
di processi di lunga durata che già da tempo stavano venendo a maturazione.
Si tratta, nello scenario italiano, della chiusura di cicli storici che intervengono
sia sul piano
materiale che su quello delle identità politiche e culturali. E dell’intreccio
di questi processi con la
crisi della globalizzazione neoliberista. Il quadro tutto modificato che ci
è consegnato pone
domande cruciali da cui dipende la possibilità di ricostruire un ruolo
storico per la sinistra.
Sullo scenario italiano consideriamo decisivi in particolare due processi:
a) la modifica radicale della composizione di classe su cui si era costruito
il ciclo di lotte del ’68-69: la
consunzione degli elementi di unità di classe e la frantumazione dei
lavoratori in un contesto di
profondissime modifiche sul piano dei processi lavorativi e dei meccanismi di
valorizzazione del
capitale, pongono problemi inediti ai fini della costruzione del blocco sociale
di riferimento, della
ricostruzione di un rapporto fra condizione materiale del lavoro e sinistra
politica;
b) la chiusura del ciclo istituzionale nato dalla Resistenza e fondato sulla
Costituzione repubblicana. Le
spinte bipolari oggi riproposte come bipartitiche, la sostituzione dei partiti
di massa con partiti
costruiti attorno al leader, la rottura del meccanismo della rappresentanza
sociale e la conseguente
crisi della politica hanno radicalmente cambiato il quadro in cui si svolge
l’azione politica
rendendo sempre più impermeabili i governi al conflitto sociale. Precipitano
decenni di crisi della
rappresentanza e il Pd, con la sua supplenza plebiscitaria, ne è prodotto
e al contempo,
accelerazione.
Anche qui il terreno su cui la sinistra politica era cresciuta nel nostro Paese
si presenta nettamente
cambiato di segno. Persino nei processi di costruzione dell’identità.
Lo stesso antifascismo, idealità
fondante della nostra democrazia, è stato appannato e stravolto dal diffondersi
di un revisionismo
storico che ha portato a considerare la Resistenza un evento da dimenticare
o da riconsiderare in
un confronto bipartisan, o al più da celebrare ritualmente.
Sul piano globale l’attuale fase di crisi, oltre a quelli citati in premessa,
appare connotata
dall’intreccio di processi che ci paiono così sintetizzabili:
a) la crisi di un modello di sviluppo basato sulla presunzione di illimitatezza
delle risorse. Già oggi
l’accaparramento delle residue fonti energetiche è alla base di
molti conflitti e nei prossimi anni lo
sarà il tentativo di accaparramento delle fonti idriche e alimentari
di base. Le devastazioni
territoriali prodotte dalle grandi opere ci parlano di una contraddizione palese
tra gli interessi
vitali delle popolazioni e questo modello di sviluppo. L’inquinamento,
i mutamenti climatici, la
scarsità delle materie prime, dell’acqua, dei cereali, ci parlano
della fine di una fase in cui lo
sviluppo del movimento operaio e della sinistra si era intrecciato allo sviluppo
economico,
rendendo praticabili politiche «progressiste» di stampo socialdemocratico.
La questione ambientale si pone più che mai come questione dirimente
data la forma attuale del
capitalismo. La globalizzazione dei mercati accentua i fenomeni di distruzione
della natura
consentendo alle Imprese di smistare le loro attività nei Paesi dove
trovano più convenienza:
dunque dove trovano maggiore disponibilità di forza lavoro a basso costo,
senza vincoli sindacali,
ma anche dove trovano assenza di vincoli ambientali e maggiore disponibilità
delle materie prime.
Inoltre il processo moderno delle «recinzioni» si estende come mai
prima al complesso e alla
struttura stessa della vita, trasformando non solo la terra, l’acqua,
l’aria, l’energia, ma anche gli
animali e le piante e perfino il genoma, da «beni comuni» dell’umanità
e del pianeta, in merci
(valori di scambio) da destinare a profitti privati.
Il modello che ne scaturisce ha le unghie e gli artigli ancora più affilati
e raffinati del vecchio
saccheggio sviluppista. Da una parte, mascherandosi dietro la categoria pseudoriformista
dello
«sviluppo sostenibile», continua a perseguire, anche per le generazioni
future, lo stesso paradigma
di crescita e di sviluppo (di «malsviluppo»). Dall’altra,
si affretta a praticare una shock economy: un
modello di accumulazione fondato sulla redditivizzazione delle catastrofi, impegnato
a
trasformare il disastro ambientale causato dalle imprese (riscaldamento globale,
desertificazione,
rifiuti, crisi idrica, ecc.) in un affare per le imprese stesse: un «ecocapitalismo»,
insomma, che,
grazie ai protocolli e alla governance internazionale, assume a livello planetario
i caratteri della
rapina, in un una sorta di inedito ecocolonialismo (sfruttamento delle risorse,
commercio delle
emissioni, bioprospezioni, brevetti, guerre d’acqua, trasformazione della
terra produttrice di cibo
in bioenergia, ecc.).
b) la ripresa della corsa al riarmo e la guerra preventiva e permanente. La
nuova corsa al riarmo (anche
nucleare) va di pari passo con l’acuirsi di una tendenza alla guerra come
mezzo di risoluzione
violenta delle controverse internazionali e di conflitti regionali decisi sulla
base delle esigenze
geopolitiche ed economiche dei potenti del pianeta. Questa escalation è
connessa all’indebolirsi
dell’unipolarismo statunitense e alla ridefinizione dei rapporti di forza
a livello mondiale
all’interno della crisi della globalizzazione neoliberista.
Alla crisi di egemonia ed economica della globalizzazione neoliberista, la risposta
da parte degli
Usa è stata quella di lanciare, attraverso la guerra preventiva, un’offensiva
su scala globale per
garantirsi due obiettivi: il controllo diretto su aree strategiche del pianeta,
fondamentali per
presenza di risorse energetiche; la riaffermazione nel ruolo di potenza unipolare
nella ridefinizione
di un nuovo ordine mondiale e sul conseguente rilancio della spesa bellica come
sostegno ad
un’economia in crisi.
Nonostante il fallimento di tale strategia, particolarmente evidente in Iraq
e in Afghanistan, non
vengono ad oggi escluse possibili nuove avventure militari. Siamo di fronte
ad una vera e propria
geopolitica del caos, che crea instabilità permanente aprendo costantemente
nuovi fronti,
alimentando il terrorismo e l’erosione di libertà e diritti civili
in una logica di Stato d’eccezione
permanente.
Un ruolo particolare in questa strategia riveste il disegno di Grande Medio
Oriente per l’area
mediterranea. In questo quadro va letto quanto accade in Libano, la drammatica
situazione del
conflitto israelo-palestinese, cuore delle tensioni di tutta l’area. La
politica del fatto compiuto
portata avanti fino ad oggi, sta compromettendo una soluzione basata sul principio
dei «due Stati
per i due popoli», come risultato dell’espansione degli insediamenti
dei coloni, della costruzione
del muro dell’apartheid, della divisione in bantustan della Cisgiordania,
dell’assedio a Gaza.
Alcune domande cruciali
L’elaborazione di una risposta adeguata alla crisi in cui versa la sinistra
oggi non è possibile senza
una risposta ai quesiti che nascono direttamente dalla chiusura dei cicli storici
giunti a
compimento nell’attuale fase di crisi della globalizzazione capitalistica.
Come si istituisce un legame tra difesa degli interessi materiali delle classi
subalterne della
popolazione e progetto di trasformazione in un contesto di crescita economica
scarsa o nulla?
Come si costruisce un nuovo sistema di partecipazione democratica nella parziale
inutilizzabilità
del sistema istituzionale odierno?
Come si ricostruisce la coalizione del lavoro e la solidarietà di classe
nel tessuto produttivo
disperso, atomizzato e frantumato territorialmente?
Dalla risposta a questi quesiti e non da qualche operazione di ingegneria organizzativa
dipende la
possibilità di ricostruire un ruolo storico per la sinistra che altrimenti
risulta completamente
spiazzata. Tanto più che la forza della destra populista risiede proprio
nell’avere interpretato
questi processi e nell’avere individuato nella risposta al tema dell’insicurezza
il punto focale della
propria proposta politica. Che la risposta all’insicurezza declinata dalla
destra sia al fondo fasulla e
propagandista nulla toglie alla sua forza materiale nella misura in cui noi
non siamo in grado di
elaborare una risposta alternativa che abbia almeno pari forza evocativa e concreta
efficacia.
In questo quadro avanziamo la nostra proposta politica, nella consapevolezza
della sua parzialità e
della necessità di agire attraverso l’inchiesta, la riflessione
e la lotta per l’elaborazione di risposte
più compiute e organiche.
Parte seconda
COME USCIRE DALLA SCONFITTA
Siamo convinti della necessità di procedere con determinazione lungo
un percorso unitario che
permetta alle forze della sinistra sociale e politica di ricostruire l’efficacia
della propria iniziativa su
tutti i terreni di conflitto. La grave sconfitta subita il 14 aprile non indebolisce
tale convincimento,
semmai lo rafforza.
Alla luce dell’esperienza compiuta in questi anni, riteniamo che la ricostruzione
della sinistra in
Italia implichi l’attivazione di tre processi: il rilancio politico e
organizzativo di Rifondazione
Comunista; la costruzione della sinistra dal basso; la costruzione dell’opposizione
al governo Berlusconi.
II.1. Il ruolo del Prc
La rifondazione comunista continua
Lungo i suoi 17 anni di vita, il Prc ha svolto una funzione importante nella
società italiana, nel
movimento contro la globalizzazione capitalistica e nel campo delle formazioni
comuniste, di
sinistra e rivoluzionarie in Europa e nel mondo. A nostro giudizio, la rifondazione
comunista non
ha esaurito la propria funzione storica.
È pertanto necessario rilanciare Rifondazione Comunista e l’idea
dell’unità di forze sociali,
culturali e politiche, dalle diverse identità e pratiche.
È questo il presupposto per la ripresa della costruzione dell’unità
della sinistra in Italia,
rovesciando letteralmente il progetto della Sinistra Arcobaleno realizzato dall’alto,
senza chiarezza
su nodi strategici fondamentali, come la questione del governo e la collocazione
europea, e
mortificando le identità politico-culturali delle forze partecipanti.
La rifondazione comunista continua perché la contraddizione tra capitale
e lavoro è strutturale a
questo sistema, con gli esiti devastanti dello sfruttamento e della guerra,
che tale contraddizione
sistematicamente riproduce.
La rifondazione comunista continua perché a fronte della crisi di un
modello di sviluppo proteso
simmetricamente allo sfruttamento dell’umanità e al saccheggio
dell’ambiente, mai come oggi è
attuale la domanda di «cosa, come, per chi produrre», la necessità
di liberare la società e la natura
dal vincolo della valorizzazione del capitale.
La rifondazione comunista continua perché solo all’interno di un
«movimento reale» si può
conoscere e trasformare lo stato di cose esistente.
La rifondazione «senza aggettivo», senza dispositivi interpretativi
dell’attuale fase capitalistica, è
pensiero debole, sinistra debole, un «oltre» senza orizzonte. La
rifondazione comunista intende
tematizzare e praticare il divenire oggi comuniste e comunisti: non una divisa
statica e
dottrinaria, ma una ricerca condotta nella convinzione che il sistema sociale
esistente, con le sue
iniquità e la sua violenza, non sia la fine della storia.
La rifondazione continua per innovarsi, per proseguire una ricerca aperta sulle
nuove forme della
politica, che provi a colmare il divario tra culture e pratiche politiche, a
partire dalla soggettività
delle donne e dall’internità al movimento altermondialista.
Il partito in movimento
La fase politica inedita che affronteremo nei prossimi mesi e anni, con l’intera
sinistra priva di
rappresentanza parlamentare, impone di dedicare particolare cura al rafforzamento
organizzativo
e all’insediamento sociale e territoriale del Partito. La condizione extraparlamentare
rende ancor
più necessario ripensare la nostra strutturazione organizzativa e le
nostre modalità di
funzionamento, partendo dalla valorizzazione di passioni ed esperienze che vivono
nella comunità
dei militanti e degli iscritti al Prc.
La consapevolezza dei limiti della forma-partito e le difficoltà della
fase apertasi dopo la sconfitta
elettorale ci spingono a proseguire sulla strada della sperimentazione e dell’innovazione,
avendo
ben chiaro che abbiamo bisogno di un partito radicato nella società e
nei territori; capace di
organizzare lotte e vertenze e di praticare forme di mutualismo nello spazio
della quotidianità;
autonomo dalle ideologie dominanti, aperto alla relazione con la realtà
sociale e interno alle reti di
movimento.
Occorre quindi proseguire la ricerca su forme dell’organizzazione politica
che sappiano essere
efficaci sul terreno della trasformazione sociale, coniugando partecipazione
diretta e
rappresentanza. A tal fine è necessario contrastare il processo di degenerazione
leaderistica e
plebiscitaria che ha attraversato il nostro partito: una degenerazione che,
accompagnata dalla
“retorica dell’oltre” , ha in realtà condotto all’indebolirsi
del nostro radicamento e ad una
regressione sul terreno della democrazia nella direzione del partito mediatico.
E’ per questo
motivo che non disgiungiamo la ricerca sulla forma partito dalla cura della
comunità politica di
rifondazione comunista e della sua organizzazione democratica e territoriale.
Se concepiamo il partito come strumento per la costruzione di un blocco sociale
della
trasformazione e se constatiamo che la crisi della sinistra affonda le proprie
radici anche e
soprattutto nel progressivo distacco tra le rappresentanze istituzionali e una
società sempre più
frantumata, diventa centrale la riflessione intorno alle forme dell’agire
politico e l’accentuazione
del carattere sociale del partito e più in generale della sinistra.
Ritrovare una connessione con il nostro popolo non può essere una scelta
ideologica o puramente
politica: deve essere al tempo stesso una pratica. Nella crisi della politica
che è anche crisi della
società, il «partito sociale», inteso come punto d’incrocio
tra movimenti che si politicizzano e
partiti che si socializzano, superando l’illusione dell’autosufficienza
che sarebbe nociva agli uni ed
agli altri è una feconda traccia di lavoro per Rifondazione Comunista,
e – crediamo – per tutta la
sinistra.
La rivoluzione delle pratiche: l’innovazione di Rifondazione Comunista
Il nostro Partito ha disatteso gli impegni collegialmente assunti con la Conferenza
nazionale
d’Organizzazione di Carrara. Avere proceduto in una direzione opposta
alla democratizzazione
del Partito è tra le ragioni dei gravi errori compiuti negli ultimi mesi,
sino al deficit di
partecipazione e democrazia che ha connotato le modalità di costituzione
della Sinistra Arcobaleno
e la formazione delle sue liste. Riteniamo indispensabile riprendere il documento
di Carrara come
progetto su cui lavorare.
Oggi consideriamo non più differibile il tema della riforma del Partito,
di una sua vera e propria
rigenerazione democratica, al fine di superare l’autoreferenzialità
dei gruppi dirigenti, l’incapacità di
costruire relazioni positive tra centro e organismi periferici, la separatezza
dei gruppi istituzionali,
il burocratismo, il personalismo, l’affacciarsi dentro il Partito di comitati
elettorali, il verticismo, la
pratica di «esternalizzazione» delle decisioni dai luoghi statutariamente
previsti.
«Innovazione» è prima di tutto superamento delle forme autoritarie,
burocratiche ed escludenti – in senso
proprio violente – che spesso rendono il nostro partito non accogliente,
persino respingente in
particolare per giovani e donne (lo dimostra l’elevatissimo turn over
degli iscritti e delle iscritte),
restringendo di fatto le decisioni a chiuse oligarchie, che si riconoscono autorità
e si spartiscono
incarichi e potere.
L’innovazione va praticata innanzitutto nella partecipazione e nell’apertura
a chi non è dentro le
logiche di partito (che peraltro vanno cambiate) e deve poter partecipare alle
discussioni e alle
scelte.
Innovazione è aprire i nostri circoli a esperienze significative di movimento,
di vertenze territoriali,
di pratiche associative.
Il Prc deve assumere irreversibilmente l’impegno di dare forma ad un partito
bisessuato e paritario. A tale
scopo non è sufficiente introdurre le regole della democrazia di genere
(in primo luogo
l’obbligatorietà della rappresentanza paritetica dei sessi). È
necessaria anche una innovazione nelle
modalità della vita democratica, al fine di cercare soluzioni condivise
alle divergenze e ai conflitti e
di rompere la cristallizzazione delle posizioni statiche e precostituite.
Il contributo del pensiero e della pratica politica del movimento femminista
consente di alludere
ad una forma partito non gerarchica, non oligarchica, non piramidale, nella
quale il leaderismo e la
conseguente formazione dei gruppi dirigenti per tramite di cooptazioni rispondenti
a logiche di
fedeltà sono definitivamente superati.
Dobbiamo tornare a sperimentare il valore di una gestione collegiale e unitaria
della direzione
politica. Il superamento e la critica alla forma-partito novecentesca non può
avvenire attraverso
una liquidazione dei processi democratici. Bisogna, invece, ripensare alla costruzione
condivisa del
progetto politico a partire dalle esperienze territoriali.
Correggendo la tendenza verso un partito «leggero» e «mediatico»,
i circoli devono essere
rafforzati, dotati di strumenti operativi che rendano materialmente possibile
la sperimentazione di
forme di organizzazione e partecipazione più efficaci e coinvolgenti,
anche riguardo ai nostri
compagni e compagne residenti all’estero.
Le compagne e i compagni residenti all'estero, organizzati in circoli e federazioni,
sono parte
integrante del corpo del partito e costituiscono una importante risorsa politica
ed umana. L’impegno
politico del partito all’estero è assai importante anche alla luce
delle diverse facce dell’emigrazione
italiana che in questi anni si è ridotta ma non è certo scomparsa.
Le esperienze, maturate in realtà
sociali diverse da quelle nazionali, costituiscono quindi parte integrante dell’elaborazione
e
dell'impegno del partito nella lotta contro lo sfruttamento e il razzismo. Nel
percorso di
innovazione, il partito si impegna a rilanciare e sviluppare l'organizzazione
degli iscritti all'estero,
potenziando le forme esistenti e favorendo lo sviluppo di nuove forme di aggregazione,
creando
sempre più forti legami di reciproco e paritetico ascolto.
La gestione delle risorse deve essere trasparente e la loro destinazione va
decisamente riequilibrata
a favore dei territori, realizzando anche una ristrutturazione dello schema
organizzativo che
consenta, in aree omogenee, di avere forme di coordinamento tra le varie realtà
territoriali
regionali.
Va recuperata la «connessione sentimentale» con la vasta comunità
politica di Rifondazione e con
l’intero «popolo della sinistra». Per rompere il muro di diffidenza
rappresentato dalla visione
dilagante dei politici come «casta», si rende necessaria una misura
concreta di autoriforma: la
fissazione di un tetto alle retribuzione di dirigenti ed eletti del Partito
che sia commisurato a quello
dei settori sociali che intendiamo rappresentare. Anche attraverso la capacità
di incarnare nella
nostra vita quotidiana, la rottura di privilegi e gerarchie, si ricostruisce
il senso della politica come
strumento di trasformazione collettivo. Così come è necessario
non disperdere una importante
acquisizione di Carrara, già presente nello spirito dello Statuto del
Partito: la necessità di porre
limiti precisi e vincolanti, se non di evitare del tutto la sovrapposizione
di incarichi istituzionali e
di direzione politica.
Le ragioni della divisione
Le divisioni del gruppo dirigente che segnano questo Congresso si sono determinate
sul terreno
della prospettiva e della stessa esistenza di Rifondazione Comunista. Le ragioni
della divisione,
che è essenziale aver chiare per comprendere le scelte che siamo chiamati
ad assumere, nulla
hanno a che vedere – lo ribadiamo - con l’assunzione di responsabilità
di una sconfitta, che ci
chiama in causa tutte e tutti. Tutto il gruppo dirigente della maggioranza emersa
dal Congresso di
Venezia, a partire da molti firmatari di questo documento, è parimenti
responsabile.
Il punto di divisione ha riguardato e riguarda invece la prospettiva di scioglimento
di
Rifondazione Comunista in un nuovo soggetto politico.
Nel corso della campagna elettorale è stata autorevolmente avanzata la
proposta politica del
«superamento» di Rifondazione Comunista all’interno di una
costituente della sinistra, da fare
«con chi ci sta». Tale proposta politica è stata ripetutamente
formulata sui mezzi di comunicazione
di massa e ha visto la predisposizione di appelli finalizzati a questo scopo.
È stata cioè presentata
da una parte del gruppo dirigente come una prospettiva politica da praticare
attraverso fatti
compiuti e «irreversibili». Ancora dopo la sconfitta elettorale
è stato proposto di accelerare nella
prospettiva del «processo costituente» della Sinistra Arcobaleno.
Su questo si è diviso il gruppo dirigente, sia per ragioni di metodo,
di espropriazione del dibattito
collettivo – poiché la proposta di superamento del Prc non era
mai stata discussa né decisa da
alcun organismo dirigente del Partito – che di merito.
La critica delle «costituenti»
Per diversi ordini di ragioni consideriamo sbagliata la proposta di una «costituente
della sinistra».
In primo luogo questa proposta non fa i conti con la sconfitta della sinistra.
Il punto su cui si è
determinata la sconfitta non riguarda le forme di organizzazione della sinistra
politica ma il
rapporto tra la sinistra e la società. Siamo stati percepiti come non
utili dai nostri referenti sociali e
non siamo stati in grado di aggredire gli effetti della crisi della globalizzazione,
il diffuso senso di
insicurezza e paura su cui le destre populiste hanno costruito un processo egemonico
che le ha
portate al successo elettorale. Mettere al centro i processi di riaggregazione
politica della sinistra
(concretamente tra Prc e Sinistra Democratica, vista l’indisponibilità
di PdCI e Verdi), non ci fa
fare un passo in avanti nella soluzione della crisi verticale in cui è
la sinistra è precipitata nel suo
rapporto con la società.
In secondo luogo la proposta di una «costituente della sinistra»
aumenta la concorrenza interna alla
sinistra stessa e questo è, con tutta evidenza, il contrario di ciò
che serve per ripartire.
Nella fase in cui la sinistra di alternativa ha funzionato meglio, a partire
da Genova e nella fase
successiva dell’opposizione a Berlusconi, un punto fondante era infatti
l’unitarietà del processo di
costruzione del movimento che ha evitato sia spinte centrifughe e distruttive,
sia gli elementi di
moderatismo e di politicismo. In una situazione di sconfitta il punto dell’unità
è infatti decisivo.
Una «costituente di sinistra» aprirebbe spazi politici alla proposta
speculare di una «costituente
comunista», altrettanto sbagliata perché fondata esclusivamente
su base ideologica e simbolica,
priva di respiro programmatico e di apertura ai movimenti, e dunque incapace
di incidere
positivamente sulla realtà. Entrambi questi processi determinerebbero
un terreno di spaccatura
strutturale del movimento e metterebbero in grave difficoltà la costruzione
di una sinistra e di
una opposizione efficace.
La realizzazione di queste «costituenti» rappresenterebbe quindi
la negazione del progetto
politico di Rifondazione Comunista maturato dopo Genova.
In particolare la riproposizione del progetto della «costituente della
sinistra» comporta la
riduzione di Rifondazione Comunista a un fatto politicamente residuale e conservatore.
Tale
proposta non coglie il ruolo storico del progetto della rifondazione comunista,
basato, a partire
dalla rottura con lo stalinismo, sull’unità dialettica di due termini
che si qualificano a vicenda: la
scelta dell’innovazione radicale e la scelta di rifarsi criticamente e
praticando profonde cesure, ad
un filone politico qualificato dal tema della rivoluzione, intesa come superamento
del modo di
produzione capitalistico.
Il termine «comunista» è sinonimo di «rivoluzionario».
Proprio nell’attuale fase di crisi della
globalizzazione capitalistica, in cui le politiche socialdemocratiche si rivelano
inefficaci perché
subalterne al neoliberismo, ed in cui la destra populista si presenta con un
volto “rivoluzionario”,
la messa in discussione delle compatibilità capitalistiche rappresenta
l’unica politica in grado di
contrastare l’egemonia alla destra.
La proposta di una «costituente della sinistra» non rappresenta
quindi in alcun modo
l’inveramento del progetto politico di Rifondazione Comunista ma la sua
negazione in chiave
moderata. Il cui unico effetto concreto sarebbe garantire la sopravvivenza di
ceti politici nella
dissoluzione del progetto politico, proprio quando questo si presenta come effettiva
necessità
storica e non come mera conservazione di un patrimonio.
II.2. La costruzione dell’unità a sinistra
Le ragioni dell’unità
La sconfitta della Sinistra Arcobaleno non ha per nulla ridotto la necessità
di unire la sinistra.
In primo luogo vi è una richiesta di unità, di lavoro comune che
viene posta da tanti compagni e
compagne, in particolare dopo la sconfitta elettorale. Questa domanda si fonde
con la necessità di
organizzare rapidamente l’opposizione al governo Berlusconi e da questa
riaprire il cammino
dell’alternativa. Ma le ragioni di fondo dell’unità risiedono
soprattutto nel fatto che oggi solo una
parte dei compagni e delle compagne che svolgono attività politica a
sinistra si riconoscono in un
partito. Moltissime persone fanno politica in comitati, movimenti, associazioni,
sindacati;
praticano attività volontarie di aggregazione del tessuto sociale, di
risposta a problemi reali delle
persone, costruiscono elementi di mutualità o solidarietà sociale
che nulla hanno a che spartire
direttamente con il terreno della rappresentanza politica.
Nel corso di questi anni – e il movimento altermondialista ne è
stato un esempio – si è
approfondita la crisi della rappresentanza, ma sono cresciute al tempo stesso
mille forme di attività
e di lavoro politico che occorre riconoscere e rendere quanto più possibile
efficaci. Per questo è
necessario lavorare al loro coordinamento e alla loro sinergia, favorendone
la messa in rete.
Si tratta quindi di porsi il problema di come unire la sinistra, dalle forze
politiche alle associazioni, ai
singoli individui, senza ripetere gli errori e le forzature che hanno caratterizzato
la Sinistra
Arcobaleno.
Rovesciare il processo: costruire la sinistra nella società
La Sinistra Arcobaleno è nata dall’alto come accordo di vertice
tra forze politiche. Non è stata una
federazione, che avrebbe chiesto regole democratiche chiare, un processo di
partecipazione, il
coinvolgimento non solo dei vertici dei partiti ma di tutti i soggetti interessati.
Nulla di tutto ciò è
avvenuto. L’esproprio della discussione e della decisione collettiva ha
inferto una ferita alla nostra
comunità politica. Una ferita resa più amara dalla mancanza di
chiarezza nella proposta politica,
dalla sua stessa presentazione sul terreno mediatico.
Da ultimo, nella riduzione del comunismo, del femminismo e dell’ecologismo
a «tendenze
culturali» si è manifestato il tratto eclettico e politicista dell’operazione,
tesa a ridurre i soggetti a
«culture critiche».
Non è, dunque, il ritardo nella sua costruzione ad aver sottratto credibilità
alla Sinistra
Arcobaleno, bensì il metodo e le pratiche con cui è stata costruita:
una mancanza di progetto e di
soggetto che l’ha connotata come una sinistra senz’anima.
Ora si tratta di rovesciare il processo, anche valorizzando il percorso della
Sinistra europea,
costruendo la sinistra dal basso, a partire dal sociale, in forme democratiche
e partecipate,
coinvolgendo le iscritte, gli iscritti e tutti coloro che a diverso titolo intendono
contribuire alla
rinascita di una forte sinistra sociale e politica.
Noi non pensiamo alla sinistra, come un campo né come un microcosmo da
riaggregare e tanto
meno come uno spazio politico «apertosi» – come pure è
stato detto – alla sinistra del Pd.
Pensiamo occorra ridefinire oggi il significato della sinistra a partire dalla
sua utilità sociale e dal
suo concreto progetto politico. Pensiamo alla rifondazione della sinistra non
sulla base di formule
e modelli, ma a partire da soggetti, esperienze, sperimentazioni. La concepiamo
come un percorso
destinato a procedere per approssimazioni successive, a partire da esperienze
e contenuti di lotta.
Il progetto unitario
Il nostro progetto unitario è rivolto a tutti i soggetti che si schierano
a sinistra e non chiede a
nessuno di sciogliersi, si tratti di un comitato o di un partito.
Occorre costruire una sinistra plurale non come fase di passaggio a più
alte e mirabili sintesi, ma
come condizione fisiologica di una sinistra articolata in una pluralità
di pratiche, di culture
politiche e di riferimenti ideali.
Se la sconfitta che abbiamo subito deriva principalmente dalla percezione dell’inutilità
sociale
della sinistra, il percorso unitario deve ripartire dal radicamento sociale,
dalla presenza nei luoghi
del conflitto e sui territori.
In primo luogo proponiamo di costruire in ogni quartiere, in ogni paese «case
della sinistra»: spazi
pubblici in cui poter socializzare i risultati dell’inchiesta sociale,
mettere in rete le diverse forme di
iniziativa, costruire vertenze territoriali, pratiche di mutualità, consulenze,
spazi di socialità e
lavoro culturale.
Se la destra costruisce la sua egemonia sulla paura e su un’insicurezza
sociale vissuta come
dramma individuale, le «case della sinistra» devono essere, al contrario,
luoghi in cui – come ci ha
insegnato don Milani – i problemi individuali vengono affrontati collettivamente.
E nei quali i
legami sociali e politici vengono costruiti attraverso la partecipazione diretta
e il metodo del
consenso.
In secondo luogo proponiamo di dar vita subito a una coalizione su base nazionale
tra tutti i
soggetti organizzati per costruire l’opposizione al governo Berlusconi;
questa deve vivere sui
territori coinvolgendo singoli, comitati e associazioni, in una sorta di forum
dell’opposizione
sociale.
Non sfugge a nessuno l’urgenza di una iniziativa politica costante, che
non può ridursi
all’organizzazione di una manifestazione nazionale per l’autunno.
Si tratta di un punto decisivo poiché i propositi del governo Berlusconi
sono chiari e lasciano
presagire una potente offensiva reazionaria e anti-sociale sul terreno del lavoro
e delle relazioni
sindacali, sull’ambiente e sulle grandi opere, sul welfare, sull’immigrazione
e sul terreno di una
politica estera aggressiva, subalterna ai dettami della Nato e degli Stati Uniti.
In terzo luogo, a partire dalla pratica dei due obiettivi sopra descritti, proponiamo
di impegnarsi in
un processo aggregativo di tutta la sinistra.
Contro il progetto di spaccare la sinistra sotteso alle due proposte di «costituente»,
proponiamo di
dare corpo a una soggettività politica basata su una rete di relazioni
stabili tra diversi soggetti
organizzati (partiti, organizzazioni sindacali, associazioni, movimenti, comitati
di lotta ecc.), basata
su regole democratiche che garantiscano la piena partecipazione dei singoli
compagni e compagne.
Il Prc, senza abiure o scioglimenti, intende partecipare come soggetto collettivo
alla costruzione
della sinistra unitaria e plurale. Saranno pertanto le compagne e i compagni
di Rifondazione
Comunista a decidere democraticamente le modalità della partecipazione
a questo percorso.
Al contrario di quanto accaduto nell’esperienza della Sinistra Arcobaleno,
il processo unitario che
proponiamo, non deve essere un accordo di vertice centralistico e antidemocratico.
Per noi la
costruzione della sinistra politica passa necessariamente dalla ricerca, dall’ascolto,
dalla
partecipazione, dalla costruzione collettiva di lotte e progettualità
politica.
II.3. L’opposizione al governo Berlusconi-Confindustria
Il governo Berlusconi sta agendo molto rapidamente per la realizzazione del
suo programma e,
data l’ampia maggioranza parlamentare di cui gode, potrà procedere
speditamente a realizzare i
suoi propositi di controriforma. Visti il programma con cui il Pd si è
presentato alle elezioni e la
linea dell’”opposizione non pregiudiziale” del gruppo dirigente
veltroniano, appare tutt’altro che
scontato che questo partito faccia una vera opposizione al governo. Decisivo
è quindi costruire una
opposizione sociale e politica che sappia da subito misurarsi con la rapidità,
la durezza e nello
stesso tempo l’intelligenza dell’attacco.
L’offensiva contro i diritti del lavoro
È assai probabile che Berlusconi, lungi dal ripetere gli errori commessi
nella sua precedente
esperienza di governo, punti a un coinvolgimento concertativo degli attori sociali
in particolare sul
tema del lavoro, potendo tra l’altro contare sulla mancata distribuzione
dell’extragettito e dunque
su una certa quantità di risorse utilizzabili per offrire ai lavoratori
soldi in cambio della cessione di
potere e diritti. Una strategia funzionale alla più radicale aggressione
contro diritti e livelli
retributivi.
Va ricordato come la neo-presidente di Confindustria abbia subito individuato
nell’attacco al
contratto nazionale di lavoro – strumento fondamentale di regolazione
universalistica e solidale
dei rapporti tra capitale e lavoro – il principale obiettivo dell’iniziativa
padronale. In questa
posizione vi è una profonda assonanza con il governo Berlusconi, che
vuole detassare straordinari,
premi e regalie aziendali per sostituire il paternalismo individuale alla contrattazione
collettiva.
La stessa proposta di introdurre le gabbie salariali va nella direzione di smontaggio
del contratto
nazionale di lavoro. Dopo la cancellazione della sinistra dal Parlamento, governo
e Confindustria
vogliono far scomparire il movimento dei lavoratori, con una «innovazione»
reazionaria che ci
riporterebbe all‘800.
A nessuno può sfuggire come questa offensiva non veda l’opposizione
della maggioranza della
Cgil: contestualmente all’attacco nei confronti della sinistra politica,
è partito l’attacco alla sinistra
sindacale e alla Fiom. Con l’accettazione del documento sulla riforma
della contrattazione, la
maggioranza della Cgil, vuole aprire un nuovo capitolo della rappresentanza
sociale connotato
dall’interclassismo sindacale. Questa scelta cambierebbe il modello di
sindacato generale,
rivendicativo, conflittuale e di classe che ha contribuito all’emancipazione
dei lavoratori e ha
diffuso con le lotte sindacali la conquista dei diritti nel mondo del lavoro.
Contro questa offensiva è necessario impegnarsi da subito nella costruzione
di un vasto
schieramento di forze sociali e politiche, in grado di opporsi a tale disegno
regressivo, rilanciando
il movimento di lotta per il salario e il ripristino di un meccanismo di recupero
automatico del
potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni (nuova «scala
mobile»); contro lo sfruttamento
del lavoro precario (compreso il lavoro autonomo di tante partite Iva e co.co.pro.)
nel settore
pubblico e privato; contro le pensioni da fame e lo smantellamento del welfare;
in difesa del
contratto collettivo nazionale e contro la drammatica caduta degli standard
di sicurezza sul lavoro,
responsabile di oltre un milione di incidenti all’anno e della tragedia
di quattro «morti bianche» al
giorno.
L’attacco all’ambiente,ai beni comuni, ai diritti sociali
e al sistema costituzionale
L’offensiva della destra ovviamente non sarà rivolta solo al mondo
del lavoro.
Le grandi opere – dalla Tav al ponte sullo Stretto ai rigassificatori,
alle nuove centrali a carbone –
saranno un cavallo di battaglia motivato in nome di un colbertismo anticiclico.
Contro questo modello di sviluppo distruttivo dobbiamo operare per rafforzare
le lotte sui territori e
la messa in comunicazione dei saperi alternativi. Dobbiamo facilitare gli elementi
di coordinamento
tra le vertenze in un percorso partecipato di elaborazione di un contropiano
nazionale sull’energia, il
trasporto, la gestione dei rifiuti.
Decisivo inoltre è difendere la società dall’offensiva privatizzatrice
bipartisan, che Confindustria
auspica e sospinge; questo significa difendere i beni comuni e, tra questi,
in primo luogo l’acqua.
Occorre dare centralità al movimento per la ripubblicizzazione dell’acqua,
valorizzando la capacità
costruita in anni di originale mobilitazione nei territori e di coinvolgimento
delle comunità e degli
enti locali.
L’attacco al welfare – con la riduzione dei servizi pubblici, la
costruzione di un mercato dei servizi
e il rilancio deciso della sussidiarietà – costituirà un
ulteriore pilastro di questa offensiva, intrecciato
all’attacco alla libertà e all’autodeterminazione delle donne,
alla riproposizione della famiglia come
luogo di erogazione gratuita del lavoro femminile. Il processo di riduzione
del tempo dedicato al
lavoro di cura, che comunque le donne hanno messo in atto in questi anni, in
assenza di una
risposta pubblica, si è tradotto nella diminuzione dei tempi delle relazioni,
nell’aumento delle
solitudini. Questa contraddizione rappresenta uno dei fattori di crisi della
qualità della vita delle
donne e della qualità della convivenza fra donne e uomini e fra generazioni
diverse.
La lotta per la difesa e il rilancio delle politiche di welfare è dunque
un punto essenziale della nostra
iniziativa. Si tratta di operare per saldare le mille forme di vertenzialità
specifica agiti dagli utenti e
di metterle in connessione con i lavoratori dei servizi. Solo in questo intreccio
si può determinare
l’efficacia dell’iniziativa politica..
Una particolare importanza occupa il tema della casa, un vero e proprio dramma
sociale, di cui non
vi è adeguata percezione politica. La disastrosa situazione abitativa
del nostro paese, esito di un
ventennio di politiche liberiste, ha ridisegnato le città, espulso in
periferie spesso desertificate i ceti
popolari, ed è uno dei terreni su cui più immediatamente si determinano
meccanismi di “guerra tra
poveri”. La lotta per un piano di edilizia pubblica al fine di avere disponibilità
di case ad affitti
decenti è da intrecciare ad una lotta per ottenere tutele per quelle
decine di migliaia di famiglie che
vedono oggi crescere il costo dei mutui a livelli esorbitanti. La ripresa di
una mobilitazione
collettiva sul tema del diritto alla casa è punto decisivo nell’opposizione
a questo governo che nella
saldatura tra rendita e profitto ha uno dei suoi punti di forza materiali, e
nel conflitto per l’accesso a
protezioni sociali sempre più scarse, una delle leve principali della
propria egemonia.
Infine, a coronamento di un organico disegno reazionario, non mancherà
di farsi strada il progetto
complessivo di revisione costituzionale, largamente condiviso dal Pd, all’insegna
di logiche
autoritarie e oligarchiche (presidenzialismo, riduzione della rappresentanza
degli interessi sociali,
marginalizzazione del Parlamento) e della volontà di costituzionalizzare
(attraverso il federalismo
fiscale) i divari di ricchezza e di sviluppo tra le varie aree del Paese.
L’attacco ai diritti di libertà e alle garanzie costituzionali
si annuncia tanto più minaccioso nel
clima creatosi in Italia con la vittoria della destra populista e razzista:
un clima sociale e politico
pericoloso, che incoraggia agguati di marca neonazista, come nel caso dell’omicidio
di Verona, e
pogrom razzisti contro insediamenti rom.
In questo contesto di grande allarme – esasperato dall’enfasi mediatica
sulla presunta «emergenza
sicurezza» – occorre sviluppare immediatamente la massima capacità
di contrasto politico, sociale
e culturale nei confronti della logica securitaria della destra, espressasi
nelle prime decisioni del
governo in materia di immigrazione e supportata purtroppo anche da vasti settori
politici e
amministrativi facenti capo al Pd.
La sinistra deve mostrare la propria capacità di iniziativa denunciando
le ormai giornaliere
aggressioni a immigrati, gay, rom; chiamando alla mobilitazione contro il clima
di caccia alle
streghe nei confronti di ogni conflitto e manifestazione di dissenso; impegnandosi
per la
ricostruzione di un senso comune antifascista soprattutto tra le giovani generazioni;
ricostruendo una
concezione della sicurezza alternativa al securitarismo e al giustizialismo,
che rilanci
costituzionalismo democratico, Stato di diritto, sistema delle garanzie. La
lotta al securitarismo è
rifondazione di senso, di legame sociale, di sicurezza di lavoro, di reddito,
di vita. Così come va
rilanciata con forza la battaglia antiproibizionista che costituisce l’altro
lato delle politiche
securitarie della destra.
Occorrerà riattivare i luoghi del conflitto e provare a organizzare una
controffensiva sociale, con
l’individuazione dello spazio europeo come terreno indispensabile per
dare efficacia alla nostra
azione. E si dovrà tenere viva la connessione tra i contenuti sociali
e la mobilitazione per politiche
di pace e in solidarietà con i popoli minacciati o direttamente aggrediti
(a cominciare da Palestina,
Cuba e Venezuela). In ogni caso, la costruzione dell’opposizione non sarà
una operazione semplice
o automatica. Non basterà dire di no: sarà necessario costruire
piattaforme che riconnettano senza
scorciatoie i nessi della frantumazione sociale.
Costruire l’opposizione a partire dai diversi contesti territoriali
Le differenze territoriali in questi anni in Italia sono notevolmente aumentate.
Su queste
differenziazioni le destre populiste hanno costruito parte consistente delle
proprie fortune
elettorali e politiche. Il punto decisivo per mettere in discussione questa
egemonia delle destre o il
controllo del territorio da parte della malavita organizzata consiste nella
rivitalizzazione dei percorsi
democratici e di partecipazione, finalizzati alla costruzione di una diffusa
vertenzialità territoriale, che
ricostruisca protagonismo sociale in grado di intrecciare la questione di classe
con il rafforzamento
dei legami sociali e la costruzione di comunità territoriali solidali.
La crisi sociale del Nord del Paese e dell’«Italia di mezzo»
Il Nord del Paese è attraversato da profondi cambiamenti – che
in questa fase paiono acuirsi e
consolidarsi – e da una lunga crisi delle forme di socialità, di
aggregazione e di conflittualità, che
hanno caratterizzato nel ‘900 l’Italia settentrionale.
Il neo-liberismo manifesta il suo carattere pervasivo attraverso molteplici
processi: l’aumento
ulteriore dello sfruttamento del lavoro dipendente e operaio – sovente
destrutturato dai processi di
riorganizzazione e di “dispersione” delle imprese; l’utilizzo
come “carne da lavoro” di lavoratori e
lavoratrici migranti, identificati al contempo come i «nemici sociali»;
la rincorsa continua alla
competitività da parte dei soggetti e dei poteri forti, che chiede –
attraverso la continua
realizzazione di infrastrutture – la devastazione e la cementificazione
dei territori.
In questo contesto, nel Nord, si è rafforzato l’individualismo
proprietario ed è cresciuto il
riferimento al territorio e alla comunità come elementi su cui ricostruire
un’identità chiusa.
Le aree del Nord più sviluppate si presentano come un continuum di capannoni,
fabbriche, centri
commerciali e abitazioni, in cui mancano spazi pubblici e di aggregazione. Va
ricostruita una forte
capacità conflittuale che muova dalle mille forme di lavoro operaio,
dalle tante precarietà diffuse,
dalla rigenerazione di nuove forme di solidarietà, da un nuovo bisogno
di comunità democratiche.
L’onda lunga del neo-liberismo si fa sentire anche in quella che i sociologi
chiamavano «Italia di
mezzo», mettendo anche lì in discussione modelli e forme di convivenza,
di socialità, di sviluppo
solidale.
Non esistono zone franche da questo punto di vista. Basti pensare all’affermazione
della Lega
Nord in Emilia-Romagna.
L’avanzare della cementificazione sul piano territoriale e della rendita
sul piano economico porta a
mutamenti profondi nella composizione sociale e nella coscienza collettiva.
Va in crisi il ruolo della
cooperazione, che sempre di più rischia di essere assorbita da logiche
tout court mercantili; è in
crisi in termini più generali e complessivi l’idea di sviluppo
solidale, basato su politiche
redistributive forti ed avanzate sul piano sociale, che ha caratterizzato per
lungo tempo quelle
regioni. Il Partito Democratico, forza di governo ancora maggioritaria (anche
se non ovunque), si
pone come mero gestore e spettatore di tali processi. Anche qui si afferma la
necessità della
costruzione dell’alternativa.
In particolare in queste aree, tra i processi di trasformazione del lavoro va
consatata sia la
dilatazione di forme tradizionali di lavoro autonomo che sue forme nuove, così
come la dilatazione
dell’area di micro-imprese assai simili al lavoro autonomo. Si tratta
di sei milioni di persone, più
molti altri milioni di dipendenti delle micro-imprese. Occorre ricostruire una
attenzione della
sinistra verso queste figure lavorative, ascoltarne le richieste, fare inchiesta
e individuare politiche
che permettano di riaprire un dialogo proficuo.
Il Mezzogiorno
In particolare per il Sud occorre un progetto che abbia l’ambizione di
forzare i vincoli di una
storica dipendenza economica ancora più aspra nel quadro contemporaneo
della globalizzazione.
Per questa via è possibile intaccare una realtà sociale in cui
persistono e si accentuano la presenza e
il peso della malavita organizzata. Un Mezzogiorno che restasse confinato nel
suo destino storico
di area di consumo, di manodopera precaria a basso costo cui sono riservati
i segmenti poveri e
nocivi della produzione, non potrebbe mai trovare gli anticorpi necessari per
contrastare in radice
il potere criminale.
I governi di questi anni, pur con lievi differenze, hanno segnato una grande
indifferenza rispetto al
Sud. Spesa pubblica, spesa in conto capitale, trasferimenti ordinari hanno subito
una caduta
verticale costringendo i Comuni ad utilizzare per l’ordinario i fondi
europei che così non hanno
inciso su occupazione e qualità sociale esponendo la programmazione alla
frantumazione e alla
dispersione, anche clientelare. Nessun disegno nazionale capace di selezionare
gli investimenti per
l’industria innovativa, i sistemi ambientali, le infrastrutture di qualità
e nemmeno il
cofinanziamento della legge campana, l’unica in Italia, che pur con limiti
ha messo in campo un
reddito di cittadinanza.
Non sorprende che in questo quadro si sia rafforzato il peso delle organizzazioni
mafiose – Cosa
nostra, ’Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita – che non solo
controllano militarmente vaste
aree del Mezzogiorno (spesso sostituendosi allo Stato nell’erogazione
di “servizi” e nella
mediazione sociale), ma, muovendo un giro d’affari pari al 7% del Pil
nazionale, costituiscono
ormai un’insida mortale per la stessa legalità democratica.
Forti della protezione loro garantita da politici e amministratori collusi,
le mafie esercitano potere
di controllo e di comando nei settori degli appalti per le grandi infrastrutture
pubbliche, della
gestione del micro-credito e del ciclo dei rifiuti, oltre che nelle attività
criminali legate al traffico di
stupefacenti e al riciclaggio di denaro sporco, al racket delle estorsioni e
all’usura, al gioco e alla
prostituzione.
Occorre quindi invertire la tendenza, con la ripresa di una battaglia politica
che saldi la questione
del reddito, al modello di sviluppo, alla riforma della politica e alla lotta
alla criminalità
organizzata.
Per un’antimafia sociale
Contro questo cancro – che contribuisce direttamente alle pessime condizioni
di vita e di lavoro
delle classi popolari del Sud – è urgente rilanciare l’iniziativa
sociale, concentrandosi in particolare
nella lotta contro le ecomafie, la realizzazione diffusa di megacentri commerciali
(in realtà snodi di
riciclaggio di profitti illegali) e la progettazione di infrastrutture faraoniche,
devastanti e superflue
come il ponte sullo Stretto.
Come ci hanno insegnato Peppino Impastato, Pio La Torre, Placido Rizzotto le
mafie non sono
fenomeni gangsteristici legati a nicchie di arretratezza dello sviluppo, ma
intreccio tra economia
legale e illegale come segmenti dei processi di accumulazione, dei processi
di valorizzazione del
capitale. Il neoliberismo fa bene alle mafie.
Perciò la nostra è antimafia sociale: volontà di costruire
percorsi di legalità e presidi democratici sul
territorio; le mafie si combattono attaccandone le ricchezze, con il sequestro
e la confisca dei loro
beni, ridestinandoli ad uso sociale, restituendoli alla collettività
e facendone occasione di lavoro,
così come concretamente sta facendo l’associazione “Libera”
di don Ciotti, che rappresenta la
trincea più avanzata di lotta alla mafia.
La «questione sarda»
Senza qui definire ipotesi per nuove forme organizzative, occorre elaborare
un progetto specifico
per la Sardegna, dove la sinistra autonomista e quella nazionalitaria stanno
costruendo una
impegnativa resistenza contro la funzione militare assegnata all’isola
e contro il tentativo di
nascondere i danni provocati alla salute delle popolazioni dalle armi in uso
nei poligoni di
addestramento.
La scelta di tenere il G8 in Sardegna rappresenta il simbolo del tentativo di
deindustrializzare e
distruggere la cultura operaia e contadina, privatizzare l’acqua, stravolgere,
attraverso modelli
americanizzanti di consumo, quella ricchezza di biodiversità e di cultura
comunitaria e solidale
che ha contribuito a formare una coscienza di classe e di popolo.
L’organizzazione e la partecipazione ai diversi movimenti di lotta e un
tentativo di loro saldatura
nella elaborazione di un diverso modello di sviluppo che abbia al centro la
valorizzazione del
percorso partecipativo costituiscono il terreno su cui dobbiamo concretamente
agire.
Contro il federalismo fiscale, per il salario sociale: un nuovo meridionalismo
per l’Europa
Il governo Berlusconi nasce con l’obiettivo di completare il federalismo
fiscale che renderà ancora
più forte i divari e la condizione di disagio delle regioni meridionali.
Le criticità interne al
Mezzogiorno (fragilità del tessuto democratico, debolezza delle amministrazioni
locali, tendenza
allo scambio clientelare) da incalzare e criticare non devono farci velo alla
necessità di suscitare un
grande movimento di opinione e di massa che leghi insieme disoccupati, precari,
sindacati,
esperienze istituzionali democratiche del Mezzogiorno.
Non si tratta di sottovalutare le contraddizioni locali ma di puntare a risolverle
nella spinta tesa a
cambiare la politica economica del Paese contrastando il federalismo fiscale,
rivendicando un
salario sociale, chiedendo la ripresa di un adeguato flusso di spesa verso il
Sud, di politiche
pubbliche che orientino uno sviluppo produttivo realmente sostenibile. Si tratta
di battersi per un
Mezzogiorno che guardi al Mediterraneo e all’Europa, tentando di fare
crescere un progetto di
cooperazione economica che lo svincoli progressivamente dai flussi che lo hanno
destinato ad una
sorte di dipendenza economica e politica.
La dimensione mediterranea è la condizione di confronto con l’Europa,
per costruire forme e
modelli di sviluppo che non guardino solo ad una crescita economica che ha fatto
bancarotta, ma
sappiano sfidare le tendenze della globalizzazione alla guerra, alla mercificazione
delle persone, al
dominio sulla natura e sul vivente.
Parte terza
PER L’ALTERNATIVA DI SOCIETÀ.
I SOGGETTI E LE CULTURE DELLA TRASFORMAZIONE
Dobbiamo confrontarci col nostro deficit di conoscenza e di analisi critica
delle nuove forme del
dominio, con la dilatazione tendenzialmente totalitaria del capitalismo del
nostro tempo, con
l’inedito processo di passivizzazione che attraversa la nostra società.
La costruzione della sinistra
sociale e politica pone allora il problema della costruzione della coscienza
politica, della gramsciana
“comprensione critica di se stessi” e, come ci ha insegnato il movimento
delle donne, la costruzione
del soggetto politico non può non essere un processo di liberazione dei
corpi e delle menti.
La vittoria delle destre, è stata, infatti, prima ancora che elettorale,
culturale: una gigantesca
“rivoluzione passiva” basata sull’ideologia della sicurezza
come risposta immediata all’insicurezza
sociale nell’ambito di una più generale egemonia dell’impresa
e del mercato. E’ questa la risposta
alla crisi del neoliberismo: una risposta egemonica, divenuta senso comune.
Per contrastare
l’egemonia della destra, l’alternativa di società, la capacità
di ricostruire relazioni e soggettività,
rimane l’orizzonte della nostra possibile risposta, nel rapporto con i
movimenti. La nostra inchiesta
si svolge, dunque, in primo luogo per comprendere e per entrare in relazione
con i soggetti
dell’alternativa. La sconfitta ha assunto dimensioni tali da non consentire
alcuna pigrizia nel
rivedere le proprie abitudini di pensiero, le proprie chiavi di lettura della
realtà e la maniera in cui
definiamo i contenuti e le priorità della politica. L’elaborazione
di un nuovo pensiero politico
adeguato al presente sta dinnanzi a tutta la sinistra e ai movimenti. Si tratta
di un lavoro di analisi e
di riflessione indispensabile per costruire un nuovo senso comune di massa,
ad anche un
immaginario e un linguaggio capaci di contrastare l’imbarbarimento delle
relazioni sociali e le
ideologie e i modelli dominanti.
Ripartire dalla alternativa di società significa tornare a fare società,
reimmaginare una politica che
metta in connessione vertenze territoriali, esperienze mutualistiche e di autogoverno,
lotte, progetto
politico, speranze.
L'internità
al movimento
La risposta alla sconfitta deve ripartire dalla scelta strategica dell’internità
al movimento
altermondialista, che ha affermato, ad esempio, la propria efficacia nell’impedire
che per ben
quattro sessioni negoziali della Wto le multinazionali potessero ottenere una
generalizzata
immissione nel mercato dell’acqua, della sanità e dell’istruzione.
Le lotte e l’elaborazione del movimento altermondialista sono all’origine
della primavera
latinoamericana, alla quale il nostro partito ha giustamente guardato come a
un luogo avanzato di
critica al neoliberismo, sviluppando relazioni forti con le realtà che
ogni giorno subiscono gli
attacchi delle destre reazionarie e degli Stati Uniti.
Nel subcontinente che per primo ha sperimentato le teorie neoliberiste e monetariste,
dopo
l’esperienza rivoluzionaria di Cuba che pur con limiti ed errori ha resistito
nonostante un embargo
ingiusto e criminale, l’opposizione al neoliberismo ha visto nascere l’esperienza
dei Social forum
mondiali e di movimenti come quelli zapatista, indigenista e bolivariano, che
oggi costituiscono una
speranza di emancipazione non solo per i rispettivi Paesi, ma anche per riaprire
la prospettiva di un
«socialismo del XXI secolo» segnato dalla democrazia partecipativa
e dal rifiuto della guerra.
La sinistra latino-americana è quindi oggi un laboratorio decisivo per
tutta la sinistra di
trasformazione nel mondo. È pertanto necessario operare per la ricostruzione
di una non formale
solidarietà internazionale e per la realizzazione di forme di coordinamento
solidale capaci di
garantire mutuo sostegno e convergenza politica.
Il Partito deve lavorare per rafforzare e consolidare le relazioni con il Foro
di San Paolo e il Forum
sociale mondiale, tentando di costruire uno spazio permanente di confronto,
elaborazione e azione
comune con la sinistra e i movimenti latino americani.
Su questo stesso terreno, la mobilitazione contro il G8 alla Maddalena, così
come l’opposizione
all’insediamento della base militare del “Dal Molin” presso
Vicenza e al mantenimento del sistema
delle basi Nato e Usa, sono per noi impegni fondamentali sia nell’azione
di contrasto al governo
Berlusconi che nell’ottica dell’internità al movimento antiglobalizzazione.
Il conflitto capitale-lavoro
I problemi e le lotte del lavoro costituiscono uno dei terreni cruciali per
la ricomposizione di un
nuovo movimento operaio. Intendiamo con ciò riferirci non solo ai problemi
del salario
(considerate anche le prestazioni dello Stato sociale) e della copertura pensionistica;
e alla tutela
dei diritti e delle condizioni di sicurezza contro malattie e infortuni. Ma
anche al tema politico
della (ri)costruzione della soggettività del lavoro come protagonista
sulla scena sociale
democratica.
Di fronte al drammatico impoverimento delle classi lavoratrici e allo sfondamento
capitalistico sul
campo dei diritti e delle tutele occorre rimettere in comunicazione tutti gli
attori del conflitto di
classe, a cominciare dalle organizzazioni sindacali disponibili a misurarsi
su questo terreno.
Occorre porsi al servizio delle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori per
un salario adeguato e
contro l’abbattimento dello Stato sociale, contro la precarietà
(le leggi Treu e 30) e la vergogna delle
pensioni da fame, contro lo smantellamento del contratto nazionale e a difesa
della salute e della
sicurezza sul lavoro. Un compito primario è ricostruire la cultura del
conflitto e restituire a chi
lavora la consapevolezza dell’essere classe, quindi controparte del capitale.
La ricomposizione della soggettività del conflitto chiama in causa quella
vera e propria
«mutazione antropologica», la frammentazione determinata dai processi
di precarizzazione del
lavoro e delle vite: di qui la necessità ridefinire il nesso lavoro-non
lavoro, tempo di lavoro, tempo
di produzione, tempo di vita. Si tratta più in generale, di analizzare
la capacità del capitale di
estrarre valore da ogni facoltà umana: è questo il caso del precariato
cognitivo (della centralità
della produzione di conoscenza nei processi di accumulazione) così come
dei processi di
femminilizzazione del lavoro (della capacità di relazione e cura fagocitati
da un capitalismo
tendenzialmente totalitario e connesso a nuove forme di patriarcato).
Dall’analisi dei processi di trasformazione del lavoro nasce la proposta
di un reddito sociale come
strumento di ricomposizione dei soggetti nel conflitto capitale-lavoro. Ricomporre
nel conflitto per
diritti e garanzie quel nuovo esercito industriale di riserva delle e dei precari
significa rafforzare i
diritti anche del lavoro cosiddetto garantito.
Così come si tratta di valorizzare e generalizzare l’utilizzo dell’inchiesta
operaia, a partire
dall’analisi dei risultati di quanto sin’ora prodotto sia dal Partito
che da altri soggetti, tra cui
vogliamo sottolineare il pregevole lavoro svolto dall’inchiesta Fiom.
Infine, per collocare da subito il Partito nel vivo di tali questioni,proponiamo
di convocare dopo il
Congresso, all’inizio del nuovo anno politico, la Conferenza dei lavoratori
e delle lavoratrici,
articolata territorialmente e preparata con iniziative in tutti i circoli.
Il movimento per la pace
A fronte dell’allargarsi dei conflitti e della guerra come elemento costitutivo
della crisi della
globalizzazione, la lotta per la pace e l’opposizione alla guerra sono
indissolubilmente legate alla
battaglia per l’alternativa, per la ricostruzione di una sinistra anticapitalista
e di un punto di vista
internazionalista sul mondo.
Sostenere le lotte dei popoli per il proprio diritto all’autodeterminazione
significa riprendere il
cammino per la fine di ogni colonialismo, sia nelle forme militari dove è
ancora presente, sia in
quelle della nuova dipendenza economica. Su questo terreno l’Europa appare
divisa e subalterna
all’amministrazione Bush, come hanno dimostrato da ultimo il riconoscimento
dell’indipendenza
del Kosovo, l’installazione dello scudo missilistico nei Paesi dell’est.
Per quanto riguarda la cruciale situazione mediorientale, al fine di riaprire
una prospettiva politica
che esca dalla dicotomia fra l’ipotesi integralista religiosa e quella
del disegno nordamericano,
crediamo essenziale il ruolo che possono svolgere le forze della società
civile e della sinistra, in
Palestina, in Israele, e in tutta l’area, dove rimangono insolute altre
questioni: quella del popolo
kurdo, con la Turchia che ha avviato una nuova stagione di repressione e guerra;
quella del popolo
Sarawhi, che ha scelto la via pacifica per una soluzione che ancora stenta ad
intravedersi.
La scelta per il Prc di guardare al Mediterraneo, e di lavorare per favorire
i processi di pace nella
regione, significa pensare al meticciato come prospettiva avversa alla paura
e agli odi, e ad una
Europa non atlantica, modello di convivenza radicalmente alternativo a quello
dello «scontro di
civiltà».
Rifondazione Comunista deve tornare a investire nel movimento per la pace e
per il disarmo,
sostenendo la battaglia per una Italia e una Europa libera dalla Nato e per
il disarmo su scala
globale.
La sinistra in Europa
La sinistra di alternativa in Europa ha avuto nel corso degli scorsi anni alterne
vicende, politiche
ed elettorali. Risultano in estrema difficoltà e penalizzate, le forze
che hanno provato a partecipare
a governi nazionali di centro sinistra o a sostenerli dall’esterno. Spagna,
Francia e Italia, ma anche
l’esperienza della Svezia, ci parlano di questo dato comune.
Allo stesso tempo però, partiti e movimenti di sinistra alternativa registrano
successi e crescite. Ciò
avviene in Germania, Olanda, Grecia e Portogallo, senza dimenticare l’Akel
di Cipro: casi
differenti, ma accomunati dall’aver proposto un profilo di opposizione,
radicalmente alternativo a
quello delle socialdemocrazie, avverso alle politiche monetariste e di riduzione
della spesa
pubblica imposte dalla Banca centrale europea, e in netto contrasto ai sistemi
bipartitici di fatto
dominanti in quei Paesi.
In tale contesto, la Sinistra europea ha rappresentato, per l’Italia,
un momento di sperimentazione
sul terreno delle forme della politica. Si è trattato di un’esperienza
non priva di limiti, che tuttavia
ha costituito un primo tentativo di superare la concezione classica del rapporto
partito-movimento,
di inverare la scelta strategica dell’internità ai movimenti, di
unire in una «rete di reti» soggetti
politici diversamente organizzati e di dare vita a processi decisionali capaci
di coniugare
democrazia e partecipazione.
La tesi della scomparsa della sinistra, che nel nostro Paese ha animato le accelerazioni
verso
un’unità priva di fondamento politico come l’Arcobaleno,
è quindi frutto di una visione parziale,
legata ad alcune realtà piuttosto che ad altre.
La questione dell’unità della sinistra, come emerge chiaramente
da questi Paesi, non può fondarsi
sulla forma, ma sul progetto politico: un progetto che non può che essere
radicalmente alternativo
a quello che ha visto in tutta Europa, nel corso degli ultimi quindici anni,
prevalere le politiche
monetariste e di controllo della spesa imposte dalla banca centrale europea
e dai criteri di
Maastricht.
Anche in vista dell’imminente scadenza elettorale delle elezioni europee,
occorre ribadire la nostra
collocazione nel quadro delle forze che insieme a noi fanno parte della Sinistra
Europea e del
gruppo Gue-Ngl al Parlamento europeo: forze e partiti alternativi al progetto
neoliberista,
tecnocratico e oligarchico sotteso al Patto di stabilità e al Trattato
di Lisbona.
La conoscenza, bene comune
Nel capitalismo globalizzato la conoscenza entra sempre più direttamente
nel cuore dei processi
produttivi. Ciò richiede una risposta alta, che si deve fondare sull’idea
della conoscenza come bene
comune e sul diritto universale al sapere.
La conoscenza e la cultura contribuiscono alla formazione dei livelli di consapevolezza
degli
individui e quindi sono patrimonio di tutti, bene inalienabile, ambito strategico
di investimento
pubblico.
Vogliamo politiche economiche e sociali che garantiscano a tutti l’accesso
alla produzione e alla
fruizione della cultura; che ai lavoratori della cultura siano riconosciuti
i diritti di tutti gli altri.
Vogliamo la piena valorizzazione del patrimonio di beni culturali e ambientali,
sottratti alla logica
della mercificazione.
La scuola, in questi anni, ha svolto nel suo insieme un ruolo di tenuta democratica,
rispetto a valori
come l’uguaglianza, la pace, le diversità come arricchimento per
tutti/e. Consideriamo
irrinunciabile un sistema formativo pubblico, laico ed ispirato ai valori della
Costituzione.
Il diritto allo studio, esigibile come bene fondamentale ed universale, dalla
scuola dell’infanzia
all’università, deve crescere quantitativamente e qualitativamente,
integrarsi col sistema della
ricerca scientifica e tecnologica. L’elevamento dell’obbligo scolastico
fino ai 18 anni, collegato a
forme di reddito sociale, in un sistema sostanzialmente unitario, costituisce
perciò un obiettivo
strategico.
Va rilanciata la battaglia contro la dequalificazione della ricerca pubblica
e contro la concezione
mercantilistica della conoscenza, per una politica di investimenti massicci,
per dare risposte alle
decine di migliaia di intelligenze precarie e per consentire attraverso la stabilità
lavorativa uan
ricerca pubblica di qualità. La Rete e le tecnologie informatiche sono
oggetto dello scontro tra chi
vuole imporre nuove “recinzioni” e chi difende e promuove condivisione
e cooperazione (software
libero, difesa della privacy e della libertà di espressione, filesharing,
copyleft, ecc.) e rappresentano
un terreno nel quale sissperimentano e si reinvestano nuove forme di democrazia
e agire collettivo.
La soggettività politica femminista
Il movimento delle donne ha rimesso al centro della politica nodi «tradizionalmente
impolitici»,
quali il rapporto tra i sessi, il rapporto tra personale e politico, il rapporto
tra corpo e legge. La
critica femminista ha messo a tema la critica all’ordine patriarcale vero
e proprio sistema
proprietario e colonizzatore, fondatore di un tempo e di uno spazio di violenza
non soltanto
interpersonale ma anche sociale e simbolico: ha svelato, dunque, la falsa neutralità
del maschile e
posto il tema della fondazione della politica sulla rimozione di uno dei due
generi.
Siamo oggi di fronte di fronte ad una vera e propria reazione culturale che
si misura ancora una
volta sul corpo delle donne. Una nuova generazione politica femminista, nella
fertile relazione col
movimento Lgbtq, è uscita dal silenzio. Ha posto alla sinistra il tema
della sua rifondazione a
partire da nodi considerati eticamente sensibili, ma, per noi, pienamente politici:
l’autodeterminazione e la difesa della legge 194; l’abrogazione
della legge 40 e la critica al
familismo; la lotta contro la violenza maschile sul corpo delle donne e per
l’estensione dei diritti
civili a partire dal riconoscimento delle coppie di fatto.
I migranti
Il punto da cui partire è la presenza stabile di quattro milioni di uomini
e donne migranti
all’interno dell’economia e della società italiana. L’ideologia
che giustifica i meccanismi di
esclusione (e di inclusione subordinata nell’economia sommersa e illegale)
è un composto in cui si
mescolano vecchie e nuove forme identitarie, la concorrenza fra strati sociali
impoveriti, la
frammentazione delle relazioni, l’insorgere di una condizione perenne
di paura che fa
dell’immigrato il capro espiatorio su cui scaricare tensioni.
Occorre operare su più fronti, intervenendo nella società e nelle
istituzioni per concrete politiche
che aggrediscano questo razzismo in quanto strumento di legittimazione di pratiche
di
sfruttamento materiale.
Vanno combattute le limitazioni alla libera circolazione delle persone, l’inscindibilità
fra contratto
di lavoro e permesso di soggiorno, qualsiasi forma di detenzione amministrativa,
con la chiusura
dei Cpt, che negano lo Stato di diritto.
La percezione degli «stranieri» come causa di insicurezza sociale,
va combattuta svuotando i bacini
di marginalità, collaborando per la realizzazione di forme di mutuo solidarismo
e, soprattutto,
lottando per il pieno riconoscimento dei diritti delle e dei migranti in materia
di diritti sociali,
diritti civili – a partire dal diritto di voto – e relativi alla
libertà religiosa. Si tratta di un lavoro di
lungo respiro da fare con le/i migranti, che devono trovare più stabili
spazi di agibilità sociale,
culturale e politica.
Le nuove generazioni
La vulgata dominante parla de «generazione nichilista», frammentata
dalla precarietà e attratta –
come dimostra l’analisi del voto di aprile – dalla risposta offerta
dalla destra al problema
dell’insicurezza: parrebbe questa la condizione giovanile oggi in Italia.
Ma tale rappresentazione trascura aspetti rilevanti, che testimoniano dei nuovi
processi di
soggettivazione che negli ultimi anni, hanno dato vita a esperienze di resistenza,
critica e lotta.
Si pensi alle lotte per riprendersi spazi nelle metropoli e nelle periferie
urbane e per liberare la
conoscenza come bene comune nella scuola e nell’università-azienda;
si pensi alle tante esperienze
associative e cooperative nate per sottrarsi alla logica mercificante della
competizione; e si pensi al
crescente successo di manifestazioni come l’Euromayday. Tutte queste esperienze
parlano
dell’emergere di una nuova generazione politica.
Rifondazione Comunista aveva costruito con la scelta della collocazione nei
movimenti una
particolare relazione con le nuove generazioni che si traduceva anche in consenso
elettorale e in
una diffusa simpatia. Durante l’esperienza di governo si è logorato
questo rapporto di fiducia e
molte aspettative nei nostri confronti sono andate deluse lasciando spazio a
umori “antipolitici” e
all’astensionismo. Recuperare questo rapporto è un imperativo categorico
e una possibilità reale.
«Il nostro tempo è qui e comincia adesso»: liberare il futuro
di questa generazione è la scommessa
della sinistra ed, in primo luogo, delle e dei Giovani comuniste/i, che –
nel recupero della loro
reale autonomia – debbono essere in grado di costruire il senso di appartenenza
ad una comunità
politica democratica che ponga al centro i territori, la partecipazione, il
confronto e il conflitto
dentro una reale pratica di movimento.
La nonviolenza
Noi vogliamo contribuire a costruire e a far vivere un’idea della nonviolenza
come teoria e pratica di
lotta: come forma attuale di costruzione dell’egemonia e come critica
dei rapporti violenti di potere
tra le persone, lontana tanto da qualsiasi assoluto metafisico quanto dalle
versioni che la assumono
come un metro eurocentrico con il quale giudicare il mondo.
La nonviolenza è per noi la forma intrinseca dei processi di trasformazione
della società;
disobbedienza dinanzi al potere di classe e al patriarcato; rifiuto della guerra
e delle pratiche
terroristiche di annientamento di sé per uccidere l’altro.
La critica allo sviluppismo
Rifondazione comunista, nella prospettiva della rielaborazione di un pensiero
comunista e
anticapitalista, assume l’ecologia politica come una cultura critica e
fondativa e non solo come
un’analisi foriera di lotte e di azione.
L’ecologia politica si pone infatti storicamente come una prospettiva
radicale di cambiamento del
sistema. E oggi più che mai – nella fase della globalizzazione
dei mercati, della colonizzazione dei
viventi, della occidentalizzazione delle culture – si pone come un modello
economico, etico e
politico del tutto alternativo.
L’ecologia politica si pone anche come alternativa a quell’ecologia
“superficiale” che oggi impera
anche in alcune associazioni ambientaliste e nel Pd che spinge verso una «ecologia
del fare», mero
aggiustamento tecnocratico nel governo dell’ambiente, attento a non mettere
mai in questione le
basi del sistema di produzione e di consumo dominante. Il risparmio, il ripristino,
la conservazione,
il riuso, sono alcune delle categorie proposte dall’ecologia politica
per la difesa dei beni comuni e
dei valori naturali, nonché dei viventi e delle loro relazioni. In questo
quadro decisivo è il tema dei
beni comuni che rappresentano il paradigma della lotta alla mercificazione di
ogni ambito sociale e
naturale.
Laicità e diritti civili
La laicità per noi non è un contenuto da difendere, o un insiemi
di valori. E’ lo spazio della politica,
in cui i soggetti si autodeterminano e liberano. La politica delega al papa
e alla Chiesa cattolica il
terreno dell’etica, immiserendosi in una visione ridotta alla gestione
dell’esistente. Occorre porre
fine a questa deriva reazionaria: costruire un’etica pubblica libera dal
potere del sacro, spezzare la
sovrapposizione tra religione e norma.
Una rigorosa difesa della laicità, dunque, non solo come lotta all’invadenza
della Chiesa cattolica
nella vita pubblica e privata di donne e uomini, ma anche come difesa e sviluppo
delle libertà
personali. Si tratta di affermare una nuova comunità umana in cui l’omosessualità,
il bisessualismo
e il transgenderismo siano peculiari espressioni naturali dell’individuo
e non motivi di esclusione
sociale.
La questione morale
Lungi dall’essere una disdicevole ma accessoria caratteristica dei poteri
forti nazionali e locali, la
corruzione, al contrario, plasma la costituzione materiale del capitalismo italiano.
Accanto alla
quotidiana aggressione al territorio, e spesso intrecciata con essa, la malversazione
rappresenta un
elemento di illegalità specificatamente italiano nella redistribuzione
di classe della ricchezza a
favore dei ceti egemoni. La peculiarità della sua dimensione la rende
questione di prima
grandezza.
Mentre i lceto politico ha teso a derubricare il tema mostrando una certa insofferenza
bipartisan
verso il costante emergere di scandali legati all’intreccio affari-politica,
l’opinione pubblica ha
mostrato una crescente preoccupazione che si è trasformata per larghe
fasce di popolazione in
sfiducia generalizzata verso la politica.
La sottovalutazione di questi temi, insieme a quelli della riforma della pubblica
amministrazione e
dei costi della politica, non ci ha consentito di intercettare una diffusa domanda
di cambiamento.
Senza alcuna concessione alle spinte giustizialiste, occorre allora ricongiungersi
alla migliore
tradizione della sinistra italiana, che in tutte le sue espressione ha sempre
coniugato la difesa dei
lavoratori e delle fasce più deboli della società con la lotta
senza quartiere e a tutti i livelli contro il
partito degli affari e contro gli affari dei partiti.
In conclusione
La rifondazione continua, allora, in primo luogo riprendendo quella ricerca
sulla innovazione della
propria cultura politica costitutiva della sua soggettività. Una ricerca
che si è costruita, non nella
sommatoria di culture critiche, ma nella relazione e nel riconoscimento di altre
soggettività.
Uscendo da sé, senza perdersi. Dunque, l’innovazione non è
per noi un patrimonio da “preservare”
o contendersi, nella dialettica interna, ma l’asse lungo cui pensiamo
che la ricerca della rifondazione
comunista possa essere utile, nella sua relazione con le altre soggettività,
alla lettura degli attuali
processi di globalizzazione. Si tratta non solo di elaborare una lettura complessiva
delle
contraddizioni del presente: la scommessa che abbiamo di fronte è quella
della ricomposizione delle
soggettività del conflitto, della costruzione di un nuovo movimento operaio.
Maurizio Acerbo Amadio Beatriz Paula, Amagliani Marco, Amato Fabio, Antonaz
Roberto, Arnaboldi Patrizia,
Assogna Antonio, Atene Maria Franca, Barassi Paola, Barbarossa Imma, Belisario
Mauro,
Benassi Giuseppe, Bertoni Romina, Boghetta Ugo, Bozzi Dino, Bracci Torsi Bianca,
Brai
Stefania, Brandoni Giuliano, Burgio Alberto, Campese Maria, Capelli Giovanna,
Caporusso
Mimmo, Cappelloni Guido, Cartocci Carlo, Casati Bruno, Cesaria Nicola, Ciano
Giuseppe,
Cimaschi Mauro, Cirigliano Francesco, Conti Giacomo, Crippa Aurelio, Cristiano
Stefano,
Daniele Francesco, Deambrogio Alberto, Della Vecchia Luciano, Di Martino Marco,
Di Sabato
Italo, Donini Monica, Emprin Gilardini Erminia, Fantozzi Roberta, Favilli Alessandro,
Federico
Maurizio, Fedi Veruska, Ferrari Saverio, Ferrero Paolo, Ferrin Laura, Forenza
Eleonora, Fraleone
Loredana, Fresu Gianni, Fucito Alessandro, Gelmini Marco, Ghiglione Rita, Goracci
Orfeo,
Grassi Claudio, Iervolino Domenico, Iorfida Enzo, Kocijancic Igor, Lenti Maria,
Leoni
Alessandro, Lindi Letizia, Linguiti Donatella, Lombardi Angela, Loro Piana Marina,
Macrì
Vittorio, Mainardi Ferdinando, Mangianti Cesare, Mantovani Ramon, Marchetti
Laura, Maselli
Citto, Milani Enrico, Morrone Rossella, Mozzetta Guido, Mungo Donatella, Mura
Betti, Nappo
Francesco, Nesci Marco, Nicolosi Nicola, Nicotra Alfio, Nocera Vito, Occhi Gianni,
Pace
Costanza, Papandrea Rocco, Patta Nello, Pillai Vincenzo, Poselli Patrizia, Ruffini
Daniela,
Russo Spena Giovanni, Santilli Serena, Saragnese Luigi, Serrao Domenico, Sgherri
Monica,
Sperandio Gino, Steri Bruno, Stufara Damiano, Tagliazucchi Nora, Tavella Rosa,
Tedde
Giuseppina, Trotta Alessandro, Vaccargiu Jole, Valsecchi Claudia, Vangeri Daniela,
Vinci
Luigi, Vinti Stefano, Voza Pasquale.