VII°
CONGRESSO
Documento
Pegolo
Rifondare
un partito comunista
Per rilanciare la sinistra l'opposizione e il conflitto sociale
Siamo iscritte e iscritti del Prc che hanno sostenuto mozioni diverse al
precedente congresso di Venezia. Mettendo in atto un processo
democratico e partecipato ci siamo uniti attraverso l’appello dello scorso
autunno “Un congresso per rilanciare i movimenti e l’autonomia del
Prc”, promosso da 100 circoli, che ha raccolto migliaia di firme in tutta
Italia di segretari di circolo, di federazione, dirigenti e militanti di base.
Anche se abbiamo storie e percorsi diversi, siamo oggi accomunati dalla consapevolezza
della gravità della situazione determinata dall’esito delle elezioni
del 13 e 14 aprile, che
rischia di vedere la sparizione dallo scenario politico italiano di una forza
comunista con un
consenso di massa. Per questo abbiamo deciso di dar vita ad una mozione congressuale,
che
non ha la pretesa di affrontare compiutamente tutte le problematiche politiche
e teoriche ma
che si focalizza attorno ai nodi fondamentali posti dalla fase. Una mozione
che
sottoponiamo a tutte le iscritte e gli iscritti del Prc e che chiediamo venga
arricchita con
integrazioni ed emendamenti dai congressi di circolo.
Una sconfitta storica
Nonostante l’impegno militante e spassionato di tante compagne e compagni,
la sconfitta
della Sinistra Arcobaleno è di dimensioni catastrofiche, un vero e proprio
tracollo, una
disfatta storica. Con tre milioni di voti persi in soli due anni, la Sinistra
Arcobaleno scende
al 3% e non elegge nessun parlamentare. Per la prima volta nella storia della
Repubblica
nessun comunista (e nessun esponente della sinistra) viene eletto in Parlamento.
E ciò
avviene in una situazione politica in cui si è riconsegnato il Paese
a una destra resa più
aggressiva dalla rivincita elettorale, all’interno della quale si sono
rafforzate le spinte
leghiste, fasciste, xenofobe.
Rifondazione Comunista, la forza politica che più di altri ha lavorato
per dar vita alla
Sinistra Arcobaleno, anche nell’illusione di superare così una
grave crisi di progetto
strategico e di militanza, ne esce distrutta nel morale e nelle prospettive.
L’intero gruppo
dirigente che ha gestito il partito non ha avuto il minimo sentore di ciò
che si stava
preparando, nonostante i segnali inequivocabili e i dissensi provenienti dalla
società e dallo
stesso Partito. A 17 anni dalla nascita del Prc nel 1991 si chiude un ciclo
storico. Cosa e
come ricostruire a sinistra è l’oggetto del VII Congresso.
I “300 mila fucili pronti” evocati da Bossi e i saluti romani in
Campidoglio danno il segno
della nuova Italia uscita dalle urne. La cancellazione della sinistra dal Parlamento
avviene in
un contesto molto grave e pericoloso, segnato da crescenti pulsioni autoritarie.
Il governo
del Paese torna alla destra, a una destra che vince con un margine ampio, che
le consente
stabilità e arroganza, in un contesto nel quale il senso comune di massa
– dopo 2 anni di
governo Prodi - si è spostato ancor più in senso moderato. Avanzano
incontrastate spinte
all’individualismo e alla guerra tra poveri, pulsioni antidemocratiche
e autoritarie, sfiducia
diffusa nella politica e nell’agire collettivo, il ritorno di sottoculture
razziste e omofobe,
persino rigurgiti neofascisti e neonazisti, oltre che un anticomunismo dilagante,
talvolta
legittimato anche da esponenti della stessa sinistra. Contemporaneamente, l’opposizione
parlamentare alla destra è oggi costituita dal solo Partito Democratico,
espressione della
grande borghesia italiana, in un quadro bipartitico quasi del tutto compiuto
che non dà più
rappresentanza ai ceti sociali più deboli. Il movimento dei lavoratori
e tutti gli altri
movimenti che nel decennio passato avevano fatto sentire la loro presenza, sono
in grande
difficoltà.
L’esito negativo del Congresso di Venezia
Tutto questo è anche il risultato finale della politica di due anni del
governo Prodi, del
conseguente crollo di fiducia dell’elettorato popolare e di sinistra.
A ciò ha contribuito,
obiettivamente, la scelta, assunta tre anni fa, della linea di alleanza organica
col centro-
sinistra (prima la Gad e poi l’Unione) e di partecipazione al governo
Prodi, senza aver
conquistato significativi punti programmatici e men che meno una impostazione
generale
alternativa al neoliberismo e alla guerra e soprattutto senza che vi fossero
nella società
rapporti di forza tali da determinare un’inversione di rotta.
Certamente, l’Ulivo prima e il Partito Democratico poi, hanno le principali
responsabilità
per aver riconsegnato il governo del paese alle destre. Tuttavia, l’aver
fatto venir meno un
coerente riferimento di sinistra al malessere sociale e civile, l’aver
cancellato ogni
opposizione di sinistra al neoliberismo e al sistema dell’alternanza bipolare
(come è stata,
con pregi e difetti, Rifondazione Comunista dalla sua nascita) ha prodotto lo
spostamento
del voto di larghi settori popolari e giovanili sia nell’astensione, sia
a destra e sia nel
cosiddetto “voto utile”, un risultato che esprime protesta e delusione
per la politica della
sinistra e, in particolare, per il Prc. Era un fenomeno ampiamente prevedibile
anche perché
già altre volte si è verificato nella storia di altri paesi.
La realtà dei fatti ha dunque smentito l’ipotesi della “condizionabilità”
del governo di
centrosinistra, su cui si era fondato il Congresso di Venezia. Bisogna prenderne
atto,
cambiando radicalmente linea e gruppi dirigenti. Molti compagni e compagne allora
votarono per la mozione Bertinotti e l’ingresso al governo, convinti che
il partito avrebbe
subìto un attacco ed una perdita di consensi se avesse opposto un rifiuto
alla partecipazione
al governo. Si disse allora che se non avessimo fatto quella scelta, se non
avessimo raccolto
quella “sfida” per cacciare Berlusconi e tentare una fuoruscita
dalle politiche neoliberiste
saremmo stati considerati complici della destra e marginalizzati. Certamente,
avremmo
subìto una forte pressione e l’offensiva dell’allora Ds (una
pressione comunque minore di
quando nel ’98 facemmo giustamente venir meno l’appoggio al primo
governo Prodi). E
tuttavia è vero che il nostro gruppo dirigente non ha saputo prevedere
gli esiti che la
partecipazione al governo avrebbe potuto avere e non è stato neppure
conseguente ad alcune
indicazioni proclamate, quali: il governo come mezzo e non come fine, l’impegno
a
sostenere i movimenti, la critica alla doppiezza della politica, ecc. In soli
tre anni siamo
ridotti in una condizione ben peggiore di quella paventata allora per giustificare
l’ingresso
nel governo: oggi siamo isolati socialmente, fuori dal Parlamento, in una condizione
in cui è
a rischio la nostra stessa sopravvivenza, colpiti da un calo vertiginoso del
nostro consenso e
frantumati in una guerra intestina che talvolta sembra procedere lungo le coordinate
di
scontri personali e di gruppi dirigenti, piuttosto che di chiare discriminanti
politiche. La
linea della partecipazione al governo fu decisa al Congresso di Venezia con
il 59% di voti
contro il 41%. In quel congresso si respinsero tutte le proposte di gestione
unitaria del
partito, anche quelle che vennero avanzate da esponenti della maggioranza e
si mise l’ampia
minoranza del Prc fuori dalla segreteria nazionale e dalla gestione del partito.
E’
assolutamente inevitabile, quindi, una seria riflessione autocritica sia sulla
linea decisa dal
Congresso di Venezia che sulla gestione di tale linea. Solo quei comunisti che
sanno
ripensare se stessi autocriticamente sono in grado di guardare al futuro.
Il governo Prodi, causa principale della sconfitta
La politica del governo Prodi ha fatto crollare molto presto, ben prima del
previsto, le
aspettative di maggiore giustizia sociale o anche solo di un moderato miglioramento
delle
condizioni di vita che il nostro elettorato nutriva. Il governo, sin dall’inizio,
non è stato
permeabile ai movimenti, ma solo ai banchieri della Ue, alla Nato, agli Usa
e al Vaticano,
più aggressivi che mai.
Le iniziative del governo sono state caratterizzate da un approccio liberista,
talvolta persino
più disinvolto di quello del centro-destra; da un’evidente attacco
alle condizioni di vita dei
lavoratori/trici e dei settori popolari, in altre parole dalla professione di
fede nella centralità
del mercato e dell’impresa. Il ministro Padoa Schioppa è stato
il rappresentante dei
banchieri e del FMI, il simbolo del liberismo e dei “sacrifici”
a senso unico, ancora e solo a
danno dei lavoratori/trici e delle classi popolari, mentre crescevano vertiginosamente
i
profitti e le rendite finanziarie. Ricchi sempre più ricchi e poveri
sempre più poveri.
I lavoratori, le lavoratrici, i pensionati, i precari, i disoccupati, si sono
sentiti traditi e
abbandonati dal governo, ma anche da noi che siamo stati percepiti come corresponsabili.
Anziché aumentare i salari e le pensioni e ridurre la povertà
e l’insicurezza sociale, il
governo Prodi ha favorito le grandi imprese. Ha eliminato il cuneo fiscale,
regalando
miliardi di euro alle aziende, alle banche e alle assicurazioni; ha prodotto
un accordo
concertativo su pensioni e welfare, confermando la legge 30 invece di abrogarla
e
aumentando ulteriormente l’età pensionabile senza abolire completamente
lo scalone
Maroni, come era stato promesso in campagna elettorale. Ha varato due Finanziarie
che,
invece di “far piangere” i padroni, li ha arricchiti oltre misura,
colpendo ancora una volta i
lavoratori/trici e i settori popolari. Ancora: lo scippo del TFR; l’impunità
per i responsabili
delle morti bianche, nonostante il terrificante record italiano di quattro assassinii
sul lavoro
in media al giorno, su cui il rogo della Thyssen Krupp ha gettato una luce inquietante.
La politica del governo Prodi ha alimentato, anziché ridurre, la “guerra
fra poveri”, il senso
di insicurezza, la delusione verso una coalizione che si era presentata come
alternativa a
Berlusconi, i consensi alla Lega e all’estrema destra. La crescita del
consenso elettorale
degli operai alla Lega è il frutto di un lungo lavoro di “semina”
compiuto dalla stessa Lega
(spesso in collaborazione competitiva con la destra neofascista) che alle paure
provocate
dalla crisi economica, dall’immigrazione e dalla criminalità, ha
risposto con parole
demagogiche, spesso trovando sponda nel Pd. A questo fenomeno ha contribuito
l’assenza
di risposte di classe e da sinistra a quelle stesse paure. Alla difesa degli
interessi di classe si
sostituisce, così, la difesa della comunità e dell’interesse
di parte. In mancanza di una
politica di difesa dei salari attecchisce l’idea delle gabbie salariali;
rispetto a politiche che
non affrontano i problemi della disoccupazione, della casa, dei servizi, l’immigrato
diventa
sempre più un “concorrente”; il dilagare della criminalità
e del degrado legato a motivazioni
sociali apre la strada a risposte xenofobe e autoritarie. Ma è troppo
comodo cavarsela
dicendo che i lavoratori stanno diventando razzisti e qualunquisti. Se la classe
operaia ha
abbandonato la sinistra è perché, prima, la sinistra ha abbandonato
la classe operaia, la
capacità di comprendere i suoi problemi e di fornire risposte adeguate.
Il governo Prodi ha deluso il movimento per la pace, tradendo persino lo spirito
dell’articolo
11 della Costituzione. Ha aumentato vertiginosamente le spese militari (del
25% in due
anni), ha proseguito la missione di guerra in Afghanistan, ha contribuito all’acuirsi
della
crisi del Kosovo, ha acconsentito all’installazione dello scudo stellare
di Bush, alla base
americana di Vicenza, non ascoltando la voce della popolazione locale e delle
straordinarie
manifestazioni del 17 febbraio e del 15 dicembre 2007. La politica estera di
Prodi è stata
sostanzialmente subalterna alla Nato e alle compatibilità euro-atlantiche.
La maggioranza parlamentare dell’Unione ha deluso il movimento di Genova
non istituendo
la commissione d’inchiesta sui gravissimi fatti del luglio 2001. Ha riconfermato
la Tav in
Val di Susa e nel resto d’Italia, nonostante l’ampia contrarietà
delle popolazioni locali; ha
confermato la scelta degli inceneritori e, attraverso la politica del ministro
Di Pietro, la linea
di investimenti infrastrutturali dal carattere meramente speculativo, dannosi
e privi di
qualsiasi utilità sociale, invece dell’indispensabile potenziamento
del sistema ferroviario e
di tutte quelle opere e di quei servizi di utilità sociale che aspettano
da anni di essere
finanziate, in particolare nel sud d’Italia. Il Mezzogiorno è stato
ancora una volta
abbandonato a se stesso e lasciato sprofondare nella disoccupazione e nell’impoverimento,
nelle pratiche clientelari, nella criminalità, nella mafia, nelle storiche
sottoculture
individualistiche e conservatrici.
Il governo Prodi, per sudditanza al Vaticano, è venuto meno persino agli
impegni elettorali
sui diritti civili, non riuscendo neanche ad approvare una legge sulle coppie
di fatto. Così
come non abbiamo visto il superamento della Bossi-Fini, dei Cpt e della riforma
Moratti, la
legge sul conflitto d’interessi e quella sulla rappresentanza sindacale.
Il gruppo dirigente del
Prc, non solo ha giustificato il sostegno a queste scelte in nome dello spauracchio
di
Berlusconi, ma è giunto addirittura a difendere Ratzinger e Giuliano
Ferrara contro chi,
sostenendo la laicità dello Stato, si è opposto all’ingerenza
del Vaticano nella vita politica e
culturale del nostro Paese, nonché all’aggressione al diritto all’autodeterminazione
delle
donne. E’ giunto perfino a sostenere una sorta di equidistanza tra Israele
e popolo
palestinese nella vicenda della Fiera del Libro di Torino.
Il Partito Democratico e la Sinistra Arcobaleno
Il Partito Democratico, evoluzione moderata del vecchio Ulivo, esce anch’esso
sconfitto dal
voto: perde il governo del Paese e consegna alla destra neofascista persino
la città di Roma.
Lo spostamento a destra nel “senso comune” del paese e anche del
popolo di sinistra non è
solo il risultato di una forte capacità di penetrazione mediatica e culturale
della destra, ma è
anche conseguenza dell’involuzione politica del Pd (e dello stesso centro-sinistra),
che non
solo ha contribuito a rendere sempre meno evidenti le differenze politiche sostanziali
dal
centrodestra, ma ha anche finito con il favorire la penetrazione delle ideologie
di destra
all’interno dello stesso popolo della sinistra. Paradigmatica, da questo
punto di vista, è stata
sia l’avanzata della Lega al nord che la vittoria di An a Roma, dove la
profonda delusione
popolare per le politiche economiche e sociali del centro-sinistra, coniugata
all’evoluzione
securitaria del Pd, ha favorito il passaggio di una parte consistente di elettorato
popolare alla
destra.
La Sinistra Arcobaleno non è stata un incidente di percorso, né
una parentesi che si possa
chiudere così facilmente: è stata la conclusione di un lungo processo
di diluizione
dell’autonomia del Prc e dei suoi connotati comunisti, anticapitalisti
e di classe. Le diverse
ipotesi di unità a sinistra – federazione, confederazione, soggetto
unitario e plurale, partito
unico – hanno provato a coprire sotto astratte alchimie organizzative
il progetto di
liquidazione politica della rifondazione comunista, in nome dell’unità
a sinistra e
dell’“innovazione culturale”. E ogniqualvolta si è
denunciato questo progetto difendendo
l’attualità di un partito comunista, si è risposto con accuse
di “identitarismo” e di nostalgia
del passato.
La cancellazione della falce e martello e l’adozione di un simbolo sconosciuto
e privo di
riferimenti alla tradizione politica comunista e della sinistra (scelta che
ha contribuito
anch’essa al pessimo risultato elettorale) ha rappresentato solamente
il suggello formale al
processo sostanziale di liquidazione politica del Prc. Una scelta fatta, peraltro,
come molto
spesso è avvenuto negli ultimi tempi, cancellando del tutto la partecipazione
degli iscritti,
dei circoli e delle federazioni, con una logica autoritaria giunta persino a
rinviare il
congresso già avviato, per paura del confronto democratico con la base.
La vera e propria
campagna, sostenuta in modo martellante da Liberazione, per la costruzione di
un nuovo
soggetto politico non più comunista e le affermazioni del candidato premier
relative alla
riduzione del comunismo ad una delle tendenze culturali interne al nuovo soggetto,
sono la
prova che non di errore si è trattato, ma di una pervicace volontà
di superare il Prc attraverso
una forzatura plebiscitaria e antidemocratica.
Ma un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo. Sia la partecipazione
al
governo, sia la diluizione di Rifondazione Comunista nella Sinistra Arcobaleno
vengono da
lontano. Il positivo impegno del Prc nel movimento no global, l’importante
ruolo giocato a
Genova nel 2001, la successiva partecipazione alle grandi manifestazioni contro
la guerra
avrebbero potuto essere una grande occasione per costruire una sinistra anticapitalista
e
antimperialista strutturata e per rafforzare l’insediamento del partito
fra i giovani. Invece,
l’aver sminuito la contraddizione fra capitale e lavoro e quindi il disimpegno
conseguente
nella costruzione del radicamento sociale, l’aver contrapposto l’analisi
della globalizzazione
alla teoria dell’imperialismo e del sostegno ai popoli aggrediti, il disinteresse
per
l’organizzazione del partito, dei circoli e delle federazioni, in nome
di una costruzione tutta
istituzionale, mediatica e venata di leaderismo, sono state le tappe preparatorie
dell’ingresso
al governo, il tentativo di accreditarsi come esponenti di una sinistra finalmente
pronta ad
assumersi responsabilità istituzionali al massimo livello. Lo stesso
dibattito sulla
nonviolenza è stato utilizzato, nei fatti, per accreditarsi in tal senso
offrendo un’immagine
“buonista” e attenuare la critica al potere.
Sulle cause per le quali un’esperienza ricca e promettente come quella
originaria della
rifondazione comunista sia finita nella débacle del 13 e 14 aprile, bisognerà
aprire una
riflessione più approfondita e collettiva.
Salvare il Prc per rilanciare la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista
Cosa fare? Innanzitutto è necessario guardare in faccia la realtà.
La sconfitta è pesantissima.
Il morale delle compagne e dei compagni è pessimo. C’è grande
sconforto, paura, rabbia. Se
non c’è una rottura di continuità, se non c’è
un progetto nuovo, motivante, di rilancio
dell’ispirazione di fondo dell’impresa che cominciammo 18 anni fa,
se non c’è un
cambiamento radicale di linea, di dirigenti e di metodi di gestione del partito
(da una
gestione autoritaria e burocratica ad una gestione collegiale e democratica),
Rifondazione
Comunista rischia di morire.
Salvare Rifondazione Comunista dalla liquidazione politica e organizzativa è
il compito
primario del nostro Congresso. Noi vogliamo contribuire a farlo assieme a tutti
coloro che
sono disponibili. Ma è del tutto evidente che, tanto più dopo
una sconfitta elettorale di
queste proporzioni, salvare Rifondazione Comunista non è in sé
sufficiente. Si salva ciò che
resta del patrimonio importante del Prc, di militanza, di esperienze e di capacità
di costruire
lotte e movimenti, solo se si rilancia la rifondazione/ricostruzione di un più
forte partito
comunista con basi di massa, nel quadro di un più ampio processo di unità
della sinistra
anticapitalista. La rifondazione/ricostruzione di un partito comunista deve
anche porsi
l’obiettivo di superare la diaspora comunista, riaggregando le tante forze
interessate, ma
ancora disperse, con un percorso che metta al centro i contenuti, le pratiche
sociali comuni,
una critica al governismo e un progetto di chiara alternativa al Pd, condizioni
indispensabili
per garantire uno sbocco positivo a questo processo. Un partito comunista è
necessario,
anche se non sufficiente, per riaprire una nuova stagione dei movimenti e del
conflitto
sociale, per costruire una lunga fase di lotta e di opposizione (vera, non “costruttiva”)
a tutte
le politiche neoliberiste e di guerra, sia che vengano dalla destra sia che
vengano dal Pd. Il
che significa anche promuovere nel partito una verifica rigorosa della nostra
partecipazione
alle giunte locali, che in futuro non potrà più essere una regola,
in relazione ai contenuti
programmatici e ai nostri referenti sociali, assumendo come orientamento prioritario
per
l’azione dei rappresentanti del partito nelle istituzioni locali la capacità
di rispondere alle
domande sociali, a partire dalle sollecitazioni che provengono dai conflitti
e di favorire lo
sviluppo di più estesi momenti di mobilitazione e di partecipazione popolare.
Noi pensiamo che un partito comunista non si proclami, che non si riduca ad
un simbolo o a
un nome, ma si costruisca, come uno strumento al servizio dei lavoratori/trici
e dei
movimenti, nel vivo delle lotte contro il capitalismo e i suoi effetti in tutti
i campi. C’è
sempre più bisogno di una forza politica che diventi - prima possibile
- la parte più avanzata
del più vasto schieramento di resistenza e di opposizione al governo
Berlusconi, ma che
contemporaneamente si ponga in alternativa al Partito Democratico e alla logica
bipolare/bipartitica dell’alternanza in cui si tenta di forzare la dialettica
politica.
Una grande forza comunista per rilanciare la sinistra e i movimenti
Per poter ricostruire è necessario interrogarsi su cos’è
rimasto a sinistra del Pd dopo la
catastrofe elettorale. La disfatta della Sinistra Arcobaleno ha prodotto anche
la sua
frantumazione in direzioni diverse e opposte. Il Pdci ha manifestato la sua
disponibilità a
convergere in una costituente comunista con il Prc e tutti i comunisti disponibili.
I Verdi
appaiono divisi in tre tronconi, chi va verso il Pd, chi verso un nuovo soggetto
ecologista da
presentare alle prossime europee e amministrative, mentre solo un’esigua
minoranza rimane
legata all’ipotesi di soggetto-partito unico della sinistra. Sd è
sempre più attratta dalle sirene
del Pd e accentua la sua identità socialista e governista. Dopo la catastrofe,
la parte della
Sinistra Arcobaleno disponibile a trasformare questa coalizione elettorale in
un nuovo
soggetto politico o in una “federazione” è assolutamente
minoritaria, quasi del tutto
inesistente. Fuori dalla Sinistra Arcobaleno vi è lo Sdi, anch’esso
sconfitto dalle urne e
destinato ad essere assorbito dal Pd, due formazioni comuniste ed anticapitaliste,
Pcl e
Sinistra Critica, che assieme alle elezioni politiche hanno ottenuto l’1%,
e un variegato e
disperso arcipelago di forze e movimenti antagonisti.
A sinistra del Pd, dopo la devastazione elettorale, ciò che è
necessario e possibile fare è
ricostruire due paralleli processi di ricomposizione unitaria. Il primo fra
le forze che
esplicitamente si richiamano al comunismo e al marxismo, per la rifondazione/ricostruzione
di un partito comunista ed anticapitalista che per dimensioni e coerenza possa
essere
credibile per ampi strati di lavoratori e lavoratrici. Questa è la condizione
affinché si avvii,
con qualche possibilità di successo, anche il secondo contemporaneo processo
di
ricomposizione, sulla base di lotte e contenuti comuni, di una sinistra anticapitalistica
e di
alternativa più ampia. Altrimenti il rischio è che dopo la drammatica
sconfitta elettorale si
determini un pericolosissimo processo centrifugo di disgregazione dei comunisti
e della
sinistra, in presenza di una destra pericolosa al governo e di un’opposizione
parlamentare
più disponibile che mai a mediare con Berlusconi.
Sappiamo che la sinistra anticapitalista è più ampia dei soli
comunisti e sappiamo che le
forme concrete di impegno a sinistra vanno ben oltre quelle rappresentate dall’appartenenza
ad un partito. Movimenti, reti, comitati, collettivi, associazioni, militanza
sindacale,
vertenze territoriali e ambientali: molti sono i modi in cui si fa politica
oggi a sinistra.
Pensiamo solo a cos’è il No Dal Molin a Vicenza o il No Tav in
Val di Susa. Ma se non si
rilancia la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista, più forte
e più grande di ciò
che è l’attuale Rifondazione, con una massa critica sufficiente,
in grado di stare nei
movimenti e nelle lotte per costruire un blocco sociale antagonista e prospettare
un progetto
di società alternativa, il rischio è che queste realtà
si disperdano e siano sconfitte. Non c’è
bisogno di alcuna cessione di sovranità, com’è implicito
nella proposta di “federazione”, ma
della capacità di costruzione paziente dell’unità possibile
di tutte le forze di volta in volta
disponibili, sulla base di contenuti e di pratiche sociali condivise. Senza
la presunzione di
dettare la linea, ma senza neppure un atteggiamento subalterno.
L’incertezza sul destino del Prc, culminata negli ultimi tempi nelle proposte
di superamento
o di limitazione della sua autonomia, proviene da un nodo mai sciolto. Rifondazione
Comunista è fatta da un sostantivo e da un aggettivo. L’aggettivo
“comunista” è stato spesso
messo in secondo piano, nascosto, attenuato, dimenticato, e la rifondazione
è diventata o
fine a se stessa, oppure di altro. La domanda che questo Congresso, dopo una
sconfitta così
catastrofica, deve porsi è: si vuole rilanciare un partito comunista
di massa o si vuole fare
altro, e la rifondazione comunista si trasmuta in rifondazione della sinistra
o “socialista”? E
d’altro canto alla risposta bisogna che seguano i fatti. Non basta salvare
l’involucro del Prc
se poi gran parte delle intelligenze, delle energie e delle risorse si spostano
nella costruzione
di altri soggetti politici, come è già avvenuto prima con la Sinistra
Europea e poi con la
Sinistra Arcobaleno. Significherebbe, questo sì, difendere e mantenere
in vita solo un nome
e un simbolo, un feticcio, un involucro vuoto, in un processo di graduale estinzione
dell’autonomia del partito e del suo carattere comunista.
Di fronte ad una sconfitta e a una crisi di tali dimensioni non c’è
dunque alternativa alla
ripresa e al rilancio del progetto della rifondazione/ricostruzione di un grande
partito
comunista in Italia, con tutti coloro, singoli od organizzati che anche fuori
dal Prc siano
disponibili, pur con storie e sensibilità diverse, sulla base di una
piattaforma politica e di
una prospettiva strategica comune, com’era nel progetto originario del
1991, facendo tesoro
delle luci e delle ombre di tutta la nostra esperienza. Una forza comunista,
fortemente
organizzata e radicata socialmente, pienamente autonoma sul piano politico e
teorico, non
nostalgica ma adeguata ai tempi, di classe ma anche interna ai movimenti pacifisti,
ambientalisti, femministi, antirazzisti: questo è l’unico progetto
in grado di non disperdere
del tutto il nostro patrimonio, di rigenerare entusiasmo e rimotivare migliaia
di compagne e
compagni, e contemporaneamente di unire e mobilitare la sinistra anticapitalista
e di
alternativa, di costruire l’opposizione a Berlusconi e di rilanciare i
movimenti e la lotta di
classe. Sappiamo che il lavoro di ricostruzione è arduo e di lunga lena,
ma sia la
manifestazione del 9 giugno contro Bush promossa da un vasto arco di soggetti
politici e
sociali, sia la manifestazione del 20 ottobre, il milione di persone in piazza
sotto la marea di
bandiere rosse, promossa dai due maggiori partiti comunisti e da altre forze
della sinistra
alternativa e di classe, sono esperienze che ci dicono che possiamo farcela.
La centralità della questione sociale e dei/delle lavoratori/trici
Il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile precipita su una condizione sociale
del Paese già
drammatica, con un declino produttivo sempre più inquietante ed una crisi
economica
internazionale alle porte. Con una destra saldamente al governo e con un’opposizione
parlamentare costituita dal solo Pd che su molti temi potrebbe avere posizioni
persino più
liberiste di Tremonti, con un gruppo dirigente sindacale in ginocchio, è
fin troppo facile
capire che sui lavoratori/trici si scaricherà una pressione pesantissima.
E’ necessario essere
consapevoli che si preparano tempi molto duri.
Mentre le ricchezze aumentano e si concentrano in poche mani, dilagano bassi
salari, lavoro
nero, precarietà. Quest’ultima in particolare è il segno
distintivo della nostra società:
precarietà del lavoro e precarietà della vita. La povertà
aumenta e coinvolge sempre di più
strati di lavoro dipendente. Ma anche settori consistenti di ceto medio scivolano
dentro un
rapido processo di proletarizzazione. Il caro casa è uno dei problemi
sociali più rilevanti ed
esplosivi per milioni di persone. Cresce lo sfruttamento del lavoro, aumentano
orari, turni,
flessibilità, incidenti sul lavoro e malattie professionali; il welfare
viene drasticamente
tagliato e privatizzato; aumenta l’età pensionabile e persino il
Tfr viene esposto alle
incognite della Borsa. Tutto ciò si verifica in un processo di sfondamento
delle logiche di
mercato, di americanizzazione della società e con la collaborazione concertativa
di Cgil,
Cisl e Uil.
Su queste basi e con un contesto economico in rapido peggioramento, la rotta
del governo è
in qualche misura già tracciata. Berlusconi parla chiaramente di “misure
impopolari” e la
grande borghesia si prepara a incassare. Commentando l’esito elettorale,
Montezemolo ha
inoltre salutato con sincero entusiasmo “la netta sconfitta delle forze
politiche portatrici di
una cultura anti-impresa, anti-mercato e anti-sviluppo”.
Il rilancio della rifondazione/ricostruzione unitaria di una forza comunista
passa oggi dalla
centralità della questione sociale, dalla difesa coerente e dal rilancio
del movimento dei
lavoratori/trici nel suo complesso (lavoratori/trici garantiti, precari, immigrati,
disoccupati,
piccoli artigiani). Centralità della questione salariale (una nuova scala
mobile), lotta contro
la disoccupazione e la precarietà, difesa del contratto nazionale, lotta
contro il crescente
sfruttamento dei lavoratori/trici e contro le morti bianche, unità fra
lavoratori/trici del nord e
del sud, italiani e immigrati, difesa e rilancio della previdenza, sanità
e scuola pubbliche,
lotta contro le privatizzazioni e rilancio dell’intervento pubblico in
economia, a partire dalla
ripubblicizzazione delle grandi aziende di interesse pubblico regalate dai governi
di
centrodestra e di centrosinistra a grandi gruppi privati (vedi la Telecom):
sono questi i
contenuti principali da porre al centro dell’attenzione e delle lotte.
Per un sindacato di lotta e di massa
Nel bilancio complessivo degli errori passati rientra la scelta del gruppo dirigente
del Prc di
non avere una politica sindacale autonoma nella Cgil come nel sindacalismo di
base, e di
avere lasciato gli iscritti in balia di se stessi, rifiutandosi di promuovere
una discussione tra i
militanti sindacali iscritti al partito e di dare loro strumenti di conoscenza
e di discussione
per elaborare un indirizzo comune di intervento. Durante la fase di governo,
il Prc ha
individuato il sindacato come una sorta di supplente della politica a cui delegare
le scelte in
materia di politiche sociali, con una linea subalterna alla Cgil (vedi l’imbarazzata
posizione
assunta sul Welfare, sul Tfr, sul recente accordo in tema di riforma dei contratti,
siglato in
piena continuità con i famigerati accordi concertativi del luglio ’92
e ’93). Il che ha
significato, da una parte, non contrastare la logica concertativa dei gruppi
dirigenti
confederali, dall’altra lasciare spesso privi di sostegno i settori più
avanzati del sindacato
(vedi la Fiom nel referendum sul Welfare, nella vertenza contrattuale o contro
la quotazione
in Borsa di Fincantieri). Molto grave e significativa della perdita di autonomia
del partito
rispetto alla Cgil è stato il rifiuto di promuovere la campagna nei luoghi
di lavoro per il No
nel referendum sulle pensioni. L’operazione Arcobaleno ha contribuito
ad aumentare
l’isolamento dei nostri compagni e della sinistra sindacale, perché
ha individuato i propri
principali interlocutori tra gli esponenti della maggioranza della Cgil, da
sempre acerrimi
avversari della sinistra sindacale e del sindacalismo alternativo e artefici
del tentativo di
“normalizzazione” in atto da alcuni mesi ai danni dei settori più
avanzati della Cgil, a partire
dalla Fiom .
L’ipotesi uscita dall’ultimo congresso della Cgil, cioè quella
di un governo amico, su cui
una Cgil finalmente unita avrebbe potuto esercitare un ruolo di pressione, si
è rivelata
perdente. Così la Cgil, dicendo sì al Protocollo sul Welfare,
ha smentito le manifestazioni
del 2002 sull’articolo 18 e oggi risulta schiacciata dalla Cisl che invece
esce vincitrice dai
due anni di Prodi e si accredita come il principale interlocutore del Governo
Berlusconi. In
questo quadro l’ipotesi di costituzione di una componente Arcobaleno dentro
la Cgil
indebolirebbe ulteriormente la sinistra Cgil favorendo i disegni del Pd, lasciando
migliaia di
delegati e dirigenti sindacali e milioni di lavoratori/trici completamente esposti
alle minacce
della nuova fase. Anche qui dunque bisogna procedere semmai nella direzione
opposta,
favorendo una crescita e un coordinamento delle componenti e dei settori più
avanzati della
Cgil (Lavoro Società, Rete 28 Aprile, Fiom). Va inoltre favorito analogo
processo
nell’ambito del sindacalismo di base. E’ sempre più necessario
promuovere l’unità d’azione
fra le diverse componenti del sindacalismo conflittuale, dentro e fuori la Cgil,
per favorire
una prospettiva di rinascita di un grande sindacato di lotta e di classe, riferimento
credibile
per lavoratori e lavoratrici di tutte le categorie, collegato con sindacati
di classe e movimenti
sociali di altri paesi del mondo, a partire dall’Unione europea. In questa
direzione dovrà
muoversi il nostro partito, costituendo coordinamenti di comuniste e comunisti
attivi nelle
diverse organizzazioni sindacali.
La contraddizione ambientale: socialismo o barbarie.
La rifondazione/ricostruzione di un forte partito comunista passa anche dalla
piena
comprensione della drammaticità assunta dalla contraddizione ambientale.
Previsioni
giudicate avveniristiche si stanno realizzando. La devastazione ambientale è
figlia del
capitalismo, fondato sulla ricerca del massimo profitto dallo sfruttamento dei
lavoratori e
delle risorse naturali. Il sistema capitalistico fonda la sua stessa esistenza
sulla crescita
esponenziale della produzione senza dare peso alle conseguenze sociali, così
come alle
conseguenze in tema di consumo delle risorse naturali e di inquinamento dell’ambiente.
Poche multinazionali dei paesi imperialisti dettano l’agenda non solo
in materia economica
e sociale ma anche in materia di ambiente e uso delle risorse. Il capitalismo
tende a
polarizzare le ricchezze, ad accrescere la forbice fra paesi ricchi e paesi
poveri,
riproducendo e moltiplicando problemi che si sperava potessero scomparire (la
fame
endemica, alcune malattie, ecc.), dando vita ad una migrazione biblica crescente
anche a
causa delle ormai evidenti modificazioni climatiche (desertificazione, distruzione
dell’agricoltura tradizionale).
E’ di drammatica attualità la crisi alimentare che travolge interi
paesi poveri con l’aumento
vertiginoso dei prezzi dei cereali, mentre calano le scorte mondiali. Anche
l’uso di
agrocombustibili per abbattere i gas climalteranti sta peggiorando le condizioni
alimentari
complessive: ancora una volta la logica del capitalismo, per la sua stessa necessità
di profitti
a breve termine, entra in radicale contraddizione con l’equilibrio climatico
del pianeta. Per
non parlare dei pericoli per lo stesso futuro del pianeta e dell’umanità
della proliferazione di
armi nucleari e della corsa poderosa al riarmo atomico prodotta dalla politica
dell’imperialismo americano. Senza la proprietà pubblica e il controllo
sociale dei beni
comuni il pianeta rischia l’autodistruzione. L’alternativa Socialismo
o barbarie torna quindi
a proporre la propria attualità in termini drammatici. Sempre di più,
anche dalla questione
ambientale, riemerge la necessità di una alternativa globale al capitalismo,
di “un altro
mondo possibile”, di prospettare una società che risponda ai bisogni
dei cittadini e non alle
esigenze del profitto, basata sulla socializzazione dei principali mezzi di
produzione,
integralmente democratica e socialista, rispettosa della natura e delle differenze
di genere.
La presenza e l’intervento nei movimenti
Un forte partito comunista e una sinistra anticapitalista ampia non si costruiscono
nei
convegni ma sulla base di una piattaforma politica e nel vivo di un conflitto
sociale che
tornerà a esplodere. Sono due strumenti per realizzare una politica,
non due fini. Ciò che
infatti distingue la nostra dalle tante proposte ascoltate in questi mesi nel
Prc – soggetto
unitario e plurale, federazione, costituente della sinistra – è
che cerchiamo di costruire
un’analisi del capitalismo italiano (e internazionale), di individuare
una piattaforma politica
e alcuni obiettivi concreti e di cercare la soluzione organizzativa più
adatta a perseguirli.
La borghesia italiana oggi gioca la carta del bipartitismo Pdl-Pd proprio per
affrontare
l’impatto della crisi capitalistica internazionale cercando di contenere
lo scontro sociale. Per
questo la cancellazione della sinistra dal Parlamento viene festeggiata dalla
nuova dirigenza
di Confindustria, ma allo stesso tempo preoccupa alcuni tra i più acuti
esponenti delle classi
dominanti, timorosi del venir meno di un ammortizzatore istituzionale della
lotta di classe e
più in generale del conflitto sociale. Per difendere rendite e profitti
dalla tempesta
economica a governo e opposizione parlamentare verranno richieste:
- politiche sociali che scarichino il peso della crisi in misura ancora maggiore
che nel
passato sulle spalle dei lavoratori/trici e delle fasce inferiori del ceto medio
(riforma del
modello contrattuale, privatizzazioni e liberalizzazioni, ulteriore riduzione
della spesa
pubblica);
- investimenti infrastrutturali a favore del grande capitale (alta velocità,
energia, ecc.);
- una politica estera sempre più aggressiva e proiettata verso paesi
in grado di fornire
materie prime e forza lavoro a basso costo.
Ma questi interventi potrebbero determinare l’insorgere e l’acuirsi
delle contraddizioni
sociali e rappresenteranno un’opportunità di rilancio per i movimenti
che già sono stati
protagonisti in questi anni (Alta Velocità, Vicenza, ecc.) e per l’insorgere
di nuovi
movimenti. Ciò costituisce un’occasione di rilancio del movimento
comunista e della
sinistra anticapitalista nel nostro Paese, purché siamo in grado di recuperare
le relazioni
perse in due anni di governo e di costruire un nuovo metodo di relazione coi
movimenti.
Praticare l’internità ai movimenti non significa rinunciare all’autonomia
dei comunisti, a
portare una propria posizione dentro il loro dibattito e ridursi ad essere solamente
un
riferimento istituzionale. Una volta giunti al governo il patrimonio di credibilità
che
avevamo accumulato negli anni precedenti è stato dilapidato rapidamente,
i nostri rapporti
coi compagni di strada incontrati dal 2001 in poi si sono deteriorati e caricati
di tensioni.
L’unico modo di recuperare credibilità è prendere atto pubblicamente
degli errori commessi
e capovolgere il proprio metodo di intervento. I nostri compagni devono intervenire
nei
movimenti di lotta aiutando a promuoverli, a dare loro un’organizzazione,
contribuendo al
dibattito politico interno con il proprio punto di vista. Deve ritornare prioritario
far capire ai
nostri iscritti che un comunista è chiamato a rispondere in prima persona
ai propri bisogni di
lavoratore, di studente, di cittadino, attivandosi politicamente nel proprio
posto di lavoro,
nella propria scuola, nel proprio quartiere. In una fase di estrema frammentazione
delle
lotte, in cui il conflitto tende a svilupparsi prevalentemente in una dimensione
di difesa del
territorio e dei bisogni locali (compresi gli stessi bisogni sociali) è
fondamentale inoltre che
un partito comunista si ponga il problema di un coordinamento delle lotte e
di elaborare una
proposta politica in grado di portare a sintesi le differenti istanze che emergono
dalle tante e
variegate vertenze che si sviluppano nei territori. Da questo punto di vista
è fondamentale la
capacità di ricondurre le tante contraddizioni presenti nella nostra
società a quella, centrale,
tra capitale e lavoro, avendo presente, pur senza schematismi, che i lavoratori/trici
sono il
pilastro per la costruzione di un blocco sociale in grado di affrontare quelle
contraddizioni e
che quindi è fondamentale costruire il proprio intervento politico a
partire dai luoghi di
lavoro. La lotta contro la base Dal Molin, contro la Tav e per il rafforzamento
delle reti
ferroviarie metropolitane e dei pendolari, contro gli inceneritori non rappresentano
semplicemente movimenti a difesa del territorio ma la critica di un modello
di sviluppo
capitalistico globale, fondato sullo sfruttamento dei lavoratori, in cui la
guerra, la
devastazione dell’ambiente, i danni alla salute, lo spreco di risorse,
lo stravolgimento
speculativo di intere aree metropolitane, la precarietà si congiungono
e si completano come
tessere di un unico mosaico e sottolineano l’esigenza di un modello alternativo
di gestione
del potere, anche attraverso la costruzione di nuove forme e istituti di partecipazione
popolare.
Come i movimenti delle donne ci hanno mostrato lungo tutto il ‘900 e ancora
oggi, la
contraddizione di genere attraversa la contraddizione principale di classe e
tutte le altre
contraddizioni della società capitalistica. Per questo è necessario
sviluppare la critica
femminista alle strutture e alla cultura del patriarcato, che permangono e sostengono
la
società capitalistica, nella consapevolezza che nel nostro tempo la lotta
per il socialismo e il
comunismo può ritrovare la sua carica originaria di liberazione integrale
solo se è capace di
assumere dentro il proprio orizzonte anche le problematiche poste dal movimento
femminista. Risulta fondamentale approfondire l’analisi del nesso produzione/riproduzione.
La gestione della riproduzione è parte essenziale della divisione sessuale
del lavoro. Il
lavoro di cura e ri-produzione continua a non trovare riconoscimento e ad essere
compiuto
quasi esclusivamente dalle donne: massa di lavoro non retribuito che le donne
continuano a
svolgere nelle famiglie o che viene esternalizzato alle donne immigrate. Attività
di cura e
lavoro domestico non pagato costituiscono una stampella importante per la sostenibilità
del
sistema.
La guerra e l’imperialismo
L’altro grande tema su cui rilanciare l’iniziativa del partito,
della sinistra alternativa e dei
movimenti è quello della lotta contro la guerra. Le nuove minacce che
gravano a livello
internazionale fanno della questione della pace uno dei terreni prioritari di
intervento e di
mobilitazione di massa. Il principale ostacolo al movimento per la liberazione
dei popoli e
alla lotta mondiale per il socialismo deriva oggi dal predominio economico,
politico e
militare delle grandi potenze imperialiste, in primo luogo gli Usa. Indebolire
questo
predominio e la politica di guerra su cui si regge è la condizione primaria
(certo non l’unica)
per consentire alle lotte dei popoli e all’umanità intera di aprirsi
la via verso la pace e
trasformazioni di tipo socialista. Da qui deriva non solo il valore in sé
del movimento contro
la guerra, contro il riarmo, contro la Nato, contro la presenza di armi nucleari
e basi militari
straniere sul territorio nazionale, ma anche la sua connessione con la questione
sociale e con
la lotta per il socialismo e il comunismo.
Il contesto mondiale agli inizi del XXI secolo è fortemente dinamico.
La Storia non si è
fermata dopo la crisi del 1989. E se è vero che nei paesi a capitalismo
sviluppato, dove si
concentra ancora buona parte della ricchezza mondiale, le spinte moderate e
di destra sono
oggi prevalenti, nella gran parte dei paesi e delle regioni del pianeta cresce
l’insofferenza
per un mondo unipolare a egemonia americana che sembrava prevalere dopo il crollo
dell’Urss. Si calcola che tra alcuni decenni l’incidenza economica
complessiva di paesi
emergenti come India, Russia, Cina, Brasile, Sudafrica potrebbe eguagliare e
poi superare
quella di Usa, Ue, Giappone. Per non parlare dell’importanza del processo
di liberazione dal
giogo imperialistico in corso in America Latina, nel “cortile” di
casa degli Usa.
Gli Stati Uniti, di fronte alla propria crisi economica, a un debito estero
che è il maggiore
del mondo, all’emergere di nuove potenze che ne minacciano il primato
mondiale; di fronte
all’emergere di un mondo multipolare in cui più forti si fanno
le spinte verso processi di
emancipazione e di liberazione di interi popoli e continenti, percepiscono il
rischio di un
declino della loro egemonia planetaria. E scelgono la via della guerra, del
riarmo e del
primato militare per tentare di vincere con le armi quella competizione che
stanno perdendo
in campo economico. Da qui nascono le guerre dell’ultimo ventennio: Yugoslavia,
primo e
secondo conflitto in Iraq, Afghanistan, Libano. Da qui le ricorrenti minacce
di guerra
all’Iran e in altre zone calde del mondo, quelle all’indipendenza
e alla sovranità di paesi
come Cuba e Venezuela; le politiche di riarmo nucleare, convenzionale, spaziale;
infine il
sostegno alla politica aggressiva di Israele in Medio Oriente. E allo stesso
tempo di qui
germinano politiche economiche che aumentano gli squilibri nei Paesi in via
di sviluppo,
dove vive la grande maggioranza della popolazione del pianeta, stimolano le
delocalizzazioni produttive nei paesi a basso costo del lavoro e l’immigrazione
di
lavoratori/trici nei paesi industrializzati, in una logica di competitività
tra poveri che
alimenta risposte difensive tra i lavoratori e li espone all’influenza
di partiti interclassisti e
reazionari come la Lega.
Grazie al movimento mondiale contro la guerra e all’opposizione di un
vasto schieramento
internazionale (ivi compresa una parte dell’opinione pubblica Usa), la
politica di Bush
manifesta segni di crisi. A ciò ha contribuito in maniera importante
la capacità di resistenza
del popolo irakeno contro l’occupazione militare (così come quelle
del popolo palestinese e
del popolo libanese contro l’aggressione israeliana), che ha tenuto impantanato
sul terreno il
potentissimo esercito americano non consentendogli la vittoria. Proprio la resistenza
di
questi popoli all’aggressione violenta dell’imperialismo ripropone
la validità del diritto
democratico alla resistenza. E pertanto è necessario sviluppare concrete
iniziative di
solidarietà con quei popoli come avvenne – sia pure in un contesto
molto diverso – durante
la guerra del Vietnam, pur in un quadro di autonomia politica dalle forze reazionarie
che
agiscono talvolta nell’ambito di quei movimenti di resistenza.
L’Italia e la Ue subalterne all’alleanza con gli Usa
Vi sono molte buone ragioni per criticare la politica italiana di questi anni
in materia di pace
e di guerra: la guerra in Afghanistan, l’ampliamento della base militare
di Vicenza,
l’accordo di cooperazione militare con Israele, l’accordo di cooperazione
per lo scudo
spaziale (avallato da Prodi senza neppure passare al vaglio del Parlamento e
dello stesso
Consiglio dei Ministri), la politica nei confronti del Kossovo, il sostegno
alla Nato e alla sua
politica di espansione ad Est. E sulla politica internazionale è prevedibile
che il nuovo
governo Berlusconi – in un contesto presumibilmente bipartisan –
peggiorerà ulteriormente
le cose. Come già si vede in Libano, dove la presenza del contingente
italiano rischia di
essere definitivamente trasformata in forza apertamente filo-israeliana e ostile
alla resistenza
libanese. Mentre in Italia si afferma un clima culturale bipartisan per cui
ogni iniziativa di
boicottaggio della politica israeliana viene immediatamente tacciata di “antisemitismo”.
In
particolare la decisione di accettare l’ampliamento della base di Vicenza
è stata
particolarmente grave, rivelando – al dunque – una sostanziale continuità
tra centro-destra e
centro-sinistra, nel quadro di una politica estera piegata alle esigenze strategiche
dell’alleanza con gli Usa.
Perciò da qui può e deve ripartire il movimento contro la guerra
nel nostro paese, con il
pieno appoggio al movimento No-Dal Molin, per un rilancio complessivo di tutto
il
movimento contro le basi militari straniere e la presenza di armi nucleari in
Italia, per
rimettere in discussione la presenza della Nato in Italia, per il ritiro dei
contingenti militari
italiani coinvolti in scenari di guerra, per la riduzione delle spese militari.
E’ stato un errore illudersi, come si ipotizzò al Congresso di
Venezia, che i segni di crisi
della politica di Bush potessero indurre settori della borghesia italiana ed
europea a
collocarsi su un terreno più avanzato, disponibili e “permeabili”
ad un ridimensionamento
del loro approccio liberista e filoamericano. Al contrario, la crisi dell’oltranzismo
della
presidenza Bush, la possibile ascesa di un candidato “democratico”
alla presidenza Usa, la
vittoria di Sarkozy in Francia e di Berlusconi in Italia, la politica di grande
coalizione in
Germania, rafforzano i presupposti di una ritrovata solidarietà tra Usa
e Ue. Ciò non
cancella i fattori durevoli di competizione economica tra i due principali poli
del
capitalismo mondiale, ma certamente elimina un certo europeismo superficiale
e acritico, in
voga anche in alcuni settori della sinistra europea, che fino a pochi anni fa
scommetteva
sull’Unione Europea come forza portatrice nel breve-medio periodo di potenzialità
progressive sullo scenario mondiale e continentale e polemizzava con l’
”euroscetticismo di
sinistra”. Oggi quelle tesi vengono cancellate dallo sviluppo degli eventi
e ciò che emerge è
una UE che va sempre più a destra, e una social-liberal-democrazia europea
(in Italia il Pd)
che a quelle tendenze più o meno prontamente si adegua. Ciò trova
conferma anche nella
scelta recente dei principali governi dell’Unione Europea che, ignorando
la bocciatura della
Costituzione europea in Francia e Olanda, ripropongono un nuovo Trattato Ue
che ne
ricalca i tratti essenziali (neo-liberisti ed euro-atlantici), rifiutandosi
peraltro di sottoporlo al
responso di referendum popolari. In ogni caso unilateralismo o multilateralismo
Usa-Ue
restano oggettivamente variabili interne allo scontro intercapitalistico tra
opzioni
“democratiche” o “conservatrici”, volte a comporre le
contraddizioni del capitalismo
globalizzato. Per questo va rilanciata la lotta coordinata con altre forze europee
contro la
Costituzione europea e le politiche liberiste e antidemocratiche della Ue. I
comunisti devono
elaborare una proposta politica che sia in grado di inquadrare le lotte dei
lavoratori/trici e
dei movimenti contro la guerra e il neoliberismo che si sviluppano a livello
nazionale, nel
contesto mondiale, lavorando sul terreno delle relazioni internazionali e delle
alleanze, per
sviluppare iniziative di lotta coordinate.
Del resto, nella nostra lotta non siamo soli, in Europa e nel mondo. Partiti
e movimenti di
ispirazione comunista e anticapitalista - con basi di massa - operano in Paesi
in cui vivono
oltre i 2/3 della popolazione mondiale, in ogni continente. Sappiamo che il
fronte mondiale
di lotta contro la guerra, contro l’imperialismo e il neoliberismo, “per
un altro mondo
possibile”, è uno schieramento plurale, attraversato da grandi
diversità politiche,
ideologiche, religiose, storiche e culturali. Pur tutelando nostra autonomia,
operiamo nel
contesto europeo e mondiale con una filosofia volta alla costruzione delle più
larghe
convergenze, su obiettivi comuni e condivisi, senza pregiudiziali ideologiche.
In questo
quadro auspichiamo il massimo di unità e convergenze possibili innanzitutto
tra i comunisti
e con le forze della sinistra anticapitalista e di classe che nella lotta contro
le politiche
neoliberiste e di guerra, contro il capitalismo e l’imperialismo, tengono
aperta la prospettiva
storica più generale della costruzione di una società di ispirazione
socialista, alternativa al
capitalismo. Anche per questo non è più eludibile l’esigenza
di un nuovo internazionalismo,
aprendo il confronto, l’elaborazione strategica e l’impegno per
ricostruire un coordinamento
delle lotte contro la guerra e il neoliberismo, contro il capitalismo e l’imperialismo.
Una piattaforma di opposizione a tutte le politiche neoliberiste e di
guerra
Un grande partito comunista e una sinistra anticapitalista larga si costruiscono
in primo
luogo elaborando campagne politiche e sociali in grado tradurre in lotte e rivendicazioni
pratiche, comprensibili per i ceti popolari, le considerazioni fin qui svolte.
Da subito e
concluso il congresso nazionale, è necessario praticare l’opposizione
al governo delle destre
con una precisa piattaforma di lotta che preveda:
Nei posti di lavoro: una campagna che chieda aumenti salariali e un rilancio
della
previdenza pubblica, a scapito dei profitti e delle rendite e non della spesa
sociale; che dica
no allo svuotamento del contratto nazionale voluto da Confindustria e anticipato
dal recente
accordo tra Cgil Cisl Uil; che rivendichi un intervento severo contro le morti
bianche e a
tutela della sicurezza sul lavoro, il rafforzamento del ruolo dei Rappresentanti
dei Lavoratori
per la Sicurezza e l’incremento dei ruoli ispettivi; che punti a una significativa
riduzione del
lavoro precario; che miri a bloccare le privatizzazioni e le esternalizzazioni,
a rilanciare
l’intervento pubblico (a partire dalla difesa dei beni comuni) e il controllo
dei lavoratori/trici
sull’organizzazione del lavoro, sulla contrattazione, sulle politiche
aziendali e sui diritti
democratici di rappresentanza, sugli strumenti di sostegno dell’occupazione
e dei percorsi
professionali femminili.
Sui territori e nei quartieri: un intervento nei movimenti, a partire da Vicenza
e dalla Val
di Susa, che sappia legare la difesa dell’ambiente al controllo sulla
produzione e sulle
politiche economiche (vedi la questione rifiuti) e alla lotta contro la guerra;
che dica no alle
privatizzazioni e a infrastrutture inutili e costosissime ad esclusivo beneficio
delle imprese,
allo smantellamento dei servizi e dei presidi pubblici attuato in questi anni
da governi
nazionali e locali, a partire dalla sanità, dai servizi sociali e da
quelli educativi; che
sottolinei la necessità di un controllo sui prezzi e sulle tariffe per
risolvere il problema
“della quarta settimana” e del diritto alla casa come diritto ad
una vita dignitosa per tutte le
persone.
Tra i giovani: un impegno per difendere l’istruzione come un bene sociale
collettivo, contro
una scuola ed una università di classe, la mercificazione della cultura
e della socialità;
contro la precarietà e per la difesa del diritto al lavoro e alla casa
dall’arroganza di imprese e
gruppi bancari; contro le discriminazioni legate all’orientamento sessuale,
il moralismo
borghese e il riaffacciarsi di interventi contro il diritto all’autodeterminazione
delle donne a
partire dalla 194; difendendo i diritti civili, non in contrapposizione a quelli
sociali ma
cogliendone il nesso intrinseco.
Tra i migranti: affermazione dei diritti di cittadinanza e della pari dignità
degli immigrati
con un approccio di classe (fondato sull’unità tra lavoratori/trici
autoctoni e stranieri), che
superi una logica meramente caritatevole; rispettando le provenienze, ma senza
cedimenti a
culture e pratiche oppressive, in una prospettiva di emancipazione da esse;
per gli italiani
all’estero, una politica concreta diretta al loro pieno riconoscimento
come cittadini italiani
all’insegna dell’identità, sostenendo il potenziamento delle
reti consolari,
dell’associazionismo, dei mezzi di informazione e comunicazione.
Nella società: una lotta senza se e senza ma contro la guerra e l’imperialismo
occidentale e
a sostegno dei popoli oppressi; contro l’aumento della spesa militare
a danno di quella
sociale; contro ogni supporto alla costruzione di un polo imperialistico europeo
“progressista” in alternativa agli Usa, di cui le politiche economiche
e sociali della Ue
rappresentano uno degli aspetti; contro tutti gli effetti della globalizzazione
capitalistica:
guerra, povertà, malattia, global warming e devastazione ambientale,
sfruttamento e
concorrenza tra lavoratori, mercificazione dei corpi. E’ necessario, inoltre,
riprendere la
battaglia culturale per reintrodurre il sistema proporzionale (senza soglie
di sbarramento) e
rilanciare la Costituzione contro le “riforme costituzionali” bipartisan
che Pdl e Pd
annunciano per stabilizzare il bipartitismo maggioritario e presidenzialista
all’americana e
per introdurre il federalismo leghista. Altresì occorre arginare il dilagante
revisionismo
storico che ormai non tocca più solo la Resistenza (con l’equiparazione
fra i partigiani e i
cosiddetti “ragazzi di Salò”), ma anche il ’68, il
femminismo ed ogni movimento di
emancipazione e liberazione del ‘900. E’ indispensabile il rilancio
dell’antifascismo non
come un glorioso retaggio del passato ma come battaglia politica e sociale per
affermare
l’attualità dei suoi valori in tutti i campi, dal ripudio della
guerra alla difesa della libertà e
dei diritti dei lavoratori.
L’organizzazione del partito e il suo insediamento sociale
Un partito capace di costruire organizzazione e iniziativa sociale deve però
rivedere le sue
stesse modalità di funzionamento interno, rivelatesi profondamente inadeguate
e non da ora.
La sconfitta della Sinistra Arcobaleno, i rischi di demoralizzazione e di riflusso
che essa
porta con sé, si collocano sullo sfondo di una crisi profonda che da
tempo cova nel partito.
In contrasto con le stesse indicazioni scaturite dalla Conferenza di organizzazione
di
Carrara, la situazione ha continuato ad essere caratterizzata da una crisi di
militanza, da un
forte calo dell’iniziativa sociale e del radicamento, in particolare nei
luoghi di lavoro, da una
tendenza all’appiattimento istituzionale, di adattamento alle logiche
della governabilità e da
fenomeni di burocratizzazione e di leaderismo, di separatezza e di autoreferenzialità
dei
gruppi dirigenti.
Gli iscritti continuano a calare e il turnover ha ormai superato la cifra astronomica
di mezzo
milione. Il che, su un partito di circa 90.000 iscritti, segnala un indice preoccupante
di
instabilità politica, organizzativa, ideologica. Gran parte dei circoli
territoriali esiste solo
sulla carta o vive in condizioni di coma profondo; persino molte Federazioni
si trovano in
grande difficoltà, abbandonate a se stesse, senza risorse economiche
in grado di assicurare la
loro sopravvivenza. E questo è avvenuto nonostante le enormi risorse
derivanti dal
finanziamento pubblico, che sono state destinate in gran parte a potenziare
l’apparato e la
struttura centrale del partito.
Tutto ciò si è accompagnato a un forte deficit di democrazia,
con l’insorgere di preoccupanti
fenomeni di autoritarismo e di risposta burocratica all’emergere del dissenso,
considerato
non di rado come elemento di disturbo da tenere sotto controllo ed emarginare:
una sorta di
incapacità di vivere la dialettica interna come ricchezza e opportunità
per tutto il partito. Un
partito comunista in realtà presuppone una gestione collegiale e pluralista.
Tutti hanno
diritto di concorrere all’elaborazione, alla gestione e alla verifica
della linea del Partito e alla
sua direzione politica.
Questo tipo di involuzione è stata complementare e funzionale al processo
di snaturamento
dell’identità e del carattere comunista del partito, al prevalere
di una concezione di “partito
leggero” che ne ha enfatizzato la vocazione meramente elettoralistica
e istituzionalista, con
tutte le implicazioni negative conseguenti (a partire dalla costituzione in
alcuni casi di
comitati elettorali a sostegno di questa o di quella candidatura), specie nel
momento in cui
l’opzione di governo è diventata pervasiva.
La sconfitta del 13 e 14 aprile deve costituire uno spartiacque anche in tema
di
organizzazione del Partito. Serve una radicale discontinuità. E’
necessario formare gruppi
dirigenti selezionati sulla base delle competenze, dell’esperienza, dell’impegno
nei luoghi di
lavoro e nei movimenti di lotta, non in base alla fedeltà a chi dirige
il Partito. Va contrastato
il cumulo di cariche e di incarichi, favorendo la distribuzione e la rotazione
delle cariche. La
dimensione istituzionale va considerata un terreno di impegno, non quello preferenziale.
I
privilegi legati alla collocazione politica e istituzionale, presenti anche
nel Prc, vanno
combattuti, a partire da un intervento sulle retribuzioni di esponenti istituzionali
e funzionari
di Partito, in nome di un’effettiva “alterità” dei
comunisti rispetto alle consuetudini da
“casta” che caratterizzano in generale il mondo della politica.
In questo senso una
riflessione specifica andrebbe aperta anche sull’utilizzo del funzionariato,
in termini di
verifica e di rotazione. La pratica del governismo e l’attenzione esasperata
alle vicende
istituzionali e amministrative, anche a livello locale, ha costituito la base
per l’involuzione
degenerativa del partito, per alimentare il distacco fra il ceto politico-istituzionale
formatosi
anche nel Prc e la base militante. Per cambiare radicalmente questa situazione,
al centro
della discussione e dell’azione del partito va rimesso l’intervento
nella lotta di classe, nei
luoghi di lavoro, nel sindacato, nelle scuole e nelle università, nei
movimenti e nei quartieri
popolari. Il partito comunista che vogliamo rifondare dovrà riorganizzarsi
nel radicamento
nei posti di lavoro e in tutti i luoghi del conflitto sociale, attraverso il
rafforzamento dei
circoli esistenti e la costruzione di nuovi circoli e collettivi che sappiano
diventare
riferimento avanzato di tutti i soggetti vittime delle contraddizioni del capitalismo.
In particolare, nelle grandi città e nelle realtà metropolitane
(con particolare attenzione ai
grandi insediamenti popolari), che sono i luoghi dove si sviluppano le grandi
e stridenti
contraddizioni sociali del capitalismo e che sono destinate a produrre i principali
movimenti
di lotta e di opinione in grado di trascinare il conflitto sociale su tutto
il territorio nazionale,
bisogna concentrare lo sforzo organizzativo per dotare il partito di nuovi strumenti
forti,
efficaci, di elaborazione e di azione. Un forte impegno dovrà essere
sviluppato per rilanciare
e ricostruire le strutture di partito tra la nostra emigrazione in Europa e
nel mondo, anche
per l’importanza internazionalista di queste esperienze di lotta a fianco
di altri partiti e
movimenti comunisti e di sinistra alternativa.
La crescita e la formazione politica e culturale dei militanti – specie
di quelli più giovani – è
per il Partito un patrimonio di primaria importanza, carico di futuro. L’elaborazione
di una
politica culturale, l’intervento tra gli intellettuali (e i lavoratori/trici
intellettuali), che
rappresenta uno dei tanti terreni abbandonati dalla sinistra e dai comunisti
in questi anni, è
uno strumento di egemonia e di contrapposizione ai “valori” del
capitalismo che non può
essere abbandonato al Pd né tanto meno alla destra. L’innalzamento
del livello culturale e
politico di tutto il partito può inoltre contribuire, assai più
delle esortazioni, a potenziare la
sua democrazia interna (“l’informazione è potere”)
e a superare logiche interne di
appartenenza, legate spesso più a vecchie esperienze e collocazioni che
non a un confronto
di merito sulle problematiche del presente, che ha bisogno invece di una dialettica
libera e
non cristallizzata. La destra è oggi vincente anche perché sa
colmare, proponendosi come
una forza d’ordine e decisionista, il vuoto prodotto dalle debolezze,
politiche e culturali,
della sinistra. Occorre rispondere alla sua protervia conservatrice e reazionaria
attraverso la
ricostruzione di un pensiero forte, fondato sull’attualizzazione del marxismo
alle
contraddizioni del mondo di oggi. Occorre investire soprattutto nell’opera
di formazione
culturale e politica di giovani, donne e lavoratori, senza di che ogni discorso
(o regola) sul
superamento delle discriminazioni di classe e di genere e sul rafforzamento
della presenza
femminile, giovanile e operaia nella vita del partito è destinato a rimanere
sostanzialmente
lettera morta.
Insomma un partito comunista, fortemente organizzato e radicato nella società,
nel mondo
del lavoro, nei movimenti di lotta, oggi è ancora uno strumento indispensabile
per
combattere il sistema capitalistico e gli effetti devastanti ed anche inediti
che esso dispiega
in ogni campo e in ogni articolazione della nostra società.
Claudio Bettarello
Fosco Giannini
Leonardo Masella
Gianluigi Pegolo
Vincenzo Simoni
Marco Veruggio
Gilda Bellitti
Guido Benni
Andrea Catone
Pasquale D’Angelo
Alì Ghaderi
Matteo Malerba
Antonello Manocchio
Luigi Minghetti
Francesco Maringiò
Vladimiro Merlin
Adriana Miniati
Claudia Rancati
Nadia Schavecher
Roberto Sconciaforni
Giuliana Sema
Marco Trapassi