VII°
CONGRESSO
Documento
Vendola
Manifesto
per la Rifondazione
Il nostro partito e le sfide della sinistra
PREMESSA
Il capitalismo della nostra epoca, quello della globalizzazione, è una
forma senza precedenti di
spoliazione a partire dal lavoro dell’essere umano, della natura, delle
conoscenze. E’ il capitalismo
della colonizzazione dei corpi e dello spirito, un capitalismo totalizzante
che incorpora e
accompagna anche, antiche forme di dominio, a partire dall’organizzazione
patriarcale della
società. La “guerra preventiva e permanente” si propone come
un nuovo ordine mondiale,
alimentando la spirale drammatica del terrore e dei fondamentalismi. La stessa
mutazione
climatica, nel suo intreccio fondativo con un modello di crescita che dissipa
risorse e accumula
veleni, incombe come una ipoteca distruttiva sulla biosfera e sul destino del
genere umano. Le
classi sociali, la persona e la natura e con esse la democrazia, dentro questa
prospettiva, sono
ridotte a delle semplici variabili dipendenti. Le conseguenze sociali, come
quelle sui diritti, sono
allarmanti. Il precariato fagocita le conquiste sociali acquisite in mezzo secolo
dal mondo del
lavoro. La prospettiva di vita di tutta una generazione è bloccata. Le
ineguaglianze si accrescono,
diventano strutturali, fino a trasformarsi in motore della nostra società
contemporanea. Davanti a
questo quadro, una alternativa di società è necessaria e possibile.
Ma la sinistra in Europa si trova oggi di fronte alla sfida forse più
difficile della sua storia: quella
dell’esistenza politica. Non è solo, com’è successo
tante altre volte, il rischio della sconfitta: quel
che si affaccia all’orizzonte è il rischio di un vero e proprio
declino. E questa volta l’urgenza della
risposta è davvero grande perché grande è la minaccia.
Se essa si avverasse, l’esito sarebbe
drammatico: l’eredità intera del movimento operaio del ‘900
ne sarebbe dilapidata.
In Italia, il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile 2008 ci restituisce
il profilo d’un Paese che non
conoscevamo: per la prima volta nel dopoguerra, la sinistra politica è
stata cancellata dalle
istituzioni nazionali. Il nostro Partito, il Partito della Rifondazione comunista,
ha subito una dura
sconfitta, proprio nel momento di massimo investimento in un nuovo processo
unitario. Tale è stato
il significato del fallimento della formula elettorale della Sinistra Arcobaleno.
Questa non è riuscita
a contrastare la riduzione del sistema politico ad uno schema tendenzialmente
bipartitico e la
conseguente tensione presidenzialista della campagna elettorale. Non ha conseguito
alcun
successo nel sottrarre consensi all’attrazione del “voto utile”.
Ha quindi fallito nella competizione
con il Partito democratico di fronte al ritorno di Berlusconi e delle destre.
In sostanza non è stata in
grado di costituire realmente una proposta di ricollocazione e di rilancio di
una prospettiva per la
sinistra politica italiana, dopo la caduta dell’esecutivo Prodi e la fine
della logorante e sofferta
partecipazione al governo.
Un esito che nessuno aveva previsto o immaginato: per la prima volta nella storia
della Repubblica
non vi è in Parlamento alcuna sinistra politica, alcuna formazione e
neppure un eletto che vi si
richiami esplicitamente.
La nostra riflessione non può che muovere da questo evento traumatico
e dal contesto, non solo
italiano, che l’ha prodotto. Ma per capire che cosa è davvero successo
nel profondo della società
italiana, e che cosa possiamo e dobbiamo fare, è essenziale dismettere
ogni residua iattanza
ideologica, ogni pretesa di autosufficienza, ogni scorciatoia analitica e politica.
Questo è il tempo
della ricerca collettiva, senza steccati e barriere precostituite. Del dubbio.
Della necessità, da parte
di tutto il gruppo dirigente del nostro Partito, di “rendere conto”
di ciò che ha fatto, e di ciò che non
ha fatto, fino in fondo. Ciò che conta è stabilire insieme il
punto di partenza e la direzione di
marcia di questa ricerca.
Questo nostro congresso, perciò, ha carattere straordinario, ma nient’affatto
contingente. Una
comunità ferita si raccoglie, si confronta e non cerca consolazioni,
ma risposte chiare e non
circoscritte alla “tattica della fase”: la chiarezza delle risposte
che solo la politica può dare. Un
partito che vuole continuare a vivere, deve riscoprire la virtù basica
del coraggio politico. Esso
quindi vuole e deve coinvolgere tutte le iscritte, iscritti, militanti, ai quali
è riconsegnato il
diritto\dovere alla parola e alle scelte, ma è anche a disposizione di
tutta la sinistra, e di tutti coloro
che condividono il nostro assillo principale: la sua ricostruzione. La sua rinascita,
attraverso un
processo costituente di natura radicalmente nuova, che coinvolga il popolo della
sinistra e lo
renda protagonista dei suoi destini.
Questo processo è il tema vero che anima la riflessione della Sinistra
europea. La nostra decisione
di agire per la costruzione della Sinistra europea è una scelta di fondo.
L’Europa è il luogo di
articolazione delle politiche liberiste, ma anche quello della possibilità
di definire un’alternativa.
Perciò noi agiamo sistematicamente per la dimensione europea dei conflitti,
per una relazione
costante con i movimenti che si sviluppano nel continente, per una presenza
efficace ai livelli
istituzionali europei. Abbiamo contrastato il progetto costituzionale europeo
di tipo liberista in nome
di un processo costituente democratico che parta dal basso. La nostra appartenenza
al Partito
della Sinistra europea vede oggi un impegno particolare per definire piattaforme
ed organizzare
mobilitazioni, in special modo sulle questioni del lavoro che, insieme a tutti
i temi legati alla tutela e
all’allargamento dei diritti, saranno oggetto del programma elettorale
per le prossime elezioni
europee.
Questo è il senso del nostro nuovo congresso e del documento che qui
presentiamo alla
discussione e ai contributi emendativi di tutte le compagne e i compagni.
Parte I. SPUNTI PER UN’ANALISI
1a. L’Italia (e l’Europa) a destra
Il dato politico più rilevante, che il voto di aprile ha per un verso
disvelato e per l’altro ha
determinato, è quello di una svolta a destra di dimensioni inusitate,
evidente nella politica, nelle
istituzioni, negli assetti del potere, nelle relazioni sociali, ma soprattutto
percepibile nel “senso
comune” e nell’egemonia dei valori. La destra vince, anzi sfiora
il trionfo, non solo per la debolezza
della prospettiva del Partito Democratico e per la fragilità della sinistra,
ma anche in virtù della
propria capacità di intercettare la crisi sociale e di offrirle uno sbocco
che è stato ritenuto credibile:
un impasto di ideologie regressive, rassicuranti e anche illusorie, che però
rinviano a un’idea forte
di società.
In assenza di risposte progettuali e di massa adeguate ed efficaci, quello che
può determinarsi è
un ciclo di lunga durata, in un quadro europeo di prevalente spostamento a destra
dell'asse
politico, come ribadito in ultimo dalla riscossa dei Conservatori in Gran Bretagna
e a Londra. Nel
contempo evapora il profilo generale delle sinistre “moderate”,
riformiste e post-riformiste,
sintetizzato in Europa dalla deriva delle forze del Pse verso formule nazionali
diversificate con la
sola dominante di un ostinato investimento sulla ricerca delle compatibilità
“di mercato” e di un
“liberismo temperato” sempre più in difficoltà. Ne
é esempio eloquente il debutto del nuovo Partito
Democratico di Veltroni con un clamoroso insuccesso. Si distingue in questo
quadro l’esperienza
di Zapatero in Spagna, non solo per i diversi e positivi esiti elettorali anche
recentemente registrati,
ma soprattutto per i tratti di originalità dell’elaborazione politica
che sostiene e anima quella
esperienza, che meriterebbe di essere indagata in modo non banale. D’altro
canto, il campo delle
sinistre alternative resta tuttora appeso al rischio di scomparsa dal terreno
politico: lo scacco della
Sinistra Arcobaleno lo attesta solo per ultimo, dopo quelli di Izquierda Unida
in Spagna e del Pcf in
Francia. La scommessa della Sinistra Europea è tuttora aperta, spalancata
su questo rischio come
un'altra possibilità ancora da costruire e praticare, la sola che può
proiettare oltre i confini dei casi
singolari i successi in controtendenza dell'Akel a Cipro, del Synaspismos in
Grecia e soprattutto
della Linke in Germania - tutti accomunati dalla ricerca, differentemente sperimentata,
di
un'innovazione generosa delle proposte politiche e delle forme organizzative.
In Italia, però, lo spostamento dell'asse politico assume caratteristiche
ancora più rilevanti e
clamorose, dopo la fragilissima parentesi del governo Prodi, fino al vero e
proprio rovesciamento di
quello che fu chiamato il “caso italiano”, ovvero la permanenza
di un solido e articolato movimento
di massa e di una significativa presenza della sinistra nelle istituzioni.
Nella destra che vince, dove l’exploit della componente leghista rappresenta
il vero “valore
aggiunto” e la conquista di Roma il risultato a più elevato valore
simbolico, l’antica miscela di
neoliberismo e di populismo, quella che ha consentito le vittorie (instabili)
degli anni ’90, non è
stata accantonata, ma sostanzialmente aggiornata. Sull’onda dell’esempio
francese e del
successo di Nicholas Sarkozy, ora il messaggio politico generale verte su una
parola-chiave: la
sicurezza. Ovvero, la promessa di Sicurezza: dallo straniero, dall’”invasione”
dei migranti, dal
moltiplicarsi della microcriminalità, dal degrado dei territori e delle
periferie, dall’angoscia della vita
di tutti i giorni, dall’assoluta imponderabilità del futuro. Sicurezza,
cioè, come riparo dagli effetti
concreti e quotidianamente esperibili della globalizzazione e del suo liquido
disordine, e come
ritorno ad una mitica comunità neo-nazionale o neo-territoriale, che
sarà giocoforza rinserrata in se
stessa, interclassista, neocorporativa e individualizzata (nel senso dell’egoismo
primitivo in luogo
di quello “maturo”). Sicurezza, ancora, come richiamo forte nel
momento in cui le promesse della
globalizzazione si sono ormai rivelate illusorie, sotto i colpi delle crisi
sempre più frequenti che
sconvolgono l’economia mondiale, della crescita galoppante delle differenze
non solo tra paesi
ricchi e paesi poveri, ma soprattutto all’interno degli stessi paesi più
sviluppati ed in quelli con la
maggiore e rapida crescita (come Cina e India), dell’impietoso manifestarsi
dei disastri ambientali
provocati da uno sviluppo vocato al puro sfruttamento dell’ambiente e
delle risorse naturali, che
rompe gli equilibri fondamentali del pianeta, come ci rivela la crisi climatica.
Così le dottrine
neoliberiste vengono messe in causa dai loro stessi proponenti e si riaffacciano
ipotesi
protezionistiche ( quali quelle avanzate recentemente da Tremonti) e di intervento
pubblico diretto
in economia (soprattutto in campo finanziario, ma non solo, viste le sortite
di Berlusconi a proposito
dell’Alitalia).
Questo accento così spostato sul versante popolar-populista non impedirà
certo al nuovo governo
Berlusconi un rapporto “fattivo” con i poteri forti e, segnatamente,
con Confindustria. Quest’ultima,
del resto, sotto la nuova direzione di Emma Marcegaglia, si va organizzando
come un potere
politico forte apertamente strutturato come tale e come centro pensante per
la politica economica
del paese. In sostanza il nuovo gruppo dirigente confindustriale sembra presentarsi
come una
specie di governo ombra, rispetto a qualunque governo, ivi compreso quello attuale.
Se il nemico
comune è l’autonomo potere contrattuale del sindacato - come dimostra
anche la recentissima
ipotesi di riforma della contrattazione che vede la prevalenza del modello Cisl
-, in direzione di
quanto ancora una volta Sarkozy ha già parzialmente realizzato su questo
terreno in Francia, la
prospettiva condivisa è la deregolamentazione “definitiva”
del mercato del lavoro: la fine, o il
drastico ridimensionamento, del contratto nazionale di lavoro, la restaurazione
delle gabbie
salariali, l’espansione del modello lavorativo e sociale fondato sulla
precarietà (e la flessibilità)
della forza-lavoro. Un'offensiva che muove da un'azione sovranazionale dei poteri
del capitale e
che segna la vicenda cruciale dell'Europa, il cui modello sociale vive da tempo
una mutazione che
prevede una riorganizzazione subalterna delle relazioni sociali già evocata
dagli accordi dei
governi sulla Carta europea. In questo contesto di crisi e riposizionamento
della governance
politica dello spazio europeo, liberismo e populismo tornano a convergere nel
progetto ormai più
che marciante di disgregazione della compagine organizzata del lavoro, dentro
la quale la
solitudine operaia, l’esaurisi di un tessuto nutrito di storia, di relazioni,
di solidarietà, consegnano il
singolo lavoratore alla forza bruta dell’impresa e lo espongono, nella
sua astratta veste di
“cittadino”, alle sollecitazioni di un senso comune disgregato.
Un duplice e violento sradicamento,
che ha spezzato da tempo ogni connessione tra condizione sociale e scelte politiche
– e anche tra
protesta sociale e orientamento di voto. Le destre italiane hanno saputo approfittare
anche di
questo processo, rafforzato nel corso dell’ultimo anno e mezzo dalla campagna
dell’ “antipolitica” e
accompagnato dalla complementare incapacità di ogni soggettività
di sinistra a ristabilire una
connessione efficace con la nuova “composizione di classe”, a saperne
esprimere le effettive
forme di vita e a condividere con essa un progetto alternativo credibile. E
sono riuscite ad
irrobustire il loro bacino di consenso ed articolarlo nelle diverse zone del
Paese, in una accorta
distribuzione geografica di ruoli e competenze tra Fi, An, Lega Nord e MPA.
Ma perché il disagio e il malessere sociale prendono la strada prevalente
del consenso alla
destra? Certo anche perché questa è una tendenza presente in tutto
l’Occidente, come già si è
visto nelle banlieues parigine conquistate da Le Pen o nel voto pro-Bush di
una parte massiccia
degli operai (bianchi) poveri. Perché nelle metropoli e in molte città
del Nord e del Sud (e in
prospettiva anche del Centro) sono i quartieri poveri e le periferie a premiare
la destra, in un
rovesciamento quasi plastico degli equilibri elettorali tradizionali? Certo
anche perché le sinistre
democratiche o moderate dell’Occidente hanno da tempo concentrato la loro
attenzione (e il loro
messaggio neoliberale) sulle classi medie, o addirittura medio-alte. E perché
e come - a Roma
ma forse non solo a Roma – si è consumato nel volgere di pochissimi
lustri un patrimonio come
l’antifascismo? Certo anche perché anni e anni di battente campagna
neorevisionista, sulla storia
d’Europa e sull’equivalenza sostanziale tra fascismo e antifascismo,
hanno scavato a fondo
nell’immaginario e nel sentire comune.
Ma rispondere davvero a questi, ed altri consimili, interrogativi, per ricostruire
una capacità
d’intervento e risposte non episodiche, chiede una capacità di
lettura della società italiana della
quale oggi ancora non disponiamo. Una capacità d’inchiesta all’interno
dei soggetti sociali, dei
“territori”, degli interstizi e dei gangli sociali più profondi,
che si costituisce via via come nuova
progettualità politica – senza la quale il compito necessario di
praticare una “reimmersione nel
sociale” sarebbe a rischio di ridursi a puro esercizio sociologico, se
non a mera retorica. Le destre
vincono, e possentemente, non solo in forza del radicamento leghista nelle regioni
del nord del
paese o di quello della Destra sociale a Roma, ma per la forza politica della
narrazione che in
questi anni ha saputo imprimere “allo stato delle cose” d’Italia
e del mondo. Quello che dà senso
all’esser-ci, e tendenzialmente lo muta, prima che in potere, in egemonia.
1b. La dèbacle politica della “Sinistra l’Arcobaleno”
Gli oltre due milioni e mezzo di voti perduti, l’omogeneità geografica
(in basso) dei risultati, il
mancato raggiungimento del quorum necessario per accedere alla rappresentanza
parlamentare ci
parlano di una sconfitta di portata storica. Nessun sondaggio l’aveva
contemplata, nessuna
previsione, anche tra le molte pessimiste, l’aveva assunta, alla vigilia,
come un esito plausibile.
Una cecità che, a sua volta, è parte integrante del problema politico
d’insieme che oggi dobbiamo
affrontare.
I limiti politici della coalizione ci erano chiari fin dall’inizio. Ma
la precipitazione dei tempi, dopo il
fallimento del tentativo di cambiare la legge elettorale attraverso un governo
a termine, ha reso
pressoché impossibile ogni vera correzione di questi limiti. Ne è
uscito un cartello “pattizio”,
separato dalla sua stessa base militante e d’opinione, ed anzi ad essa
sovrapposto, quindi
percepito come sommatoria di ceti politici tesi alla salvaguardia di se stessi.
Un’esperienza di tipo
federativo che non solo è rimasta imprigionata all’interno dei
partiti e non è riuscita a coinvolgere
parti significative della “sinistra diffusa”, ma non ha neppure
avviato, nel corso della campagna
elettorale, alcun lavoro comune tra le forze promotrici. Una proposta politica,
perciò, che è apparsa
generica e improvvisata, e comunque non credibile – essa è apparsa
anzi un vero e proprio
“residuo”.
La speranza che, a dispetto di questi deficit, scattasse ancora, tra la nostra
gente, il senso
d’appartenenza o la volontà di un “estremo investimento”,
in nome del “bisogno politico di sinistra”,
si è rivelata un’illusione . Non avevamo capito che quell’estremo
investimento, in realtà, c’era già
stato due anni fa, nelle elezioni del 2006, e che adesso, alla prova d’appello,
ci presentavamo
“nudi”, avendo quasi interamente consumato il patrimonio di consensi
ricevuto in dote. Né
avevamo compreso fino in fondo che, di fronte alla devastazione sociale e culturale
indotta da anni
di politiche neoliberiste, di crisi della rappresentanza e di crisi verticale
di fiducia nella politica,
non si trattava “semplicemente” di rimettere insieme dei consensi,
ma di riuscire a dare un nuovo
senso alla stessa nozione di sinistra. Essa, oggi, come tale appare una scatola
vuota e non parla
più alla società: ai movimenti, ai soggetti sociali, ai giovani,
agli operai.
1c. Le ragioni, vicine e lontane, della sconfitta
Perché? Per almeno tre ragioni evidenti: Il fallimento della sfida lanciata
con la partecipazione al
governo Prodi; la frattura consumata con le classi subalterne, i poveri, gli
ultimi – ma anche con i
movimenti e\o loro componenti rilevanti; il mutamento profondo del senso comune
e dei suoi valori
di riferimento.
L’esperienza di governo ha pesato negativamente, molto al di là
di quanto potessimo immaginare,
non per la scarsità, quantitativa e qualitativa, dei suoi singoli risultati,
ma proprio per il suo limite
generale: l’aver radicalmente disatteso l’impegno ad avviare una
nuova stagione per l’Italia,
imperniata su politiche redistributive, sul miglioramento delle condizioni materiali
di vita e di lavoro,
sull’allargamento dei diritti civili e della persona. Questa era, al fondo,
la “ragione sociale” del patto
sottoscritto tra sinistra e “riformisti”: un compromesso, certo,
ma dinamico e provvisto di un
qualche elemento effettivamente riformatore. In realtà – anche
per gli effetti parlamentari di una
vittoria elettorale, che tale non era nella realtà ma solo per quei particolari
meccanismi elettorali
nella quale si era prodotta, e che non abbiamo saputo valutare per tempo in
tutti i suoi limiti –
questa ipotesi non ha quasi mai avuto corso. Se Prodi è apparso timoroso
e a volte succube dei
poteri forti (che per altro non gli hanno mai concesso per intero la loro fiducia),
la sinistra è parsa
prigioniera di Prodi. Inefficace e impotente, al di là della sua volontà,
non combattiva e
inconcludente, e quindi superflua. Perciò la delusione, la disillusione
e il disincanto si sono
espressi in una disaffezione di massa che ha disperso il nostro elettorato un
po’ in tutte le direzioni
- prevalentemente verso scelte più moderate (Pd, prima di tutto, ma anche
l’Idv e la destra), ma
anche nell’astensione e nel voto puramente testimoniale. Il successo della
campagna sul “voto
utile”, cioè, non si fonda soltanto sulla forza martellante dello
schema bipartitico e sulla paura del
ritorno di Berlusconi, nasce anche dal diffondersi di una persuasione di massa
sulla “non utilità”
della sinistra politica.
Un altro processo non ci era davvero chiaro: fino a che punto il tumulto economico-sociale
di
questi anni, con gli effetti della globalizzazione che si sono dispiegati fin
sull’uscio di casa, stia
bruciando le identità storiche, che vengono così percepite come
concrezioni ideologiche
mummificate, astratte, ridondanti. Così, la dura materialità della
vita quotidiana, i suoi pesi, le sue
fatiche, si sono letteralmente schiantate addosso a noi: la “Casta”
della sinistra. Così è sulla
sinistra che quasi giocoforza si scarica la collera – la voglia di punizione
– della solitudine operaia,
dei diseredati, degli ultimi, e anche dei giovani che, in questi anni, hanno
vissuto più o meno
direttamente le istanze di trasformazione dei movimenti. La sinistra, i suoi
gruppi dirigenti, i suoi
quadri “non sono” il popolo che intendono rappresentare, non ne
fanno antropologicamente e
culturalmente parte (salvo eccezioni anche rilevanti e qualche volta vincenti).
Stanno “altrove”. Un
problema, questo, che non è riducibile alla pur importante dimensione
del radicamento sociale. E
che ci domanda una discontinuità radicale.
Infine, ma non ultimo, va considerata appieno la difficoltà di una battaglia
culturale che si scontra
con lo slittamento progressivo del senso comune e dei valori dominanti. Non
ci sono, cioè,
soltanto i dis-valori che l’egemonia di destra ha disseminato nel ventre
profondo della società (il
primato assoluto dell’economico e della logica di mercato, la società
come giungla, competizione e
“selezione naturale” dei più forti, il carattere “naturale”
delle disuguaglianze ). C’è l’infinito
moltiplicarsi dei miti delle avventure individuali (di cui già parlava
Antonio Gramsci nei suoi
Quaderni del Carcere) nel cuore dei processi di frammentazione, isolamento,
spaesamento. C’è il
dissolversi delle compattezze acquisite da duecento anni di modernità
– l’ennesima crisi dei
paradigmi illuministici, della fede incondizionata nella ragione. C’è
l’individuo “singolarizzato” che
appare impermeabile, per definizione e collocazione materiale, ad ogni narrazione
collettiva. C’è il
nuovo rapporto tra la produzione di merci, la pubblicità, i mass media
e la costruzione attiva della
idea di vita possibile e/o auspicabile. C’è il rapporto tra la
produzione di senso della vita e il
consenso politico e sociale al modello del capitalismo contemporaneo. Anche
questi temi sono
stati da tutti noi ampiamente sottovalutati.
1d. Il vuoto a sinistra
L’altra faccia del risultato elettorale, che più da vicino ci tocca
e ci compete, è la duplice sconfitta
che l’ha caratterizzato: quella del Partito Democratico, e quella della
Sinistra. Per quanto lontane e
anzi incomparabili siano le proporzioni numeriche tra il Pd e SA, per quanto
gli analisti e il gruppo
dirigente veltroniano tendano a sottacere il ridimensionamento delle loro aspettative
(ed anzi
continuino a discettare di un “successo” del Pd), queste sconfitte
parallele ci parlano oggi di un
vuoto politico che interroga drammaticamente la qualità della democrazia
italiana. La scomparsa
totale dal Parlamento italiano di eletti che si richiamino a una delle famiglie
politiche della sinistra
del ‘900 - socialismo, comunismo, socialdemocrazia, sinistra alternativa,
culture critiche - non è
soltanto un “nostro problema”, non è riducibile a un effetto
meccanico della legge elettorale in
vigore: paradossalmente, e spesso a dispetto delle affermazioni di autosufficienza,
essa
indebolisce anche il campo riformista o postsocialdemocratico, e ne depotenzia
l’iniziativa. Da
questo punto di vista, l’Italia è parte di un quadro europeo nel
quale l’intero campo delle sinistre è
entrato in sofferenza (con la diversità già richiamata della Spagna),
come emerge anche dalla più
incipienti difficoltà del Partito Socialista Europeo.
In realtà, da noi lo schema di semplificazione bipartitica, e di “modernizzazione
americana”, sul
quale si è incentrata la campagna elettorale, si è rivelato una
trappola, ovvero una sorta di illusione
prospettica per i suoi stessi promotori. Il Partito Democratico ha sì
prodotto lo svuotamento
elettorale della sinistra alternativa nel nome del “voto utile”
e di una rassegnazione di massa a una
competizione che è stata percepita come un referendum tra i due leader
di due partiti, ma ha
perduto seccamente la sfida fondamentale: quella del governo nazionale. La sconfitta
di Roma si
è aggiunta a ciò e ne ha reso plasticamente evidente la portata.
Il risultato politico d’insieme è, per
un verso, il restringimento quantitativo e qualitativo del campo dell’opposizione
politica; per l’altro
verso, il mancato “sfondamento al centro”, data anche l’autonoma
resistenza delle forze centriste
(Udc e Idv). Dunque, ne è risultato uno spostamento ulteriore a destra
dell’asse politico-
parlamentare. Ma, anche, una prospettiva che si è rivelata di corto respiro,
come la “vocazione
maggioritaria” proclamata di una forza – il Partito Democratico
– che è nata ed è stata costruita
come una macchina funzionale ad un unico viaggio\approdo: il Governo. Consumata
questa
chance, anche nella sua eventuale versione bipartisan (almeno per ora, vista
l’entità della vittoria
berlusconiana), il Pd stenta a definire un ruolo e una fisionomia definite.
Tutte le scelte della
“stagione nascente”, praticate a partire dalle primarie dell’ottobre
2007, si rivelano inadeguate ad
una fase di opposizione, per quanto soft e “responsabile” essa sia.
Come il modello “liquido” di
partito, a vocazione presidenzialista e iper-comunicativa. O come l’espulsione
(anzi, l’espunzione)
dalla politica del conflitto sociale, nel nome della fine delle contraddizioni
di classe, ed anzi della
scomparsa stessa della nozione di classe. O come, ancora, l’orgogliosa
pretesa di autosufficienza,
che renderebbe superfluo ogni problema di alleanza. O come, infine, i trionfi
passati del “modello
Roma”.
Per tutte queste ragioni, le difficoltà del “veltronismo”
(che è ben altro e va oltre la leadership di
Walter Veltroni) sono destinate a maturare, e forse a riaprire all’interno
del Partito Democratico
nuove contraddizioni, nuovi confronti e una nuova dialettica politica. I primi
segnali, per altro si
sono manifestati fin dall’inizio della legislatura. Fuori da ogni tentazione
“entrista” o subalterna,
questa possibile nuova dialettica non potrà non interessarci da vicino,
poiché non solo potrebbe
riaprire varchi in un quadro politico apparentemente chiuso, ma potrebbe anche
favorire la rimessa
in causa dell’impianto del “riformismo” neocentrista a vocazione
maggioritaria.
Parte II – PRC, CHE FARE?
2a. Rifondazione comunista, un’ambizione da salvare
Noi, tutti noi, siamo chiamati, in questo congresso, al compito più arduo
della nostra storia: salvare
Rifondazione comunista. Abbiamo certamente già vissuto molti momenti
duri e drammatici. Ma
questa volta è diverso. Qualcosa di profondo si è rotto, nella
connessione politica e sentimentale
con il nostro popolo. Qualcosa che ha radici vicine ma forse anche e soprattutto
lontane. Quanto è
accaduto dipende certamente da noi, ma è anche maturato in virtù
dei processi economici, sociali,
culturali in atto in Italia, in Europa e nel mondo globalizzato. Non sarà
sufficiente, perciò, alcuna
“manutenzione” , anche la più accurata e impegnata, delle
nostre strutture organizzative, per
cominciare a superare la crisi in cui ci troviamo. E' decisiva, invece, un’analisi
spietata degli errori
e delle responsabilità che abbiamo accumulato: non il solito esercizio
rituale dell’autocritica, ma la
riflessione sulla nostra incapacità di praticare un modello di partito
e di vita interna che si
approssimasse a ciò che pure proclamavamo come necessario – una
riforma radicale della
politica, una critica nonviolenta del potere, una modalità delle relazioni
non gerarchica e davvero
sottratta alla “giungla competitiva”, agli individualismi, alla
semplificazione leaderistica,
all’incoerenza sistematica tra il dire e il fare.
C’è stato, in questi anni, un deficit reale di democrazia interna:
non possiamo non prenderne atto e
non ragionare, insieme, sulle terapie che andranno messe in atto. Anche e soprattutto
per questo,
sarà essenziale, piuttosto, un confronto serio, approfondito, fraterno.
L’unità solidale del Prc, oltre
la differenza di opinioni, posizioni, subappartenenze. Ed ecco il lavoro unitario,
il primo e più
significativo impegno collettivo in cui cimentarci: utilizzare tutte le nostre
risorse non nell'esercizio
di circoscrivere le responsabilità, tanto meno nell'attribuzione di “colpe”,
ma per capire
collettivamente che cosa è davvero successo e come collettività
costruire le risposte necessarie.
Mai come in questa circostanza sono da bandire, nelle nostre file, processi
sommari,
semplificazioni, ideologismi, coazioni a ripetere. Mai come in questo congresso
ci sono dannose le
posizioni predeterminate, cristallizzate nel correntismo che purtroppo tormenta
da sempre la vita
del Prc, ne mina l’unità, lo spirito collegiale, l’efficacia
nell’azione, impone una selezione spesso
distorta dei gruppi dirigenti, anche nei territori, impedisce ogni verifica
concreta del lavoro svolto.
Noi, tutte e tutti noi, vogliamo rilanciare Rifondazione comunista e salvarla
dai due principali
pericoli che incombono.
Il primo, è la tendenza alla dispersione. Allo scoramento. Alla persuasione
del carattere “definitivo”
e irreparabile della sconfitta. Alla tentazione del “ritorno a casa”.
Allo scetticismo. Alla pulsione di
sperimentare altrove, in luoghi più grandi e più solidi, la volontà
che resta di fare politica. Non si
tratta, nient’affatto, di un pericolo minore: se non abbiamo uno scatto,
se non riusciamo a fare un
congresso vero, appassionato, e politicamente trasparente, se non siamo in grado
di offrire una
prospettiva alla nostra gente, anche e soprattutto a coloro che hanno cessato
di votarci, la slavina
diventerà valanga. Questo, dunque – lo ripetiamo – non può
che essere il congresso del coraggio
politico.
L’altro pericolo è quello dell’arretramento minoritario.
Rifondazione come rifugio dalle tempeste che
scuotono il mondo. O come identità mutilata di quella che è stata
sin qui la sua più preziosa e
peculiare caratteristica, conquistata nel percorso storico del Partito e non
certo predestinata: la
responsabilità di innovare l'agire politico per la trasformazione, aggiornarlo,
metterne in
discussione i codici originari per riguadagnare un orizzonte di cambiamento
radicale e l'ambizione
del “movimento reale” nella relazione con i soggetti concreti dei
conflitti e delle lotte e nello slancio
a “pesare” sulla politica, sulla vicenda della democrazia, sulla
decisione pubblica. Non si può
ricavare alcuna identità della Rifondazione comunista, espungendone questi
tratti e presumendone
una da custodire nell’attesa, forse, di tempi migliori. Ancor più
nociva e stravolgente della nostra
storia, sarebbe una narrazione dei compiti e del futuro del Prc come di un piccolo
“nucleo
d’acciaio” che resiste ai flutti ma rinvia all’infinito le
fatiche maggiori del fare politica. Convivendo
con simili approcci non avrebbe alcun senso né si realizzerebbe nella
realtà alcun ritorno “nel
sociale”, in fabbriche, territori e quartieri, capace di produrre spazio
pubblico e riprogettazione di
alternativa.
No: la Rifondazione Comunista non si salva nel deserto. Non può salvarsi
se non mette in campo,
subito e risolutamente, un progetto di ricostruzione di una soggettività
politica generale del conflitto
sociale, dunque di ricostruzione di uno spazio e di un campo definiti della
sinistra per l'alternativa.
Non può vivere se punta prioritariamente a sopravvivere, a tornare alle
origini, ad accantonare il
patrimonio di innovazione di questi anni. O meglio: può “vivere”,
sì, nello spazio che consentirà
pressoché a chiunque una società in via di galoppante americanizzazione
delle forme politiche, nel
senso precisamente della loro separazione dal conflitto sociale e della sterilizzazione
di ogni
progetto di cambiamento generale. Lo spazio di una nicchia ininfluente, o di
un piccolo gruppo. O
anche lo spazio riservato all'isolamento della protesta e del radicalismo sociali
che, pur necessari,
hanno oggi davanti a sé il problema di riuscire ad affermare la propria
soggettività e di unificare
una capacità di produrre progettualità politica, egemonia culturale,
prospettiva di trasformazione.
Così è negli Stati Uniti, dove si conducono lotte anche durissime
e molto avanzate ma nella rigida
separazione, imposta da un solido sistema di potere e di neutralizzazione degli
istituti democratici,
da ogni possibilità di rappresentanza e di impatto generale sulle politiche
pubbliche. Le
protagoniste e i protagonisti di quelle lotte quando si recano alle urne non
hanno per chi votare.
Persino in Francia si è prodotta una separazione incolmabile tra società
e politica che, malgrado la
bocciatura del Trattato costituzionale europeo prodottasi su una scia di lotte
condotte “nel nome di
un’altra Europa, di popolo e di sinistra”, ha portato al successo
di Sarkozy e delle destre. Non è
andata poi tanto diversamente in Italia. La Francia ci aveva avvertito.
E' dai movimenti, nella loro globalità, senza esclusioni e contrapposizioni,
dalle pratiche sociali e
dalle lotte, pur in un sistema fortemente segnato dalle culture dominanti, che
può nascere una
possibilità di vittoria. Ma non senza che con loro e tra loro si riapra
una processo politico in grado
di assecondare, potenziare e diffondere l’ondata e svilupparne una proposta
adeguata
d’alternativa. Senza di questo, non solo non si vince ma il movimento
stesso è destinato a rifluire.
Le sirene del ritorno puro e semplice al territorio, dell’indifferenza
tra destra e sinistra, si fanno
sentire anche qui.
2b. Dal Congresso di Venezia al prossimo congresso. L’esperienza
di governo
Noi, tutti noi, vogliamo salvare Rifondazione comunista, ma soprattutto il patrimonio
di cultura
politica e di pratica d’innovazione che abbiamo costruito negli anni.
D’altra parte, era sul terreno
dell’innovazione che si incentrava la proposta portata allo scorso Congresso,
quello di Venezia,
con una discussione impegnativa e generando scelte che oggi siamo in dovere
di sottoporre a
vaglio critico: specie perché oggi discutiamo in una situazione straordinariamente
drammatica, su
un risultato elettorale che è giunto all’indomani della chiusura
di un’esperienza precisa, la
partecipazione al governo Prodi.
Al centro della discussione di Venezia non vi fu, però, soltanto la possibilità
di fare parte di uno
schieramento elettorale e in caso di vittoria di partecipare al governo: la
proposta di allora non è
riducibile semplicisticamente ad un tale approccio politicista, ad una sorta
di contrasto tra
“governismo” e “opposizionismo”. Ciò che vi è
da porre a bilancio è, al contrario, la scommessa
che con quel Congresso si delineò: di rompere cioè la tradizionale
spartizione di compiti – ai partiti
la politica istituzionale, ai movimenti le proteste e le lotte – , di
avanzare la sfida (che si rendeva
necessaria alla fine del quinquennio berlusconiano e, insieme, delle più
intense mobilitazioni
sociali e civili) sulla permeabilità dell’Unione alle istanze dei
movimenti e della sinistra di popolo.
Questa sfida, abbiamo già detto, l’abbiamo perduta. La prospettiva
che ora è aperta di fronte a noi
è quella di una stagione di opposizione, non solo non breve ma che oggi
dobbiamo obiettivamente
assumere come terreno di ricostruzione complessiva.
Di certo, in quei tempi, la scelta assunta al Congresso di Venezia si presentava
come necessitata
e insieme la sola adeguata a verificare una traduzione sul terreno politico
del nostro rapporto con il
conflitto sociale e con l’irruzione dei movimenti sulla scena. Altrettanto
fortemente va oggi riaperto
il dibattito sul rapporto tra sinistra e governo, tra sinistra e rappresentanza,
tra sinistra e strumenti
della trasformazione, tra sinistra e agire politico.
Nelle elezioni del 2006 si produsse, anche attraverso il consenso elettorale
che ricevemmo come
Partito su quella proposta e sulla configurazione del progetto della “Sinistra
Europea”, una sorta di
“estremo investimento” che corrispondeva alla domanda diffusa di
cambiamento. Un investimento
vincolato e a termine: che ha finito per protestarsi nelle elezioni successive,
le scorse, punendo in
particolare la sinistra e noi in essa, che avevamo candidato quella domanda
a farsi determinante.
Un investimento revocato e rovesciato, nella misura della delusione delle aspettative
che avevamo
suscitate intercettandolo. Una sanzione inaspettata nella sua gravità.
Un divorzio, una violenta
separazione tra la percezione diffusa e l’iniziativa politica: tra la
frustrazione delle aspirazioni delle
molte e dei molti e l’azione proiettata e al contempo imprigionata in
un’alleanza fra ceti politici, sul
terreno di un governo a sua volta prigioniero di un’illusione tecnocratica
e per questa via sensibile
piuttosto al richiamo dei poteri forti. Per noi, per la nostra cultura politica
e per il suo nucleo
d’innovazione, un divorzio atrocemente ironico: fra l’assunto del
“cambiare il mondo senza
prendere il potere” e lo scacco matto datoci dalla riduzione del governo
a “minuta” del potere
stesso – la conferma della trasformazione del potere esecutivo in un luogo
separato di pura
gestione, impermeabile appunto al doppio movimento fatto di conflitto sociale
e mediazione politica
che ne era stato il “vincolo esterno” novecentesco; la conferma,
al tempo stesso, della
soverchiante incidenza dei luoghi di decisione dell’economia mondiale
sulle decisioni del governo
nazionale, come si è visto nella questione del rispetto dei vincoli di
Maastricht sulla riduzione a
tappe forzate del deficit e del debito pubblico, che ha pesantemente condizionato
in particolare la
prima legge finanziaria.
Siamo all’opposizione e fuori dalle assemblee elettive, torna quindi nuda
e inequivocabile la nostra
ragion d’essere essenziale: quella della trasformazione sociale, del mutamento
dei rapporti di
forza, là dove più profondamente si determinano, a favore delle
classi lavoratrici e subalterne;
della produzione di spazi liberi e liberati dal dominio della merce; della crescita
sostanziale della
democrazia, come partecipazione, rottura progressiva dei poteri oligarchici,
capacità decisionale di
massa. Non è la scelta – tanto più perché subita,
quanto mai obbligata dalla punizione nelle urne –
della collocazione politica che ci salva. Né da sola e di per sé
può riscattarci l’enunciazione di una
“lunga marcia” nel sociale, da intraprendere ora e cioè all’indomani
di quel divorzio. Decisiva,
oggetto principale della nostra verifica su noi stesse e noi stessi, è
la capacità di avviare un
processo di ricostruzione insieme sociale, politico e di movimento, intervenendo
sulle radici della
sconfitta di oggi e perseguendo una dimensione ampia, di massa, allargata ben
oltre i confini
organizzativi che al momento segnano soprattutto la violenta separazione intervenuta
con il
tessuto sociale. Per questo praticare l’opposizione e una proposta strategica
per essa significa
oggi esercitarsi in un ambito costituente della possibilità stessa d’un
nuovo discorso politico. Ed è
per questo che il patrimonio di innovazione che aveva attraversato il congresso
di Venezia,
precedendo e trascendendo la stessa scelta di governo, andrà finalmente
messo a frutto, per
salvare il Prc e far rinascere la sinistra. Mentre esso, in questi anni, è
andato largamente disatteso.
A Venezia veniva a maturazione un percorso politico-culturale, avviato fin dalla
metà degli anni ’90
e ri-avviato nel 2001 (Genova) dall’esplosione del movimento altermondialista:
il primo tentativo
organico di fuoruscire dalle tradizioni del ‘900 e di coniugare la centralità
del lavoro (e dei soggetti
del lavoro) con le nuove culture critiche. Il femminismo e la lotta al patriarcato,
l’ambientalismo e la
messa in causa dei paradigmi tradizionali della crescita, il pacifismo e la
sua sottrazione ad ogni
residua tentazione campista, sancito dalla opzione strategica della nonviolenza,
non erano più
assunte come “lussi” in qualche modo sovrastrutturali, ma componenti
organiche del “nuovo
movimento operaio” da progettare e costruire. Ora si tratta di dar corso,
fino in fondo, alla
definizione di questa identità, di reindividuarne i contenuti e gli ambiti
prioritari, nonché gli strumenti
necessari per praticarla e farla vivere, nel Paese e nella sua dimensione naturale,
che è quella
europea. Non per caso, a Venezia venne sancita, tra resistenze e perplessità,
la nascita del Partito
della Sinistra europea.
Il primo di questi ambiti è il rapporto privilegiato e di “pari
dignità” con i movimenti. Il movimento
operaio, in generale, ma anche con più ravvicinate condivisioni di percorsi
soggettivi, a partire dalla
sinistra sindacale diffusa e in particolare la Fiom – non a caso oggi
sottoposta alla terribile
pressione derivante dalla torsione che vive la dimensione confederale del sindacato,
facilitata in
senso ancora più negativo dalla sconfitta della sinistra politica , costretta
all’’inseguimento di una
“governance” concertativa delle relazioni sociali, messa in crisi
da destra – o delle combattive
esperienze di base. Il movimento delle donne, il femminismo, senza di cui non
si dà parola politica
realmente contro il potere. I movimenti di lotta e di critica alla globalizzazione,
che hanno
consentito l’uscita dalla grande gelata dell’ultimo ventennio del
‘900 e che non sono certo esauriti.
Ma anche il tessuto delle diffuse vertenzialità territoriali, capaci
di pratiche di democrazia diretta e
di liberazione. Il Partito non è, più, definitivamente, la sede
del pensiero politico “generale” che
porta a sintesi le diverse “parzialità”: è una parzialità
che agisce sulla grande scala, un luogo di
elaborazione e di proposta, un organizzatore di lavoro a disposizione della
cooperazione politica
dei soggetti. Il Partito vive se è capace di stare nei e con i movimenti,
di farsene contaminare e di
assumerne le pratiche virtuose. Un Partito che, tanto nei singoli territori
quanto a livello generale,
tanto nei casi di una vertenza per il diritto all’abitare o contro le
espulsioni collettive dei migranti o
per ottenere una delibera comunale di riconoscimento delle unioni civili quanto
in quelli di una
mobilitazione europea contro direttive liberiste e liberticide, oppure della
contestazione ad un
vertice dei poteri globali quale il G8, sappia mettersi alla prova nell’essere
organizzatore diretto del
conflitto, insieme e in cooperazione con gli altri soggetti protagonisti, non
pensando di limitare la
propria funzione alla semplice rappresentanza del conflitto stesso. Che sappia
cioè passare dalla
rappresentanza all’esercizio diretto del conflitto.
L’altra priorità è la nonviolenza: che non è semplice
rifiuto della violenza e della distruzione
dell’altro come condizione per il proprio avanzamento, ma critica radicale
del potere, dei suoi
assetti, della sua oppressività. Noi, finora, abbiamo espresso un’intenzione.
Non ancora una
pratica, giacché la pratica non è mai stata coerente con questa
intenzione. E nemmeno un avvio di
innovazione. Il nostro Partito non potrà, d’ora in avanti, che
mettere a tema questa nuova capacità
di coerenza.
E poi la democrazia: una idea di “democrazia radicale” che trasforma
in contenuto e strategia ciò
che ha, nel caso migliore, lo statuto di un semplice mezzo. Una democrazia capace
di nutrirsi non
solo di partecipazione, forza dei corpi, costruzione di spazi pubblici in agorà
che si moltiplicano,
ma di forza decisionale dei soggetti. Una democrazia come fine, per contrastare
la passivizzazione
crescente di massa e le tendenze a-democratiche che stanno prevalendo. E per
identificare il ruolo
– ma la soprattutto la necessità - della sinistra politica. Una
democrazia che non può non essere,
infine, la condizione della stessa ricostruzione di una sinistra d’alternativa
larga, partecipata: nel
senso che non si dà una simile impresa senza che la decisione politica
venga rimessa ad una
pratica democratica, aperta realmente ad ognuna ed ognuno, sulla base della
più semplice e
insieme più rivoluzionaria parola d’ordine democratica - “una
testa, un voto”.
2c. Quale modello di Partito.
Come si vede la riflessione aperta a Venezia, pur non essendo seguita da una
pratica coerente, ci
ha posto grandi interrogativi sulla forma partito che ora dobbiamo raccogliere.
La crisi profonda
della politica, entro cui si colloca la stessa crisi della sinistra, dei modelli
partitici e organizzativi
novecenteschi non può certo essere risolta con atti di buona volontà.
Richiede un’ampia riflessione
collettiva e soprattutto un’adeguata e ponderata sperimentazione. Né
si può pensare di importare
modelli precostituiti. Abbiamo più elementi da cui imparare in negativo
che esempi virtuosi da
seguire. Tuttavia un dibattito si è acceso e trascende gli ambiti delle
forze politiche strettamente
intese, riguarda anche quelle esperienze nate su base locale o di movimento.
Dobbiamo sapere
interloquire con questo dibattito, sapendo che un processo di autoriforma del
modello partito,
senza la capacità di raccogliere e accogliere soprattutto le riflessioni
e gli stimoli esterni alle forme
partitiche, non è possibile.
L’analisi delle profonde modificazioni intervenute nella società
contemporanea a seguito di quello
che più volte abbiamo definito la “rivoluzione restauratrice”
del capitalismo, sono il punto di
partenza per definire le nuove funzioni e le nuove forme concrete di un nuovo
modello di partito,
che sfugga alla sola dimensione della “forza” comunque aggettivata.
La devastazione di senso che è stata provocata dalla frantumazione sociale
e dalla pervasività,
nelle sue varie forme, anche le più accattivanti, come quelle dell’intrattenimento
televisivo, del
pensiero delle classi dominanti, unitamente alla sconfitta storica che le esperienze
rivoluzionarie
hanno subito nel novecento, hanno incrinato irrimediabilmente qualunque discendenza
del
messaggio politico dalla adesione ideologica. Non si tratta perciò, per
un partito di sinistra, di
raccogliere consensi tra le masse popolari semplicemente disvelando loro la
loro effettiva
condizione sociale, perché tra questa e l’adesione politica non
vi è alcun nesso. La facilità con cui
avviene lo spostamento a destra dell’orientamento delle stesse classi
popolari ne è una
dimostrazione. Ancor meno ciò è possibile attraverso la sottolineatura
della propria identità
ideologica. Oggi si tratta di ricostruire e di produrre senso, non tanto di
raccogliere consenso.
Questo significa accentuare i caratteri gramsciani del partito come intellettuale
collettivo. Nel senso
che la formazione delle idee, del “senso”, non può avvenire
per trasmissione dall’alto al basso,
dall’avanguardia alle masse, ma come capacità di questo intellettuale
collettivo di essere presente
e protagonista nei vari punti e ai vari livelli nei quali si producono conoscenza
e significati. Diventa
perciò cruciale il rapporto con il mondo della cultura, nella sua accezione
più ampia, che
comprende anche quella scientifica e tecnica. Gli intellettuali, nell’accezione
più ampiamente
gramsciana del termine, non sono più, se mai lo sono stati, utili compagni
di strada, o brillanti
interlocutori, ma i protagonisti della creazione di un nuovo senso di società,
di cui il partito deve
essere propulsore, interprete, seguace. La formazione dei gruppi dirigenti del
Partito va effettuata
all’interno di questo più generale processo. In questo modo va
superata la storica scissione tra il
processo di formazione delle idee e quello della decisione politica, fra dibattito
culturale e scontro
politico.
La democrazia interna al Partito è dunque questione di sostanza, anche
se per essere concreta
deve tradursi in forme ben precise. Riguarda cioè il processo di formazione
delle decisioni.
Superare il “centralismo democratico” non significa semplicemente
autorizzare la libera
espressione di ciascuno, individuale o anche in forma correntizia, ma garantire
fino in fondo la
circolazione dei flussi di conoscenza che sono alla base del processo decisionale
competente e
responsabile. Da questo punto di vista è decisivo, proprio per la formazione
delle decisioni, il ruolo
delle rappresentanze territoriali che siano capaci di trasmettere istanze e
orientamenti che
nascono e si sviluppano nei diversi territori.
Il modello di partito cui aspiriamo è perciò aperto alla società,
nel senso più profondo del termine.
Questo non significa deprivare gli iscritti del loro potere di determinare le
decisioni e le scelte del
loro Partito, ma significa garantire le condizioni con cui queste scelte possano
maturare nel modo
più democratico e più consapevole possibile. Il che, in un modello
di partito chiuso, non permeabile
ai movimenti politici, sociali e culturali, sarebbe del tutto impossibile.
Naturalmente questo significa concepire il Partito costantemente proiettato
in una dimensione
internazionale, e non solo europea, anche se da qui bisogna in primo luogo partire,
come ha
dimostrato anche la positiva esperienza della Sinistra Europea. Le interazioni
politiche, istituzionali,
sociali, economiche, culturali conseguenti, nel bene e nel male, al processo
di globalizzazione nel
quale siamo inseriti, rende asfittico qualsiasi prospettiva di chiusura del
pensare e dell’agire politici
entro le dimensioni nazionali. Questo deve avvenire rispettando pienamente le
condizioni di
assoluta parità tra le espressioni politiche della sinistra dei vari
paesi, essendo improponibile
qualunque forma di sudditanza o di organizzazione rigidamente gerarchizzata
su scala
internazionale.
La produzione di senso di cui abbiamo bisogno non può solo avvenire per
via intellettuale. Deve
investire la nostra presenza pratica nella società. Il radicamento nel
territorio, che da più parti,
anche fuori di noi viene invocato, spesso con toni salvifici, quanto inconsistenti,
non può significare
semplicemente la costruzione di circoli di strada o di fabbrica, l’organizzazione
dei volantinaggi
davanti alle scuole o ai mercati, la presenza fisica dei nostri militanti nei
luoghi della vita
associativa. Vuole dire anche questo, naturalmente, ma non solo questo.
Si tratta di produrre delle esperienze innovative di aggregazione e di vita
solidale, si tratta
concretamente di “fare società”, ricostruendo spazi e luoghi
pubblici, rompendo l’isolamento, la
frantumazione del tessuto sociale, l’isolamento individuale. Ciò
che è mutato nelle relazioni sociali
tra le giovani generazioni ci segnala una necessità impellente: abbiamo
bisogno di mettere a
disposizione nuovi strumenti per una diversa socialità. In questo senso
va preservato e valorizzato
quanto fino ad oggi è stato fatto dalle giovani e dai giovani comunisti
sul terreno dell’innovazione e
della pratica politica. L’autonomia dell’organizzazione giovanile,
reale motore di ogni
sperimentazione, è quindi un’acquisizione fondamentale e irrinunciabile.
I nostri circoli, le nostre strutture di base non possono essere solamente il
luogo dove si discute di
politica o dove si organizza materialmente l’iniziativa esterna, ma devono
essere propulsori ed essi
stessi sede di una nuova socialità, di una nuova attività creativa
nel campo delle relazioni umane,
della solidarietà mutualistica, della ricerca e della produzione intellettuale
e artistica, di elementi di
nuova coscienza di sé e di liberazione. Devono cercare di diventare centri
di organizzazione e di
esplicitazione di un nuovo senso della vita e della società. Il movimento
dei movimenti, da Genova
in poi, ha sperimentato forme di autorganizzazione mirate a contrastare il flusso
mediatico con
pratiche di autoproduzione e condivisione di informazione e di trasmissione
(mediattivismo) che
hanno dimostrato la praticabilità di nuove forme di comunicazione del
fare politica e di produzione
di senso.
Tutto ciò è impossibile senza una radicale innovazione delle forme
della nostra organizzazione. Le
esperienze più avanzate di movimento che in questi anni abbiamo attraversato
non hanno
viceversa cambiato la nostra struttura. Lo strumento principe di una simile,
necessaria innovazione
è la democrazia. Soggetto politico e soggetto sociale vanno rimessi in
relazione. In questo senso,
ci possono essere molto utili teorie e tecniche che afferiscono appunto alla
democrazia
partecipativa e deliberativa. Tali approcci non sono utopie, né forme
di democrazia diretta, ma
concreti cambiamenti che possono essere apportati alle modalità dei processi
decisionali perché si
generi maggiore inclusione di punti di vista, trasformazione delle preferenze
individuali durante i
processi, mediazione dei conflitti, e infine nuove e più belle identità
di quelle di partenza. Inoltre,
l''utilizzo delle nuove tecnologie ha dato vita a tecniche e teorie di quella
che oggi viene definita “e-
democracy”, che pur non potendo surrogare il primato della partecipazione
fisica, possono
comunque allargare la sfera dalla partecipazione.
Un tale processo di ricerca e innovativo delle forme di organizzazione può
rappresentare un
significativo contributo del Prc all'apertura di un reale processo costituente
a sinistra.
III – LINEAMENTI DI PROSPETTIVA
3a - Le culture politiche della trasformazione
Non solo il nostro Partito, ma l’intero campo della sinistra, se vuole
rinascere deve liberarsi dal
vizio antico dell’assolutismo identitario che può anche “uccidere
con trasporto”. Questa scelta è
resa ancora più urgente e necessaria dal disastro elettorale. Se per
molti milioni di persone la
nozione di sinistra non ha più il significato stringente – politico,
culturale, emotivo – che ha avuto
per una lunga fase della storia, se addirittura essa oggi rischia di essere
una “parola che non
parla”, quasi una parola vuota, è esattamente lì, alla radice
del significato di sinistra, che bisogna
tornare. Riscoprirne il senso, l’attualità, l’utilità.
Rilanciarne l’operatività. Ricominciare a esperirne il
reale valore trasformativo. Se è vero che l’eredità non
è di chi la lascia, ma di chi la riceve, e che
deve “filtrare, passare al setaccio, criticare...riaffermare scegliendo”,
è vero altresì che il terreno
principale del confronto è quello che si svolge sulle culture politiche
dell’innovazione e della
trasformazione. A noi pare la dimensione più feconda per uscire dalla
tagliola tra omologazione e
minoritarismo, tra conservatorismo e “nuovismo”, tra arroccamento
e “tradimento”.
Se oggi dovessimo definire – in una sola parola – il senso della
sinistra, useremmo come sua
gemella e sinonimo quella di liberazione. Liberazione del (e dal) lavoro, dell’ambiente,
della
persona, oggi diversamente ma egualmente imprigionati nelle gabbie del capitalismo
globale e
dell’élite dei “megaricchi che intendono distruggere il pianeta”.
Liberazione come processo
generale, dentro le macrostrutture dei poteri economici transnazionali, come
rovesciamento
graduale dei rapporti di forza, ma anche come processo di autodeterminazione
di sé. Di fronte alla
crisi di civiltà che attanaglia l’Occidente, in una catena di regressioni
sempre più agghiacciante – la
paura, l’insicurezza come condizione esistenziale, la violenza, la guerra
– non è più possibile
stilare gerarchie di sofferenze o dotarsi di “centralità”
strategiche, separare i diritti sociali da quelli
civili, puntare sulla “contraddizione principale” contro quella
secondaria. Dal tempo in cui Marx ed
Engels, nella celebre conclusione del “Manifesto”, invitavano il
proletariato a infrangere le catene
dello sfruttamento e dell’alienazione, per guadagnare un mondo, il modo
di produzione del capitale
ha accresciuto a dismisura la sua voracità, ha invaso tutte le sfere
della vita, ha rotto l’autonomia
della conoscenza, mercificando la rivoluzione scientifica e tecnologica più
estesa dei tempi
moderni. Insomma, “ha distrutto tutto ciò che appariva solido”,
divorziando da ogni ideologia e
pratica di progresso, anche dal liberalismo che gli appariva congeniale –
e forse anche dalla
democrazia politica.
La sinistra del XXI secolo potrà rinascere come leva dell’opposizione
e della trasformazione solo
se sarà capace di far maturare, nei conflitti, nel lavoro e nel non lavoro,
nella vita reale, nelle
scuole, nei luoghi della formazione, questa idea di liberazione e di possibile
libertà. E’ l’idea di una
sinistra che nasce da una consapevole maturazione del concetto di relazione.
Quella tra il fare e il
suo perché, fra la specie umana e il resto del vivente, tra il vivente,
il pianeta e le sue risorse, tra i
diversi interessi delle classi, tra il punto di vista femminile e quello maschile.
3a.1La centralità del conflitto capitale-lavoro
Non c’è sinistra che non sia connessa, socialmente, emotivamente,
politicamente, al mondo del
lavoro. Non si dà sinistra “rappresentativa” che non sia
capace, non banalmente di “tornare nelle
fabbriche” o negli uffici, ma di porsi in sintonia con i salariati. Non
c’è sinistra, se non c’è un
soggetto consapevole di ciò che è accaduto, nell’ultimo
ventennio, in Italia e in Europa: una
gigantesca lotta di classe, che ha prodotto uno spostamento di dimensioni inedite
a favore di
rendite e profitti, e a sfavore dei redditi dei lavoratori dipendenti, e ha
in parallelo trasformato la
precarietà lavorativa in condizione strutturale e stabile, nel mercato
del lavoro, nella realtà
economico-sociale – e perfino nella psicologia di massa. Non c’è
sinistra, dunque, che possa
davvero misurarsi con la sfida della politica di governo se non è in
grado di produrre un
avanzamento concreto, materialmente percepibile, a favore di chi lavora e di
chi è costretto alla
precarietà.
Le grandi trasformazioni che il capitalismo ha determinato nell’attuale
fase della globalizzazione
hanno articolato e frantumato il processo produttivo e contemporaneamente concentrato
il potere
decisionale nelle mani di pochi; hanno saturato mercati e ne hanno creato di
nuovi; hanno negato i
bisogni più elementari della stragrande maggioranza delle persone su
scala mondiale e allo stesso
tempo ne hanno prodotto dei nuovi indotti dal tipo di sviluppo, aprendo così
una clamorosa
contraddizione tra questo e l’ambiente, tra la crescita economica e le
condizioni di vita delle donne,
degli uomini e dei loro diritti; hanno introdotto la precarietà come
condizione strutturale e di
sistema. Quindi il conflitto tra il capitale e il lavoro in tutte le sue forme,
resta ineliminabile e
ineludibile.
Questo vale per l’Unione Europea che, da occasione per migliorare le condizioni
di lavoro e di vita
dei paesi più deboli, si è invece rivelata uno strumento per scardinare
le norme legislative più
avanzate in materia di lavoro, per togliere diritti a chi ancora ne ha, per
uniformare al ribasso le
condizioni di lavoro e di vita. Ma vale ovviamente soprattutto per il nostro
paese, nel quale gli
stessi dirigenti del Partito Democratico considerano invece obsoleta l’idea
della lotta di classe.
Quando, nel corso della nostra esperienza di governo, ci si è misurati
sulle grandi questioni della
politica economica e sociale, i poteri forti hanno prevalso e le mediazioni
finali sono state perdenti
per i lavoratori, anche per la debolezza, e spesso l’assenza, dell’unico
elemento che avrebbe
potuto modificare la situazione, cioè il conflitto sociale.
Su questo si misura anche l’involuzione del ruolo delle grandi organizzazioni
sindacali, come si
può vedere anche nella recente ipotesi di intesa sulla riforma della
contrattazione, che rischia di
svuotare la funzione del contratto nazionale di lavoro verso una contrattazione
di secondo livello
che è preclusa alla grandissima maggioranza dei luoghi di lavoro.
L’insuccesso della nostra sfida di governo, che di fatto è stata
sancita dal protocollo del 23 luglio
2007 sul Welfare e dall’impedimento a modificarlo nella sede parlamentare
con l’imposizione del
voto di fiducia, sta prima di tutto nel rafforzamento del ruolo dell’organizzazione
padronale, la
Confindustria, vera vincitrice in questa fase politico-sociale. La Confindustria
in molti casi ha
saputo e potuto dettare l’agenda politica; ha ottenuto dal governo sostegni
concreti senza
contropartite – come avvenne con la riduzione del cuneo fiscale -; ha
potuto così preparare il
terreno per aggredire il contratto nazionale di lavoro, per mettere in discussione
il diritto di
sciopero, per ritornare alla carica contro l’articolo 18 dello Statuto
dei diritti dei lavoratori.
La nostra capacità di resistenza è stata troppo debole. Ha pesato
l’assenza di un radicamento nei
luoghi di lavoro e sul territorio. Malgrado l’impegno profuso, siamo risultati
inefficaci al governo e
nel parlamento e poco presenti nei luoghi dove il lavoro ha assunto le mille
antiche e moderne
forme dello sfruttamento.
Da lì dobbiamo dunque ripartire, raccogliendo quello che è stato
disperso, ricercando e inventando
spazi di incontro, dentro e fuori i luoghi di lavoro, rispondendo alle domande
di intervento sulla
condizione lavoratrice e contrastando così la penetrazione nei tessuti
operai e popolari della Lega
e delle stesse destre. La vittoria dell’impresa da una parte – e
quindi la perdita di potere dei
lavoratori – e la degenerazione della politica dall’altra hanno
creato un solco che non possiamo
colmare dall’oggi al domani. Serve un lavoro capillare, determinato e
paziente.
Oggi più che mai il tratto comune tra i proletari vecchi e nuovi è
la solitudine, l’assenza di
comunità, la mancanza di libertà. Se l’impresa, tra coloro
che impropriamente furono definiti come i
“garantiti”, divora fette crescenti della vita e del “tempo
libero”, se gli orari di lavoro si allungano a
dismisura in Europa, se flessibilità e precarietà diventano pratiche
utili a un risparmio colossale sul
prezzo della forza-lavoro, è l’insieme della condizione di lavoro
che è entrata in drammatico
svilimento. Il lavoro ha perduto dignità, senso forte e valore, sia in
senso etico che economico. La
precarietà lavorativa s’intreccia, in un nesso sempre più
indistricabile, con la precarietà
dell’esistenza stessa.
Identificare quale sia il contributo occupazionale del lavoro flessibile è
cosa utile per demistificare
la falsa alternativa tra precarietà e occupazione. Nello stesso tempo
è evidente che una quota del
lavoro flessibile è legata strutturalmente ai settori del terziario e
del cosiddetto quarto settore. Se è
vero che in molte aziende manifatturiere si è assistito ad una sostituzione
di lavoro stabile con
lavoro precario, per comprimere il costo del lavoro, è anche vero che
alcune funzioni del terziario
innovativo sono tendenzialmente e strutturalmente più instabili. I precari
non sono soggetti
definibili solo in negativo. Essi esprimono nuove strategie di vita e di relazione,
nuovi bisogni, nuovi
significati, nuove opzioni che meritano di essere considerate anche per la nuova
potenziale
“politicità” che esprimono. Si apre quindi un problema inedito
di come tutelare e rappresentare
questi lavoratori.
La nostra politica per il lavoro deve quindi riguardare allo stesso tempo il
mondo del lavoro, quello
del precariato, quello del non lavoro. In questo quadro si collocano sia la
nostra proposta di
superamento della legge 30 - per riunificare le figure del lavoro dipendente,
con l’eliminazione delle
false partite Iva, cioè del finto lavoro autonomo, riducendo il contratto
a termine a una casistica
precisa e favorendo l’assunzione a tempo indeterminato – quanto
quella di allargamento dei diritti
dello Statuto ai lavoratori delle piccole imprese.
Per rispondere alla dirompente questione salariale e alle pensioni indecenti
bisogna innanzitutto
difendere la funzione del contratto nazionale di lavoro, quale strumento per
una ridistribuzione
della ricchezza generale prodotta, e quindi per un aumento dei redditi da lavoro;
bisogna introdurre
un nuovo meccanismo di indicizzazione automatico annuale, che non abbia influenze
negative
sull’inflazione e invece impedisca l’erosione del valore reale delle
retribuzioni; ma è pure decisivo,
sull’esempio di altri paesi europei, introdurre un salario minimo ed un
reddito sociale per gli
inoccupati e garantire continuità di reddito per i precari.
Nello stesso tempo una forza di sinistra deve sapere intervenire sui problemi
del lavoro autonomo,
quando esso è effettivamente tale, e non lavoro dipendente mascherato
per ridurne il costo. Il
bisogno di libertà e di indipendenza nel campo del lavoro è un’esigenza
reale e diffusa, non solo
in campo professionale, che deve trovare nella sinistra risposte precise come
tutela delle capacità
singole e collettive, valorizzazione delle capacità creative, individuazione
di nuovi settori con
finalità produttive di tipo sociale, restituzione alla loro funzione
del mondo cooperativo.
La sinistra non può ignorare il rapporto con il sistema delle imprese,
regalandolo ad una
rappresentanza della destra o del PD. Il tema della ricerca e dell’innovazione
è un terreno
importante di incontro con la giovane imprenditorialità, come il tema
della responsabilità sociale
dell’impresa rappresenta un’importante congiunzione con le grandi
questione della sicurezza del
lavoro e dell’impatto ambientale delle imprese.
E’ a partire da queste grandi temi che deve avvenire il reinsediamento
e la strutturazione della
sinistra nei luoghi del lavoro.
3a. 2 La crisi della globalizzazione apre nuove sfide per la sinistra
Non c’è sinistra che non sappia, a partire dalla difesa del valore
del lavoro, progettare e lottare per
un’organizzazione economica e sociale compiutamente alternativa a quella
del capitalismo. Ciò
che la distingue dalle altre prospettive è la convinzione che il trionfo
del capitalismo non sia la fine
della storia. Certamente la costruzione del socialismo reale nel novecento ha
subito dure e
inequivocabili repliche dalla storia. La sinistra non può non partire
che da questo bagaglio
pesantemente autocritico, ma per “cercare ancora”, non acquietarsi
nell’ordine delle cose esistenti.
Abbiamo già osservato che la globalizzazione capitalistica incontra un
periodo di crisi di
funzionamento e di credibilità. Crisi finanziarie si susseguono con sempre
maggiore intensità e
gravità. Le dottrine neoliberiste mostrano la corda. Eppure, almeno in
Europa, sembra essere
unicamente la destra ad impossessarsi del disagio e della insicurezza diffusa
di fronte alle crisi. La
sinistra deve riprendere in mano la questione di un diverso indirizzo e governo
dell’economia. La
critica alla forma di merce come dio incontrastato del mercato deve assumere
la strada di una
ripresa della tematica della finalità della produzione, e quindi di una
programmazione economica
democratica, della pubblicizzazione delle risorse strategiche, della difesa
del carattere pubblico dei
beni comuni, della universalizzazione e della democratizzazione dello stato
sociale. La critica ai
disastri sociali prodotti dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia
deve
diventare capacità propositiva di nuove forme di governo e di funzionamento
degli stessi organi
politici ed economici internazionali, anche per evitare che le ricorrenti crisi
economiche e
finanziarie e le trasformazione in atto negli assetti di potere del sistema
capitalistico mondiale
possano sfociare in nuovi terribili conflitti bellici.
3a 3 La sinistra e la questione democratica
La sinistra non può limitarsi alla difesa della democrazia nelle forme
fin qui conosciute. Certo, e ciò
è particolarmente evidente nel caso italiano ove è in corso un
brusco processo involutivo, si tratta
anche e a volte soprattutto di ciò. In Italia questo riguarda il compito
della difesa dell’integrità della
Costituzione, che torna ad essere a rischio dato il nuovo quadro politico che
si è venuto formando.
Ma si tratta soprattutto di rivivificare il sistema democratico, grazie ad uno
sviluppo di forme di
democrazia diretta non in alternativa, ma in integrazione, a quelle delegate,
cioè alle istituzioni
classiche. E’ un compito tanto più urgente quanto è grave
la crisi della politica e il progressivo
distacco delle persone dalle tradizionali forme di partecipazione alla vita
democratica.
3a 4 La sinistra e la rivoluzione femminista
Ma non può esserci Sinistra che non assuma, come co-fondativa del proprio
essere e agire
politico, la rivoluzione femminista, ovvero la contraddizione di genere e la
lotta al patriarcato. Nelle
culture critiche novecentesche, il femminismo radicale ha scardinato l’ordine
teorico, l’idea del
mondo, che aveva dominato fino ad allora lo stesso movimento operaio, non solo
nella critica al
tradizionale paradigma “emancipazionistico” e produttivistico del
potere maschile, ma nella critica
più generale della politica, dei meccanismi del potere, dello stesso
principio di rappresentanza. La
liberazione delle donne dall’oppressione sessista, dalla divisione sociale
del lavoro, dalla
costrizione dei ruoli imposti dal modello familista, dallo sfruttamento dei
loro corpi e del loro surplus
di lavoro, sarà opera – come si usava dire due secoli fa a proposito
del proletariato – soltanto delle
donne stesse. E soltanto in un cammino di alternativa. Questo naturalmente richiede
anche un
impegno e una capacità del genere maschile, in particolare di quella
parte che lotta per
un’alternativa di vita e di società, di mettere in discussione
se stesso, le proprie modalità
relazionali, i propri simboli.
3a 5 La questione ambientale
Con la crisi climatica la “Questione Ambientale” entra prepotentemente
nella nostra vita quotidiana.
Interroga in profondità il destino della specie stessa. Impone i limiti
materiali del pianeta alle
suggestioni delle crescite infinite dei Prodotti Interni Lordi. Diventa il punto
più alto e moderno della
critica al neoliberismo. Per questo la “Questione Ambientale” è
fondativa della sinistra del nuovo
millennio, della sinistra che si relaziona in modo non violento con tutto il
vivente, umano e non
umano. Una sinistra che sulla elaborazione ecopacifista fonda la critica alle
guerre. Una sinistra
consapevole del fatto che la modernità non sta nel separare dalla natura
l’economia, la scienza e
la tecnica, ma nella loro rinaturalizzazione. Una sinistra conscia delle rotture
provocate dai modi di
produrre, dai prodotti e dai consumi attuali. E che pratica il conflitto incontrando
l’intuizione dei
movimenti che difendono i propri territori, i “cortili”, dal saccheggio
e dalla privatizzazione,
riscoprendo democrazia e partecipazione.
Una sinistra che dai “cortili” fa scaturire un nuovo pensiero globale.
Una sinistra che fonda sulla
economia dei “Beni Comuni” l’alternativa alla mercificazione
selvaggia (che privatizza e mette a
reddito perfino il dna), e così rilancia lotte locali e mondiali come
quella emblematica per il diritto
all’acqua. Una sinistra che pratica il risparmio energetico, lo sviluppo
delle energie rinnovabili, altri
consumi, cooperazione, costruendo in questo modo vertenze, conflitti, fare società.
Una sinistra
che propone una agricoltura fuori dal WTO e libera da ogm, socialmente giusta
ed ecologicamente
durevole. Una sinistra che non allude, ma che pratica l’altro mondo possibile,
anche dal punto di
vista fisico, biologico e geologico.
3a 6 La lotta alla guerra infinita
Non può esserci sinistra che non abbia nel proprio Dna il rifiuto della
Guerra – di tutte le guerre –
e un’opzione politica di nonviolenza. Non per caso, essa morì,
la prima volta, anche
simbolicamente, nel voto del parlamento Tedesco a favore dei crediti di guerra
e nel cedimento ai
nazionalismi che condussero l’Europa a consumare “la più
inaudita strage dei suoi giovani figli”.
Non per caso, essa rinacque nella prima “scalata al cielo” del ‘900
rivendicando il diritto alla pace.
Dopo le tragedie delle guerre mondiali del ventesimo secolo e nel fuoco dei
conflitti sanguinosi che
hanno inaugurato il ventunesimo, questa scelta si reimpone, anch’essa,
come fondativa. La scena
bellica del nostro tempo non è un semplice elenco di nuove guerre di
aggressione, a fronte di
nuove forme di terrorismo: è lo scenario della Guerra Infinita, che ci
circonda e ci sovrasta, che
sopradetermina i rapporti politici globali così come la percezione culturale,
che stravolge lo spazio
giuridico, restringe e divide i diritti ed è motore di continua crescita
dei fondamentalismi e dei
conflitti fratricidi. La lotta contro la guerra globale, permanente, infinita
non è nutrita soltanto di No.
Va declinata in modo positivo, come pratica di partecipazione attiva e consapevolezza
di massa,
come solidarietà internazionale, come organizzazione della cooperazione
per un’altra economia.
Essa è dunque modalità più alta del conflitto, è
istanza concreta di lotta all’ingiustizia e alla ferocia
delle forme di dominio.
3a 7 La questione della laicità
Non può esserci Sinistra che non assuma la laicità nel corpo vivo
del proprio bagaglio ideale.
Laicità non è soltanto rifiuto dell’oscurantismo religioso
e delle pretese neotemporaliste delle alte
gerarchie ecclesiastiche. Laicità è rifiuto della dimensione dello
Stato etico in qualunque forma
essa voglia riproporsi. Laicità è cultura del dialogo, del confronto,
dell’ascolto. Laicità è garanzia e
tutela giuridica di libertà, cultura piena dei diritti, lotta per il
loro allargamento e riconoscimento
anche contro il conformismo dilagante. Laicità è oggi reazione
all’omofobia dilagante, e scoperta
arricchente di una dimensione antica e modernissima, come l’orientamento
sessuale, come
l’identità di genere non ridotta alla genitalità. Laicità
è anche rispetto dell’autodeterminazione dei
corpi, di una sessualità non subordinata alla procreazione. Laicità
è assumere un atteggiamento
contrario al familismo tradizionale, riconoscere le coppie di fatto e quelle
formate da appartenenti
allo stesso genere. Laicità è quindi primato vero della politica,
e della sua capacità di allargare,
senza limiti pregiudiziali, la sfera della libertà.
3a 8 La questione delle migrazioni
La sinistra è chiamata a misurarsi quotidianamente con il problema dei
flussi migratori. Lo deve
fare su molti versanti, quello dei diritti delle persone a muoversi liberamente
nel mondo, quello di
garantire loro condizioni di lavoro, di abitazione e di vita decorosi e sottrarle
a qualunque forma di
sfruttamento o peggio di schiavitù, quello di escludere ogni forma di
carcerazione e di impostare
una effettiva politica di prima accoglienza, quello di assicurare i diritti
di cittadinanza, compresa la
partecipazione piena alla vita democratica del paese in cui si trovano, quello
di adoperarsi per
accordi internazionali che combattano le mafie che riducono alla schiavitù
i migranti. Non si tratta
solo di battersi e predisporre leggi coerenti con questi principi - e quindi
nel nostro caso, ma anche
per l’Europa nel suo complesso di abrogare e modificare molte di quelle
esistenti - ma di condurre
una grande battaglia culturale innanzitutto all’interno dei settori popolari.
La paura del diverso,
dello straniero, del migrante è sempre più diffusa, sia per diretta
responsabilità della propaganda
delle destre e dei grandi organi capaci di influenzare l’opinione pubblica,
sia come reazione
istintiva alle contraddizioni del processo di globalizzazione e alla frantumazione
di ogni rete
solidale. La nostra deve essere una cultura dell’inclusione, non dell’esclusione,
sapendo anche
che il ruolo dei migranti nella nostra economia è ormai fondamentale
in tutta una serie di settori, e
che non ha quindi più senso parlare di classi lavoratrici senza tenere
conto della rilevante e
crescente presenza al loro interno di persone provenienti da altri paesi, alle
quali va garantita un
adeguata tutela sotto il profilo lavorativo e previdenziale. Va quindi combattuta
l’associazione della
presenza dei migranti ai problemi della criminalità e della microcriminalità,
su cui hanno speculato,
purtroppo con notevole successo, le destre. Perché questa distinzione
sia chiara c’è bisogno
anche di una rinnovata capacità della sinistra di proporre soluzioni
non culturalmente,
umanamente e giuridicamente devastanti ai problemi della lotta alla microcriminalità,
ma
comunque efficaci.
3a 9 Il paradosso della conoscenza
Nell’epoca storica in cui il capitalismo riduce a merce sapere, cultura
e scienza e si appropria
dell’”intelletto generale”, secondo quanto aveva previsto
Marx nei suoi ultimi anni, si produce il
paradosso attuale della conoscenza: una dimensione che si è resa disponibile
per tutta l’umanità,
una dimensione, nei fatti, sempre più negata. Come l’informazione:
mai così “globale” e
apparentemente diffusa, mai così dominata da logiche oligarchiche e anzi
strumento di lotta e
manipolazione politica. Il diritto di tutte e tutti alla conoscenza, alla cultura,
all’informazione – non
come semplice fruizione, ma come possibilità creative e produttiva –
assume dunque uno
straordinario, radicale valore democratico: la sua diffusione, come accade per
tutte le “merci
immateriali”, non solo non la consuma e non la usura, ma la potenzia e
ne fa un grandissimo
strumento di liberazione e crescita umana. Ma la sua sottomissione alla logica
del mercato – dalla
privatizzazione della scuola alla proprietà intellettuale – entra
in contraddizione proprio con questa
sua vocazione democratica, e si rovescia nel suo contrario, una crescita ulteriore
delle
diseguaglianze. Non più soltanto tra chi ha e chi non ha, ma tra chi
conosce e chi è escluso dalla
conoscenza – degli alfabeti così come del sapere massimo.
In questo senso, il diritto alla conoscenza va ben oltre la tradizionale “questione
degli intellettuali”.
E’ parte essenziale della sinistra del XXI secolo.
3b – Esiste una questione settentrionale?
Questa locuzione, nata negli anni ’50 come reazione all’imperio
della cultura storicista ed idealista,
è tornata in auge quarant’anni dopo con un significato sostanzialmente
opposto, certo connesso
all’esplodere del fenomeno leghista. Allora si trattava di mettere in
campo culture industrialiste e
sociologiche, nonché una visione della politica non interamente appiattita
sulla sfera istituzionale.
Negli anni Novanta, invece, nelle parole dei nuovi esegeti del neoliberismo,
si intendeva liberare
dall’oppressione centralista il capitalismo molecolare, far costruire
grandi opere, nuovi capannoni,
nuove strade, e al contempo sfasciare l’architettura istituzionale creando,
con la riforma del titolo
V della Costituzione, un Welfare solo per i nativi (ad esempio la case popolari
del Veneto ai soli
Veneti) e una polizia locale al servizio di nuovi e vecchi sindaci-sceriffi.
Intesa in questo senso la
“questione settentrionale” non esiste. O meglio, coincide per larga
parte con le ricette e le culture
delle destre. Dal nostro punto di vista, allora, è bene sgomberare il
terreno da ogni mitizzazione
comunitaria e identitaria, come quella della “Padania”. Un conto
sono le comunità di lotta che
reagiscono al capitalismo che “violenta” le aggregazioni locali
nel contesto della globalizzazione
neo liberista (come è per esempio per il movimento NoTav o No dal Molin
e No Mose), altro è
l’egoismo fiscale di chi, usando strumentalmente anche gli argomenti dell’identità
etnica, storica o
antropologica, pensa solo a monetizzare l’appartenenza ad una o ad un’altra
Regione (da Sondrio
e Varese fino a Cortina), o di chi agita la bandiera del federalismo fiscale
occultando soggetti e
risorse che contribuiscono alla produzione di ricchezza.
Per noi, invece, esiste certamente una questione del Nord, che si declina in
almeno quattro
dimensioni. In primo luogo nella questione operaia – intesa nelle sue
forme più tradizionali così
come in quelle delle nuove forme di lavoro autonomo e parasubordinato –
e quella
dell’impoverimento dei ceti intermedi, nonchè della rottura del
rapporto tra insediamento operaio e
sinistra politica. Un problema enorme, e certo non solubile nei tempi brevi.
In secondo luogo, la
contraddizione ambientale che, nelle regioni del Nord, è particolarmente
avanzata, rispetto al resto
d’Italia, per evidenti ragioni di crescita (la concentrazione di polveri
sottili nella pianura padana è
tra le più alte in tutta Europa). In terzo luogo, il rapporto tra queste
zone, le più esposte verso
l’Europa, e i processi di globalizzazione. In quarto luogo, il declino
culturale – anche di luoghi che
hanno a lungo esercitato nel passato un’egemonia significativa, come Milano.
In ogni caso la sinistra è chiamata ad un nuovo e non lieve lavoro d’analisi
– su cui siamo in
grandissimo ritardo - sulle modificazione intervenute nel tessuto economico,
civile del Nord.
Ripartiamo allora dall’inchiesta operaia. Lanciamo una grande inchiesta/azione
sul sistema
economico e sociale delle regioni settentrionali, sull’incidenza del lavoro
migrante, sulle università,
sui centri di alta formazione e sui parchi scientifici e tecnologici, sui distretti
delle produzioni ad alto
valore aggiunto e su quelli, invece, in concorrenza con la Cina. Un’inchiesta
che parli anche dei
diversi modelli di welfare locale, sui cento campanili e le cento città
che compongono il mosaico
del Nord.
3c. I nuovi termini della questione meridionale
La questione meridionale, invece, continua a rappresentare un nodo strategico
della riforma
sociale, intellettuale e morale del paese. Ma c’è una novità
rilevante. Il depotenziamento dello
Stato nazionale, la destrutturazione degli spazi sociali e politici dell’epoca
fordista, un rapporto più
diretto col mondo e con gli apparati della globalizzazione (BM, FMI, WTO, nuovi
istituti
sopranazionali delle contrattazioni, delle transazioni, degli arbitrati) ne
hanno mutato tutti i termini.
Il dualismo Nord/Sud si può fare frattura, la debolezza si può
fare esclusione, la fragilità territoriale
si può fare zona franca sotto il dominio di forze criminali, la lotta
sociale si può fare populismo o
conflitto identitario intollerante delle diversità e delle fragilità,
oppure anche venire assorbita nelle
mediazioni clientelari.
Il capitalismo è giunto a darsi come contenitore il mondo. In questo
scenario si apre per il
Mezzogiorno la prospettiva, necessaria e possibile, di un modello di avanzamento
sociale e
democratico con una forte impronta di autonomia delle risorse, delle culture,
dei territori. Il Sud non
può continuare ad essere un territorio senza qualità, pattumiera
di uno sviluppo devastante e
competitivo solo per la presenza di manodopera ad un costo più basso.
Dal Mezzogiorno deve
ripartire il metodo della programmazione democratica, in senso partecipativo,
dei flussi di spesa
pubblica europei, nazionali, regionali, delle politiche dell’ambiente,
della ricerca, della formazione,
della salute, dell’alimentazione, dell’energia, dell’industria
(cosa, come, perché, per chi produrre).
Deve avanzare la proposta di un salario sociale, non solo come sostegno materiale,
ma anche e
soprattutto come rimedio all’angoscia dell’imprevedibile. Infatti
i ragazzi e le ragazze, stretti tra
desideri e mercato, tra progetti e precarietà, abitano, anche emotivamente,
il tempo “da presente a
presente” e lo spazio “da presenza a presenza”. Insomma si
deve porre mano ad un modello che
marchi una discontinuità con i paradigmi della “modernità”
e che, al contrario, si ispiri e sperimenti
nuovi “metavalori”: la non violenza in una terra di violenza, il
principio di responsabilità e di
precauzione, la inclusione, l’uguaglianza come punto di riferimento della
libertà, la tecnica come
bene comune e non come arma per ridurre la vita e il corpo, soprattutto della
donna, a laboratori
del capitalismo.
3c 2 La lotta alle mafie
In questo nuovo scenario, locale e globale, la lotta alle mafie e l’antimafia
sociale devono
rappresentare una chiave interpretativa della realtà, una lettura critica
dei processi di
modernizzazione capitalistica che negli ultimi decenni hanno trasformato il
paesaggio sociale del
Mezzogiorno. Le mafie non rappresentano, come sostengono le destre e persino
il Partito
Democratico, l’ostacolo ad un generico quanto neutro sviluppo, ma uno
dei fattori strutturali più
dinamici della modernità distorta e dei processi di finanziarizzazione
che hanno investito non solo il
mezzogiorno ma l’intero paese, trasformando il rapporto tra politica e
bisogni, economia e imprese,
società e potere, negando libertà e diritti individuali e collettivi.
Di fronte a questi processi non si può riferirsi ad una astratta legalità
ma bisogna ricostruire forme
di partecipazione, poteri diffusi, controllo sociale e trasparenza delle sedi
decisionali. La lotta alle
mafie deve superare l’esclusività della sua dimensione giudiziaria
e repressiva per diventare
collante tra la questione sociale e del lavoro e la trama democratica. Liberare
i bisogni dalla
sudditanza ad una politica distorta in tutto il Sud, significa sottoporre a
critica radicale l’azione di
governo sul territorio, le pratiche di scambio politico e clientelare, le logiche
consociative che
ormai, in larga parte, cooptano lo stesso Partito Democratico nelle dinamiche
del sistema di
potere, in una competizione con le destre che si svolge sullo stesso terreno.
Per questo al Sud la
lotta alle mafie non può avere successo senza una radicale riforma della
politica e una riforma
morale nella società.
3c 3 La regressione civile e economica nel Sud
L’ultimo Rapporto Svimez documenta le strozzature e, in riferimento alla
precarietà, al disagio, alla
fuga dei giovani e alla cacciata delle donne dal mercato del lavoro, veri e
propri fenomeni di
regressione civile. Ha rivelato che circa il 30% delle famiglie vive sotto la
soglia di povertà; che la
spesa pubblica nel 2011 raggiungerà la quota del 2004, già la
più bassa; che la Polonia, l’Ungheria
e la Slovacchia hanno raggiunto lo stesso livello di PIL pro capite del Mezzogiorno.
Proprio lo
scacco subìto dalle politiche emulative suggerisce di intraprendere una
via originale. Quelle
politiche stavano e stanno in un rapporto di reciprocità con la crisi
delle classi dirigenti e della
politica. Le istituzioni e la politica spesso non rappresentano più i
luoghi della regolazione e della
programmazione. Sono venuti assumendo il carattere di contenitori, in cui il
personale politico e
burocratico svolge funzioni di committente e commissionario di comportamenti
o di provvedimenti,
non volti ad accrescere la produttività sociale, ma prevalentemente impegnati
a potenziare lo
scambio politico-elettorale. E così il potere, la politica si fanno fattori
di una specie di
accumulazione primitiva e distorta. Questo groviglio rende più dirompente
e insieme più difficile la
riforma della politica. Questa si deve misurare con blocchi di interessi, con
un senso comune
assuefatto, con l’assorbimento molecolare dei nuclei di resistenza: insomma
con una rivoluzione
passiva vincente. Sono proprio le debolezze, le mancanze del Mezzogiorno e del
bacino del
Mediterraneo, insieme alle loro straordinarie risorse di collocazione e di storia,
di cultura e di
umanità a incoraggiare una via fortemente originale, un’alternativa
di civiltà.
3d - La questione sarda
Un progetto di radicamento sociale e territoriale del nostro Partito e della
sinistra che vogliamo
costruire implica il riconoscimento e la valorizzazione delle peculiarità
socio-economiche, culturali
e storiche che costituiscono, con pari dignità, il tessuto unitario dello
Stato italiano così come
definito nei suoi valori di democrazia partecipativa attraverso la Costituzione
repubblicana. Nel
sistema costituzionale italiano, frutto dei valori della Resistenza, ha trovato
spazio sufficiente la
esplicazione del pensiero di Antonio Gramsci a proposito della “autonomia”
come “autogoverno” di
singoli, di comunità e di popoli; della democrazia effettiva come connessione
fra autonomia e
capacità di egemonia, democraticamente acquisita e vissuta.
In questo contesto si colloca sicuramente l’attualità della specifica
“questione sarda”, da intendere
positivamente come contributo autonomo di una comunità di popolo, munita
di un autentico
sentimento nazionale, rispetto al progetto di riscatto dell’intera società
italiana e europea.
Conseguentemente alla organizzazione del nostro Partito in Sardegna è
riconosciuta sul terreno
politico e statutario-normativo una specifica condizione di rispetto autonomistico,
che riguarda le
modalità di salvaguardia della rappresentanza politica, della specifica
proposta di un nuovo
modello di sviluppo, inteso come una vera e propria rinascita della regione,
dei mezzi e delle
risorse.
IV - PER UN PROCESSO COSTITUENTE DELLA SINISTRA, LE RAGIONI E LA
PRATICABILITÀ DI UNA PROPOSTA DI FUTURO
L'esistenza del Partito della Rifondazione Comunista non è un bene disponibile,
se non alla
collettività di donne e uomini che lo incarna: non è stato e non
è tema di discussione il suo
scioglimento, tanto meno può esserlo in una situazione nella quale tutto
è da riconquistare e
ricostruire, la sua credibilità e la sua presenza nella società
come quelle d'una soggettività di
sinistra in generale. Non ci servono, oggi, né scorciatoie né
formule magiche. Non ci sono “strade
maestre” già tracciate se non quella di bandire ogni presunzione
di autosufficienza e, anzi, di fare
della non autosufficienza la bussola del nostro agire, nelle relazioni con altre
e altri da noi e tanto
più nelle relazioni tra di noi. Senza condivisione non c'è costruzione
di comunità, men che meno lo
slancio unitario che occorre a fare materia viva della necessità d'una
sinistra alternativa grande e
nuova.
Non ci sono marchingegni che tengano: una forma di federazione è già
stata sperimentata,
proprio nella coalizione che ha prodotto le liste della “Sinistra, l’arcobaleno”
e il fallimento si è
rivelato inequivocabile. E anche se praticato diversamente, un modello federativo
non supera il suo
limite di fondo, perché non scioglie la questione della decisione politica
e della sua
rideterminazione in una pratica che non la mantenga più, per quanto nascostamente,
sotto
l'assoluta sovranità dei gruppi dirigenti di singoli soggetti partitici.
La soluzione federativa non
farebbe che moltiplicare, al ribasso, la logica mediatoria e la farraginosità
del processo decisionale,
determinando quindi un pesante deficit insieme di efficacia e di democrazia.
Anche l’ipotesi di
“partiti unici”, cioè la semplice unificazione integrale
di ciò che già esiste in un unico partito, non
regge perché non fa i conti con la critica, che nel nostro caso è
stata appunto insufficiente, della
forma partito novecentesca. Un nuovo soggetto politico, che sia unitario sul
piano politico e plurale
su quello delle culture e delle esperienze che lo compongono, una nuova sinistra
cioè, non può
nascere all’interno di forme vecchie.
Quel che ci serve è quindi una proposta politica chiara, capace di mettere
al lavoro il Partito, la
sua militanza, la sua area di riferimento: e capace soprattutto di parlare a
quel vasto popolo che
non si rassegna ad un Paese senza sinistra. Quel che serve a sua volta a una
tale proposta,
affinché possa essere agita concretamente, è la consapevolezza
che essa deve segnare una netta
discontinuità. Discontinuità che si misuri con le contraddizioni
sin qui accumulate tra i nostri
enunciati e le nostre pratiche, sciogliendole senza più rinvii possibili.
Discontinuità nei confronti di
forme, contenuti e linguaggi dell'agire politico, consunti e muti per la materialità
della vita delle
i soggetti costitutivi.
4a – L’avvio di un processo costituente
Ciò che dunque è necessario, anzi decisivo per un avvenire del
nostro patrimonio politico e per
quello di un campo alternativo della sinistra in Italia, è l'avvio di
un vero e proprio processo
costituente. Che non ha e non può avere oggi esiti precostituiti, ma
che si realizzi intorno ad un
obiettivo limpido: costruire una nuova soggettività della sinistra, nella
politica, nella società e nella
cultura di questo Paese. Un processo costituente a dimensione unitaria completamente
rimotivata
nel “qui ed ora” dei compiti di opposizione generale che sono oggettivi
e incombenti: perciò aperto
in tutto e per tutto e fatto per rivolgersi, attraverso e oltre tutti i soggetti
politici già ora disponibili, ai
corpi sociali e singolari che resistono alle politiche dominanti, ogni giorno
e ad ogni livello. Un
processo costituente che muova dal molteplice che è oggi il campo del
conflitto e dell'alternativa,
grazie al quale questa pluralità di esperienze e di soggettività
diventino protagonisti della
trasformazione.
Un processo costituente così concepito, come si vede, racchiude un’opzione
di netta discontinuità
con l’esperienza della “Sinistra l’arcobaleno” e dischiude
il confronto al riconoscimento di una
semplice quanto evidente verità: non nasce nulla di nuovo e di grande,
a sinistra, se non rinasce
nei territori, dal basso, da pratiche di autogestione e di autodeterminazione.
Se non si rompe con il
verticismo che ha caratterizzato quell’esperienza.
Da parte nostra, va messo a disposizione il nostro patrimonio di idee, con tutto
ciò che rappresenta
ancora la nostra capacità di iniziativa politica, deponendo ogni volontà
di primato o primazia.
Dobbiamo contemporaneamente correre e cercare la strada. Dobbiamo produrre senso,
liberando
nuove analisi e nuove idee che ripropongano l’attualità di una
sinistra del XXI secolo. Dobbiamo
sapere produrre e sperimentare un’innovazione organizzativa, essendosi
rivelate esauste le
vecchie forme. Dobbiamo saper rilanciare e fare patrimonio dell’esperienza
della Sinistra Europea
che nella sua fase nascente, dentro limiti e contraddizioni che pure debbono
essere attentamente
ragionati e riflettuti, ha praticato come possibile la pari dignità tra
soggetti diversi. Dobbiamo
stabilire veramente un nesso fondativo tra la nostra iniziativa politica e la
dimensione europea del
conflitto, della questione sociale e della questione democratica. Dobbiamo saper
valorizzare e
moltiplicare la risorsa delle molte “Case della Sinistra” le quali,
sorte nei territori nel corso della
campagna elettorale, costituiscono un’intuizione che trascende la contingenza
e il breve respiro di
un comitato elettorale. Dobbiamo essere più coraggiosi nell’innovazione
che pure era stata
rimessa a tema nella Conferenza di Carrara, traducendola in concretezza e praticando
il “fare
società” come asse prioritario della nostra proiezione nei territori,
intesi come localizzazioni
geografiche, così come della produzione e della socialità posti
in una mutata relazione, non più
gerarchica e subordinata con il “centro”. Dobbiamo saper avviare
libere cessioni di sovranità per
determinare orientamenti e decisioni e a partire da qui sperimentare l’unità
e la condivisione dei
compiti, aprendovi gli stessi processi di formazione di nuovi gruppi dirigenti.
Dobbiamo fare
finalmente i conti con il simbolico politico maschile che presiede alla “macchina”
ereditata dal
Novecento e, ancor più, dobbiamo saper pronunciare la sua crisi e, per
questa via, riconoscere
fattivamente il carattere sessuato dei soggetti e dei conflitti.
4b – La sinistra diffusa
Esiste e vive nel Paese un arcipelago di sinistra diffusa. Esiste e vive al
di qua e al di là del terreno
della rappresentanza: nei movimenti, nelle reti solidali, nelle associazioni,
nei percorsi di
autogestione, nelle pratiche di tutela e riappropriazione dei beni comuni e
di affermazione dei diritti
sociali, nelle comunità di lotta, in quelle di libera scelta sessuale
e di vita, nei gruppi di donne, nel
lavoro sindacale, nelle strutture e nei tessuti culturali, nei servizi di pubblica
utilità e nelle
esperienze di nuovo mutualismo, nei gruppi di intervento, in quelle aree del
mondo cattolico che
resistono alla normalizzazione ratzingeriana, nei centri di libero pensiero
e di difesa della laicità.
Qui, in questa molteplicità, vi sono i possibili protagonisti di un processo
che, nei termini necessari,
non è mai realmente cominciato. Ora esso si presenta con i caratteri
della straordinarietà e
dell’urgenza. Non ci sono più deleghe possibili, né tanto
meno deleghe in bianco. Non c’è più una
rappresentanza solida, né tanto meno consolidata. Un simile processo
può vivere solo se si
spalanca, nel suo stesso proporsi, a sperimentare il superamento di ogni forma
tradizionale sul
terreno dell'organizzazione, tanto più quindi di ogni impulso ad “esportare”
la tradizionale forma-
partito o a ridurvi la complessità delle relazioni e dei protagonisti
necessari. Un simile processo
può vivere solo se, soprattutto, si apre da subito a quel che già
esiste ed è disponibile, fluito dai
percorsi dei movimenti di questi anni e vissuto da molte e molti in termini
di allargamento e
approfondimento della democrazia, di contro al suo restringimento e alla sua
“semplificazione”
nelle pratiche di potere: esistono e sono disponibili elaborazioni e laboratori
di democrazia
partecipativa e deliberativa. Ad essi deve attingere oggi una sinistra, per
vivere davvero. E così
possono moltiplicarsi ora le “Case della sinistra”, dai territori,
aggregandosi intorno ai temi fondanti
della lotta per la pace, della liberazione del e dal lavoro, della critica ambientalista
dello sviluppo e
della difesa della Terra; e applicando quelle innovazioni di processo democratico
per tutto quanto
riguarda la decisione comune, tra eguali.
Solo a queste condizioni e con la partecipazione, l’assunzione diretta
di responsabilità, l’impegno
non episodico si potrà garantire la forza di un tale processo e condurlo
ad un esito positivo. E solo
così si potrà, com’è necessario per il bene della
democrazia stessa in Italia, riaprire anche la
questione di un’autonoma rappresentanza di sinistra, aggiornandola e rimotivandola
nella sua
utilità.
Noi proponiamo che questo congresso sia davvero il congresso del rilancio e
della rinascita: per il
nostro Partito e per la sinistra del futuro. Non è detto, alla fin fine,
che questo sia l’anno zero. Noi,
certo, non santifichiamo e non cristallizziamo nulla, non inseguiamo nuove dogmatiche,
siamo
disponibili a passare al più sottile dei setacci tutte le nostre persuasioni,
vagliando fino in fondo “ciò
che è vivo e ciò che è morto” nella nostra avventura
culturale e politica. Ma non possiamo
rinunciare alla scelta fondamentale: l’innovazione. La revisione incessante,
nonché la verifica
fattuale, delle nostre proposte e proposizioni. Non possiamo lenire le nostre
pene preconizzando
ritorni al passato, come quello prospettato da una “Costituente comunista”
che si presenta con i
caratteri non solo della nostalgia, ma del minoritarismo settario e nominalistico.
Possiamo invece
investire il nostro patrimonio nell’impresa alla quale oggi le nuove comuniste
e i nuovi comunisti
sono chiamati: la rifondazione di una sinistra grande e moderna, di popolo e
di alternativa. Un
lavoro di lunga lena, che chiederà tempo e pazienza, che non ha approdi
certi, ma che costituisce
un’avventura affascinante che vale la pena di vivere.
Per noi è la strada maestra sulla quale, dentro e oltre questo nostro
congresso, possiamo
ricominciare il cammino.
Sottoscrittori:
Vendola Nichi Albonetti Martino, Assennato Marco, Barcali Giulia, Bellucci Sergio,
Bertinotti Fausto,
Boccadutri Sergio, Bonadonna Salvatore, Bonato Francesco, Broccolo Angelo, Cammardella
Antonella,
Caprili Milziade, Cataldo Gaetano, Catania Giusto, Cogodi Luigi, Corneli Rita,
Costantino Celeste, Crivelli
Lello, D'Aimmo Isadora, D'Alessandro Antonio, Danini Ferruccio, Danti Dario,
De Cristofaro Giuseppe, De
Palma Michele, De Simone Titti, Deiana Elettra, Del Bello Roberto, Duranti Donatella,
Fasulo Sonia, Favaro
Gianni, Ferrara Francesco, Forgione Francesco, Foti Francesca, Fratoianni Nicola,
Gagliardi Rina, Gianni
Alfonso, Giavazzi Beatrice, Giordano Franco, Gagliardi Damiano, Guagnetti Pier
Angelo, Lauri Giulio,
Locatelli Ezio, Lombardi Mirko, Manfroni Maria Rita, Martino Pasquale, Martorana
Silvia, Mascia Graziella,
Migliore Gennaro, Miralto Federica, Morandi Bruno, Musacchio Roberto, Nardi
Martina, Nardone Ivan,
Natalini Mauro, Ortu Velio, Palumbo Rosa, Pastorino Bruno, Pecorini Niccolò,
Perugia Maria Cristina,
Piccolotti Elisabetta, Pietrangeli Paolo, Piras Michele, Pirotta Nicoletta,
Provera Marilde, Rappa Rosario,
Ricci Mario, Ricotti Simona, Rinaldi Rosa, Rocchi Augusto, Ruocco Francesca,
Santilli Linda, Santroni
Daniela, Scalise Santino, Schettini Giacomo, Sentinelli Patrizia, Serafini Gianluca,
Smeriglio Massimiliano,
Sodano Tommaso, Sorrentino Ilaria, Spiniello Cinzia, Tajani Cristina, Tibaldi
Alessandra, Valentini
Alessandro, Valleise Piero, Zampini Cinzia, Zema Antonio, Zipponi Maurizio,
Zuccherini Stefano