Una proposta di dibattito
a partire dalla base.
"Convinti
come siamo che "rifondare dalla base" non sia un puro esercizio critico-analitico,
ma una scelta politica a tutti gli effetti, avanzeremo qualche proposta minima,
che però comporta impegno, appunto, politico." Di Lucia Bisetti
e Andrea Vigni del Circolo di Bussoleno (TO). Aprile 2001.
Le considerazioni
e le osservazioni che seguono mirano a tentare un confronto con i compagni di
base sui temi della democrazia nel partito, che riteniamo ineludibile in un
processo di rifondazione dalla base. Allo stesso tempo, convinti come siamo
che "rifondare dalla base" non sia un puro esercizio critico-analitico,
ma una scelta politica a tutti gli effetti, avanzeremo qualche proposta minima,
che però comporta impegno, appunto, politico.
Le nostre considerazioni partono dalla constatazione di alcune modalità
effettive secondo cui il partito opera.
1) La struttura del partito è di tipo piramidale (piramide dritta, non
rovescia), basata sulla delega a dirigenti distribuiti gerarchicamente ai vari
livelli della piramide, legittimati nei congressi, ai quali sono demandate senza
vincolo di mandato scelte e decisioni politiche. Tale assetto è in tutto
simile a quello dei partiti che interpretano gli interessi della borghesia e
addirittura a quello di una società per azioni.
2) La struttura di cui sopra non è di fatto discutibile nei luoghi "istituzionali"
del partito (direttivi, comitati, ecc.) dove l'apparato burocratico si incarica
diligentemente di impedirne la messa all'ordine del giorno e dove comunque,
qualora il muro burocratico subisca qualche breccia, il fuoco di sbarramento
ideologico è violento e protervo: accuse di volontà scissioniste
e di smembramento del partito, sospetto di costituzione di nuove correnti, attentato
all'unità, per giungere fino all'invito, più o meno esplicito,
ad andarsene dal partito.
3) Il risultato è la diaspora continua della militanza di base, nell'indifferenza
(talora col respiro di sollievo) della dirigenza per tali ricorrenti autoesclusioni
dalla battaglia politica.
Vorremmo esemplificare questa situazione raccontando un episodio che ci pare
pur nella sua minuscola dimensione - emblematico, accaduto in occasione
della consultazione promossa nei circoli dalla segreteria della federazione
provinciale di Torino sul tema della "non belligeranza", consultazione
(si fa per dire) avviata dopo che il comitato politico federale aveva già
fatto propria la posizione del vertice nazionale. In un'assemblea intercircoli
(Val di Susa e Val Sangone), il compagno relatore inviato dalla segreteria provinciale
esordiva dicendo pressapoco: "Compagni, è chiaro che avendo il CPF
già approvato la posizione nazionale, questa consultazione tende solo
a illustrare quello che è stato ratificato, e non a metterlo in discussione".
Tale asserzione scatenava un po' di putiferio, anche fra i più allineati,
e diventava impossibile non affrontare un problema di metodo. Ma la discussione
che seguiva rendeva evidente come i compagni presenti non si fossero mai soffermati
ad analizzare i modi di formazione delle decisioni, il ruolo dei circoli in
tali processi, il rapporto fra le assemblee di base e gli organismi eletti a
livello di federazioni (provinciali e regionali), al punto che i più
erano all'oscuro del fatto che i membri del CPF non vengono più eletti
sulla base del numero degli iscritti dei circoli, ma nominati dalla dirigenza
delle mozioni. Tuttavia lo sconcerto era grande di fronte a un fatto evidente:
i partecipanti erano lì per farsi una ragione di decisioni già
prese e non certo per discutere, valutare e dare indicazioni ai loro rappresentanti.
Per dare un minimo di base concreta allo sconcerto, fornivamo alcuni semplici
dati numerici secondo i quali risulta che in Torino esistono circoli di pochi
iscritti che forniscono al CPN 4 o 5 membri, mentre circoli ben più numerosi
sono rappresentati dal solo segretario. Questa piccola "rivelazione"
veniva dai più rigettata come falsa, nonostante venisse confermata, se
pur con un certo imbarazzo, dal dirigente presente il quale, a buon conto e
secondo copione, non mancava di suggerire di andarsene a chi accusava il gruppo
dirigente provinciale di lavorare alla liquidazione del partito come organismo
di massa. Abbiamo avuto notizia che, nel successivo CPF il compagno dirigente
spendeva comunque parte del suo intervento per rappresentare il disagio riscontrato
nell'assemblea di base, e che l'argomento (sempre secondo copione) cadeva nell'indifferenza
generale dell'assemblea.
A nostro avviso l'episodio esemplifica la contraddizione fra il latente malcontento
per il burocratismo dirigista vigente nel partito e l'incapacità diffusa
di ipotizzare in concreto prassi e metodi di partecipazione dal basso. La perniciosa
abitudine alla delega continua quindi ad apparire come l'unica modalità
possibile ed impedisce qualsiasi riflessione su un partito che, per dirsi comunista,
dovrebbe anche adottare pratiche, organizzazioni, modalità differenti
da quelle che imperano nella società borghese, e prefigurare nella sua
struttura, e nelle relazioni che vi intercorrono, la collettività in
cui in futuro ci piacerebbe vivere.
Probabilmente la difficoltà e il ritardo nel rimettere in campo questi
temi sta anche nel fatto che si è persa da tempo la capacità di
riflessione teorico-critica necessaria, ma non si pone certamente riparo a questa
perdita limitandosi alla denuncia della devastazione ideologica e culturale
intervenuta nella sinistra durante gli ultimi decenni. Occorre allora ripartire
da elementi di impatto immediato e concreto. Uno di questi, tornando all'argomento
specifico, può essere un'analisi dello statuto del partito in vista di
individuare e proporre norme e procedure a supporto della democratizzazione
della vita del partito stesso, con particolare riferimento al coinvolgimento
effettivo della base e all'impedimento della formazione di gruppi di potere
burocratici e cristallizzati.
La più probabile obiezione a questa proposta è che le modifiche
statutarie sono una questione congressuale, e che solo in quella sede possono
venire discusse e adottate. Ma così si entra in un circolo vizioso, perché
in realtà le modalità di svolgimento dei congressi sono decise
con mediazioni tutte interne all'apparato di potere, che così già
da prima circoscrive i risultati congressuali entro i limiti di compatibilità
col "partito sempre uguale a se stesso" e impedisce di fatto ogni
processo rigenerativo.
Per questo riteniamo che avviare un discorso di base su questioni di metodo
(a partire dal concreto delle norme e delle procedure) possa rappresentare di
per sé un buon esercizio di formazione democratica. Le pagine di Reds,
che in "Rifondare dalla base" già produce un sostanzioso impegno
di documentazione critica e propositiva, potrebbero essere la palestra dove
svolgere questo esercizio.
Siamo consapevoli peraltro che se si avvia un dibattito di questo tipo, e se
esso produce l'indicazione di indirizzi e metodi sostanzialmente diversi da
quelli attualmente vigenti nel partito, occorrerà anche trovare il modo
di proporli alla condivisione di una base più allargata possibile, ampliando
il dibattito anche fuori dalle pagine della rivista. Quale sia questo modo,
non può non far parte integrante del dibattito, accanto agli argomenti
specifici.
Nella situazione attuale del partito non ci si può neanche nascondere
il rischio che un dibattito allargato fuori dell'ambito della rivista, assumendo
inevitabilmente carattere di battaglia politica, venga ravvisato come il tentativo
di dar vita ad un'ennesima componente in cerca di un pezzetto di partito da
occupare. È un rischio grave e una trappola in cui non bisogna cadere,
perché queste interpretazioni strumentali sono il miglior sistema con
cui i burocrati mantengono il controllo sulla base, fomentandone la diffidenza
nei confronti di ogni riflessione critica.
Senza sottovalutare il pericolo, pensiamo comunque che debba essere tenuto fermo
il carattere di un'iniziativa che mira a promuovere un processo di metodo e
non a conquistare delegati o rappresentanze nel mosaico del partito. Del resto
un'azione politica ha contenuti progressivi (si potrebbe spendere anche il termine
"rivoluzionari") non certo perché ottiene una rappresentanza
delegata nel gioco dei poteri, ma perché determina in una collettività
consapevolezza e determinazione.