Il dissenso nel PRC (dalle origini al 2000).
Passiamo ora in rassegna i limiti politici del dissenso che si è espresso nel partito nei suoi dieci anni di esistenza attraverso la fuga verso altre militanze, il ritorno a casa, la scissione, il dissenso più o meno organizzato. REDS. Novembre 2000.


Ci siamo più volte soffermati in maniera assai critica sulla politica portata avanti dalla maggioranza del PRC. In questo nostro articolo ci occuperemo invece dei limiti politici espressi dalle varie forme di dissenso che la storia del partito ha prodotto.

L'insoddisfazione nei confronti del PRC

L'insoddisfazione nei confronti del nostro partito è un fatto connaturato alla sua natura e riguarda tutti, maggioranza e minoranza, base e vertice. Scorrendo i documenti del partito (archiviati solo in parte ed in maniera un po' disordinata nel sito nazionale del partito) è percepibile un perenne scontento sul livello del radicamento, la militanza, la capacità di incidere, ecc. Non vi sono stati momenti della storia del nostro partito di "piena soddisfazione di sé" e che ne attraversasse il corpo. Nulla di paragonabile allo spirito di corpo che animava militanza e dirigenza del PC, ma anche, in fondo, quella di DP. Rifondazione è una formazione nata debole, innanzitutto nella percezione soggettiva dei suoi stessi militanti e dirigenti. Non nascondiamo gli effetti positivi di questa scarsa identificazione: il militante medio del PRC, è un compagno che ragiona con la propria testa in misura ben superiore ai partiti di sinistra del passato, ed è scarsamente dipendente dalle indicazioni di vertice. Non ci sfugge però che all'origine di questa maggiore libertà di pensiero vi sia un malcelato scetticismo sui destini del nostro partito, sulla sua presenza, sulle sue potenzialità.

L'insoddisfazione è verificabile anche da dati empirici, ad esempio sul tesseramento:

1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000
112.278 119.094 121.055 120.000 115.537 126.600 130.059 117.137 96.195 75.951 

Questi dati forniscono solo in parte l'idea della disaffezione verso il partito. Rifondazione ha un turn over delle iscrizioni senza paragoni con altri partiti della sinistra contemporanea o passata. E non da oggi. Nel 1997 Guido Cappelloni stimava in un 30%, durante la prima Conferenza di Chianciano, il turn over annuale del partito. Non è azzardato pensare dunque che per il partito siano transitate mezzo milione di persone. Il calo drammatico del tesseramento (dal 1997 ad oggi 54.000 iscrizioni in meno) può in effetti essere letto anche come una fuoriuscita "fisiologica" dal partito, non sostituita da nuove entrate.

In questo articolo non prenderemo in considerazione le ragioni profonde di questa fuga continua dal partito, che indagheremo invece sul prossimo numero. Ma solo le forme concrete che ha preso il dissenso nella storia del PRC; ci occuperemo cioè delle dinamiche che hanno portato l'insoddisfazione a scegliere determinate strade di diverso impegno, disimpegno, impegno di opposizione.

La supplenza politica svolta dal sindalismo di base

In Italia vi è un fenomeno unico nel panorama europeo in campo sindacale: l'esistenza di sindacati piccoli, ma con una discreta forza contrattuale, con una caratterizzazione radicale di sinistra. In Francia un fenomeno analogo (SUD) ha una incidenza decisamente minore.

Attualmente abbiamo grosso modo cinque aggregazioni sindacali alla sinistra di CGIL, CISL e UIL: RdB-CUB, SLAI-Cobas, Cobas, Sin Cobas-SdB, USI. Le RdB-CUB sono dirette da una serie di compagni separati dalla esperienza politica del PRC e che a Roma fa riferimento alla rivista Contropiano ed al Centro studi Cestes -Proteo mentre a Milano alla vecchia FIM. Ad un livello immediatamente inferiore di direzione però, per non parlare della base, vi sono molti iscritti al nostro partito. Lo SLAI è gestito da settori provenienti da DP, ma che già dentro quell'organizzazione avevano una propria autonoma connotazione, e che hanno militato nel PRC nei primi anni di esistenza per poi uscirne polemicamente. A capo del Coordinamento Cobas vi è un settore politico di antica provenienza autonomia operaia, ma ad un livello di direzione immediatamente inferiore troviamo (ad esempio nel cobas scuola di Roma) una gran quantità di militanti del PRC. L'USI ha una matrice anarchica, separata dal PRC, cosa che non impedisce a diversi militanti di partito di aderirvi, ad esempio tra gli ospedalieri. Il Sin Cobas-SdB è molto "dentro" il PRC, il gruppo dirigente del Sin Cobas è legato a Bandiera Rossa, rivista di un'area del PRC. Vi sono poi sindacati che conducono una vita a sé (SALFA, COMU, ecc.), anche se magari sono legati a qualche raggruppamento maggiore e all'interno dei quali troviamo un gran numero di militanti del PRC.

Questi sindacati hanno un numero di iscritti piuttosto basso se lo paragoniamo a quello di CGIL, CISL e UIL, il tasso di militanza però è molto più alto. Sono riusciti a organizzare per questo lotte importanti: nei trasporti, nella scuola, nella sanità hanno spesso spostato i rapporti di forza tra lavoratori e controparte. La loro forza si deve anche alla debolezza del politico, in presenza di una persistente radicalità (se paragonata a quella degli altri Paesi) della classe lavoratrice italiana. In questi sindacati cioè hanno trovato rifugio molti di coloro che erano profondamente insoddisfatti dell'impegno politico. All'interno dei sindacati di base incontriamo, impegnati in un attivismo a volte forsennato, gente uscita dal PRC per le più svariate ragioni, e gente tuttora iscritta, ma che ha scelto come impegno prioritario quello sindacale e che dunque al circolo si fa vedere assai di rado. Ciò sortisce un paio di effetti negativi sulle caratteristiche di alcuni di questi sindacati. Il primo è una loro forte politicizzazione che li porta a volte ad atteggiamenti sostituzionisti nei confronti del politico, basti pensare alla propensione dello SLAI-Cobas a presentarsi direttamente alle elezioni. La seconda conseguenza negativa è che si rafforza il già non indifferente settarismo di alcune di queste organizzazioni: alcuni dei loro militanti possono anche stare ore a spiegare con lunghe serie di aneddoti e accuse le terribili differenziazioni politiche che separano i sindacati di base e che impedirebbero anche la più banale unità d'azione (ad esempio la proclamazione di uno sciopero nello stesso giorno). Crediamo che ciò sia dovuto ad una sorta di identificazione totale del militante con il suo sindacato, che, per un comunista è, o dovrebbe essere, cosa assai bizzarra. Ma non lo è tanto se pensiamo che queste organizzazioni offrono una potenzialità di identificazione, che normalmente il militante prova verso una organizzazione politica, ma che è resa difficile dallo stato e dai difetti del PRC. Così i comunisti, dentro e fuori il PRC, non hanno oggi il distacco necessario e doveroso quando parlano di sindacato, che per i comunisti dovrebbe essere un semplice spazio dove far politica, e non il luogo sostitutivo del far politica. Del resto il sindacalismo di base è divenuto il "rifugio" anche di altre correnti politiche, che, abbandonati i vecchi collettivi, anarchici, autonomi, ecc. hanno trovato questo nuovo piano di impegno.

Questa dinamica di per sé non è stata negativa. Anzi. L'esistenza del sindacalismo di base ha dato gambe organizzative a molte lotte isolate e a episodi di resistenza che i sindacati maggioritari avrebbero certamente condotto alla disfatta o semplicemente isolato; grazie al sindacalismo di base invece si sono ottenute conquiste specifiche mantenendo in vita un consistente settore di avanguardia che altrimenti sarebbe stato sconfitto e disperso aumentando a dismisura la desindacalizzazione. Inoltre in molte aree la concorrenza del sindacalismo di base ha costretto i sindacati maggioritari ad uno spostamento a sinistra, che in altre condizioni sarebbe stato assai improbabile. Del resto però non ci sfugge che la lenta fuga dei militanti del PRC dalle organizzazioni sindacali di massa ha progressivamente indebolito le posizioni di sinistra al loro interno, "regalando" l'influenza esercitata su milioni di lavoratori alla socialdemocrazia e a consorterie sindacali "pure". Non ci pare oggi problema secondario il fatto che nei sindacati di massa non vi sia alcuna possibilità da parte del PRC di incidere in una qualche misura. La stessa sinistra sindacale è formata ai suoi livelli dirigenti da compagni che in qualche misura sono passati dal PRC, ma ora non sono più militanti. Sia chiaro: non siamo certo a favore del sindacato cinghia di trasmissione del partito. Pensiamo semplicemente che la pluralità della collocazione sindacale dei comunisti dovrebbe costituire una ricchezza: una straordinaria possibilità ad esempio di riunificare la classe su contenuti avanzati. Invece, anche a causa della debolezza del PRC, sono le collocazioni sindacali che determinano la linea del partito. Significativo il caso della scuola: vi sono compagni del PRC nei cobas, nella Gilda, nella CUB, nella CGIL, nella CISL e nella UIL. Eppure invece di utilizzare questa diversa collocazione per dar vita a iniziative unitarie su contenuti avanzati, le divisioni settarie tra organizzazioni vengono riportate pari pari anche all'interno del partito che non è riuscito in alcun modo, né ci ha provato seriamente, ad evitare il paradosso di tre diversi scioperi indetti sulla stessa questione dalle diverse organizzazioni, esito che ha indebolito la mobilitazione.

Questa problematica non riguarda solo il sindacalismo di base. In realtà appena un militante del PRC trova un'associazione, un movimento o qualcosa che si muove minimante soddisfacente, smette di frequentare il partito e salta in quell'altra cosa rompendo con la sua appartenza politica, o smettendo di partecipare, o semplicemente "dimenticandosi" di rinnovare la tessera. Così il partito non diviene il luogo dei militanti dei movimenti che si incontrano per dare un senso politico al loro agire, ma lo spazio della militanza esclusiva di partito. Solo una minoranza di militanti attivi del PRC ha una pari militanza sindacale o di movimento. Ed è inutile dire che ciò favorisce la tendenza istituzionalista già ampiamente presente al nostro interno.

Le scissioni "di destra"

Il dissenso nel PRC ha preso spesso la forma della fuoriuscita individuale, come abbiamo visto sopra, ma anche della scissione organizzata, o per lo meno di gruppo. Nella storia del PRC vi sono state due grosse scissioni "a destra": quella di Magri-Garavini e quella di Cossutta-Diliberto. Di queste scissioni ci siamo già occupati ("Essenze") e quindi ci soffermeremo poco. Ci pare importante segnalare che, al di là dei contenuti e delle ragioni vere che le hanno provocate, esse hanno comportato per i pezzi di base che hanno seguito i propri dirigenti una totale perdità di identità. I raggruppamenti che ne sono sorti infatti sono oggi assolutamente ininfluenti, e assolutamente inutili al movimento operaio. Una funzione potenzialmente utile ad esempio sarebbe stata quella di influire positivamente sulle contraddizioni interne alla Quercia. Vi sono dignitose e utili correnti radicali all'interno del Labour e del PS francese ad esempio, che hanno svolto un ruolo non secondario in una serie di movimenti e costituiscono un potente elemento di freno alle politiche destrorse delle socialdemocrazie. Ma sia i Comunisti Unitari usciti dalla prima scissione, sia i Comunisti Italiani sorti dalla seconda non svolgono nemmeno questa funzione minima: la recente costituzione all'ultimo congresso DS della corrente di sinistra non deve assolutamente nulla a questi compagni, e lo stesso si può dire per la recentissima creazione della corrente di Salvi, una differenziazione a sinistra del veltronismo.

La ragione di questa terrificante inutilità è molto semplice: si è trattato, anche quando si sono trascinati dietro pezzi non indifferenti di base, di scissioni a base istituzionale. In tutti e due i casi si tratta di separazioni nate sulla base dell'influenza della socialdemocrazia (e NON dell'ala sinistra della socialdemocrazia) e per sostenere governi borghesi antipopolari (Dini e poi Prodi). L'esito politico di entrambe le scissioni è stata la perdita della maggioranza dei deputati e di una piccola minoranza della militanza. La modalità di queste separazioni ha fatto sì che i gruppi dirigenti fuoriusciti dal PRC fossero costretti a negoziare con i gruppi dirigenti, maggioritari, della socialdemocrazia. Per questo oggi Diliberto non può permettersi di relazionarsi con l'area di Salvi e tantomeno con la sinistra congressuale DS, proprio perché deve le sue possibilità di sopravvivenza politica, anche personale, alla contrattazione di seggi parlamentari con la maggioranza diessina. In nessun momento i Magri, i Garavini, i Diliberto, i Cossutta, hanno preso in considerazione la possibilità di rinunciare a posti parlamentari (o semplicemente a rischiare di perderli) per passare un periodo di quarantena alla base, dove certamente, con il tempo, fondendosi con la sinistra, avrebbero potuto contribuire a rafforzarla per influire da sinistra sull'asse della politica diessina. Sino all'ultimo sono rimasti fedeli all'idea burocratica e verticistica, secondo la quale la politica la si fa a partire dall'alto e dalla presenza nelle istituzioni. E con questo hanno trasformato se stessi in addobbi natalizi.

Le scissioni a sinistra

La scissione a sinistra più corposa è stata quella del novembre 1997, ad opera di quella che veniva chiamata l'"area Bacciardi", dal nome del dirigente del partito di matrice, diciamo così, "cossuttiana di sinistra", e che era il punto di riferimento di tutta una serie di circoli e pezzi di federazioni della Toscana. Altre scissioni a sinistra di minore entità sono state quella del gruppo dirigente dello SLAI Cobas (Milano-Napoli), e di Carlo Rasmi, ex consigliere regionale dell'Emilia Romagna, uscito nel 1998 insieme ad altri gruppi emiliani (tra cui Parma, usciti qualche mese prima). Queste scissioni sono avvenute tutte durante il periodo di collaborazione del partito con il governo Prodi. Vi sono state anche molte altre miniscissioni a livello di singola federazione (ad esempio Cosenza), ma quelle che abbiamo riportato sono le scissioni che hanno assunto una dimensione almeno regionale.

Queste esperienze non hanno portato a molto. Dal gruppo Bacciardi è iniziato a suo tempo un tentativo di raggruppamento con altri settori precedetemente usciti (lo SLAI di Milano, ad esempio) con la costituzione della Confederazione dei Comunisti Autorganizzati. Il tentativo è durato stentatamente un paio d'anni prima di naufragare senza speranza. Alcuni dei suoi protagonisti si sono ritirati a vita privata, altri hanno costituito collettivi locali, altri hanno investito le loro energie sul terreno sindacale. Il gruppo di Parma sta seguendo un suo percorso di riflessione con la costituzione del Laboratorio Marxista. Il gruppo di Carlo Rasmi ha costituito una formazione che si chiama Azione Popolare, che si è presentata alle ultime regionali con modesti risultati.

Le scissioni e le miniscissioni a sinistra hanno sempre seguito più o meno lo stesso copione. Si basavano su una valutazione che era completamente errata: che il PRC avrebbe sino all'ultimo sostenuto il governo Prodi. Da ciò deducevano che si apriva "un nuovo spazio a sinistra", che in qualche modo un nuovo soggetto politico avrebbe potuto riempire. Nella loro analisi c'era un "prima" e un "dopo" nella storia del PRC, con un prima che era caricato di una valenza positiva e un dopo che era visto come una sorta di irreversibile degenerazione. Dopo la fuoriuscita questi gruppi attraversavano un periodo di euforico attivismo che si spegneva nel giro di qualche mese, lasciando spazio alla dispersione e/o alla depressione. Il colpo definitivo l'ha dato la fuoriuscita del PRC dalla maggioranza di Prodi: con un riacquistato profilo radicale il PRC toglieva anche un residuo di potenziale spazio di massa alla sua sinistra. Perché questi fallimenti? Per due ragioni.

La prima è che questi gruppi uscivano sulla base di una analisi errata del PRC. Il PRC non ha attraversato una fase gloriosa ed una degenerata, ma fasi alterne di destra e di sinistra che dipendono dalle particolari condizioni in cui è nato. La nascita del MRC era chiaramente segnata da una pesantissima eredità sostanziale e simbolica del vecchio PCI, la particolarità della fase politica del resto lo spingevano a sinistra. I compagni usciti hanno fondato la speranza di uno spazio a sinistra sulla convinzione politicista, che questo spazio esisteva "oggettivamente", cioè in maniera indipendente dalle condizioni soggettive delle avanguardie in Italia. Un errore fatale. La politica moderata del PRC durante il governo Prodi era anche dovuta al contemporaneo straordinario riflusso attraversato dal movimento operaio. L'esistenza di uno spazio a sinistra deve essere determinato analizzando lo stato in cui versano i movimenti e non sulla base della politica in senso stretto. All'uscita dal PRC questi compagni hanno così dovuto accorgersi a loro spese che non vi erano masse desiderose di accogliere la nascita di un partito più a sinistra del PRC. Gli "spazi" non li determinano i dirigenti, o gli appelli, ma il movimento concreto delle masse. In realtà però, se ci fossero dei movimenti, questi influirebbero direttamente sul PRC. Ciò è evidente sul terreno della scuola, dove sino a due anni fa il partito portava avanti una politica di oggettiva complicità con le controriforme berlingueriane (l'"autonomia" contro cui ci si mobilita oggi, è stata a suo tempo votata anche dal partito), ma grazie al movimento che è partito da un anno a questa parte la linea si è bruscamente spostata a sinistra assumendo in alcuni tratti addirittura venature estremiste. Dunque le condizioni che porterebbero a fondare un nuovo partito a sinistra del PRC, sono le stesse che potrebbero trasformare in profondità il partito.

La seconda ragione è più soggettiva. Se è vero che non vi è spazio "di massa" a sinistra del PRC, è anche vero che esistono piccole organizzazioni di estrema sinistra di peso non disprezzabile: ad esempio Lotta Comunista, con un peso non trascurabile nelle fabbriche del Nord-Ovest, o Socialismo Rivoluzionario, che mantiene un rimarchevole peso nel lavoro con gli immigrati. Queste organizzazioni più altre sommano un numero di militanti che arriva forse a 2-3000 unità. Se calcoliamo in circa diecimila i militanti veri del PRC (cioè quelli che partecipano ad almeno una riunione alla settimana e che non superano il 15% degli iscritti), vediamo che la loro forza non è poi tanto infima. Ebbene: cosa ha impedito ai compagni usciti di divenire per lo meno una organizzazione di estrema sinistra piccola, ma efficiente?

I problema è che questi settori erano pezzi del PRC, e dunque di questo ereditavano anche alcuni limiti intrinseci. Il nostro è un partito fortemente eterogeneo. Sin dalle origini vi si è sempre trovato di tutto dagli stalinisti ai trotskisti, dagli anarchici ai socialdemocratici. I gruppi in uscita erano omogenei in una critica congiunturale al PRC, ma a positivo non avevano elaborato collettivamente, come del resto non ha fatto lo stesso PRC, una riflessione profonda sulle sconfitte del comunismo (e della socialdemocrazia) in questo secolo. O semplicemente non avevano tratto conclusioni teoriche generali sulla storia del PRC. Ad esempio questi compagni erano contro la partecipazione del partito alla maggioranza di Prodi, ma da ciò gran parte di loro non aveva affatto tratto la conclusione (leninista) che dunque i partiti di sinistra non dovessero in alcun caso dar vita a governi di collaborazione di classe. Tant'è che gran parte di loro a suo tempo non si era opposta alla tattica della desistenza nei confronti del centrosinistra, che ha aperto poi la strada all'entrata in maggioranza. Spesso erano prigionieri di un altro limite del PRC: un certo attaccamento ai nomi ed alle simbologie senza una grande preoccupazione di andare al di là e indagare le ragioni profonde dei fatti sociali. Un forsennato agitare di bandiere, di inni, e di accorati appelli al leninismo non sono il materiale migliore, perché di natura sostanzialmente sentimentale e non scientifico, per conquistare i giovani e analizzare il nuovo. Non perché da Lenin non si possa imparare (noi pubblichiamo continuamente suoi vecchi scritti), ma perché se ne deve fare un uso creativo e non imbalsamarlo e spolverarlo di tanto in tanto per provare qualche brivido. SR e Lotta Comunista invece sono organizzazioni diversissime tra loro, ma terribilmente omogenee al proprio interno, con una lunga precisa tradizione di pensiero alle proprie spalle (trotskismo nel primo caso, bordighismo nell'altro), e con una elaborazione che si rinnova e si arricchisce nel tempo sulla base di consolidate "certezze" teoriche. Ciò consente loro di essere molto "produttivi", e di mantenere una elevata fiducia in se stesse.

Inoltre dobbiamo anche dire un'altra cosa, e lo diciamo noi che individualmente dalla fondazione del partito ci siamo sempre collocati su posizioni di dissenso: essere dissenzienti è a volte doloroso e penoso. Ma vi è anche una parte di, diciamo così, "comodità". Il dissenso interno al PRC è sempre "contro" qualche cosa: in un certo senso dunque è relativamente facile, perché non obbliga ad assumersi in prima persona delle responsabilità verso l'esterno, verso il mondo reale. Ciò porta ad una sorta di "parassitismo" da opposizione, una specie di stanca abitudine a votare contro, ma senza essere in realtà preparati ad una esistenza indipendente, con tutte le fatiche che ciò comporta. I gruppi che hanno prodotto scissioni a sinistra si ritrovavano all'interno del partito all'opposizione, ma con un uditorio che era comunque, con tutti i suoi limiti, di massa. Fuori non hanno incontrato masse alla ricerca di un partito rivoluzionario, ma si sono trovati soli con se stessi e le proprie contraddizioni, a dover fare in prima persona ciò che prima dicevano che il partito avrebbe dovuto fare. Dunque si sono dispersi, o sono stati attratti da altri gruppi, o sono in attesa.

Il dissenso interno non organizzato

All'interno dell'area di maggioranza vi è un dissenso sotterraneo e non dichiarato da parte di innumerevoli settori, con dimensioni che a volte non superano la federazione. Alcuni esempi: il settore cossuttiano che è rimasto nel partito dopo la scissione e che si fa particolarmente sentire sulle questioni internazionali; quella che viene chiamata "area Ferrero" di matrice "movimentista"; e così via. Quali sono le caratteristiche di questo dissenso?

La sua caratteristica principale è che esso nega se stesso in quanto dissenso. Queste aree, denominate spesso non a caso con il nome dei loro leader, rifiutano di riconoscersi come aree. Quando qualcuno le individua o le chiama per nome al di fuori dei corridoi, si suscita solitamente un vespaio. Molti dei suoi protagonisti tra l'altro dichiarano apertamente di essere contrari all'esistenza di correnti organizzate e sarebbero pronti a votare norme più restrittive in questo senso, pur avendo tessuto la propria rete sino a un secondo prima via telefonino. Essendo informali e semiclandestine non sono democratiche: si basano su singole personalità e non vi sono riunioni formali dove la base di queste aree possa pronunciarsi sulla linea da seguire. Il loro collante sono i rapporti di fiducia tra persone. Queste aree non presentano documenti alternativi ai congressi nazionali, a meno che ciò non sia strettamente necessario per garantirsi la sopravvivenza, ma trovano vari mezzi per "misurarsi" e farsi rispettare dalle varie maggioranze. Naturalmente tutti sanno perfettamente dell'esistenza di queste aree e sono loro grati di non manifestarsi pubblicamente, in maniera trasparente: ciò consente alla maggioranza di presentarsi con una facciata monolitica. I problemi sorgono nei pressi delle fasi congressuali dove si decidono gli equilibri di potere, ed ecco allora un gran agitarsi delle fila della eterogenea maggioranza, con trattative che a volte si prolungno per mesi bloccando nei fatti il partito, come è avvenuto a Milano per la formazione della segreteria. Dato che infatti la forza di queste aree non è mai determinata in maniera chiara dal numero dei voti (perché votano quasi sempre la stessa mozione, quella di maggioranza), è poi difficile determinare il peso di ogni settore negli organismi dirigenti.

Le scissioni di destra del PRC erano tutte basate su cordate informali di questo tipo: l'area degli ex-PDUP, capitanata da Magri e Garavini, era un blocco ben preciso nel partito che contrattava in quanto tale e in maniera insaziabile spazi di direzione e posti da funzionario, ma pubblicamente erano tra i più feroci censori dell'esistenza delle correnti "trasparenti". Ma la nota più grottesca è stata quella dell'area cossuttiana le cui grida contro il "pericolo frazionista" ci sono fischiate nelle orecchie per anni, mentre nella più totale clandestinità organizzavano la loro corrente. Al punto che in parecchi luoghi i compagni, al momento della scissione, si sono trovati addirittura senza sede e senza soldi. Eppure anche nell'ultimo CPN precedente la rottura i cossuttiani hanno votato un documento unitario di maggioranza.

Questa, tra tutte, è sicuramente la peggiore modalità di espressione del dissenso. Il doppio linguaggio, l'abitudine di sparare a zero sulle capacità del gruppo dirigente per poi votare in platea ogni sua mozione, la spasmodica ricerca di "spazi" negli organismi dirigenti, l'estremo personalismo, fanno di questo genere di dissenso una causa di allontanamento dal partito, e non un freno alla sua crisi. I rapporti di fiducia del resto (sul quale si basano le "cordate") di questi tempi si logorano in fretta perché quasi sempre fanno riferimento a militanze passate che scoloriscono col tempo, ed anche perché non ci sono lotte in grado di cementarne di nuovi. Quindi è fatale che queste aree finiscano per agitare dei contenuti di dissenso solo come copertura per l'assicurazione di spazi negli organigrammi di partito.

Il dissenso interno organizzato

La storia del dissenso organizzato nel partito ha una storia lunga quanto il PRC. E non la scriveremo ora, limitandoci qui a qualche considerazione. Il dissenso organizzato ha trovato espressione in quattro momenti di tipo assembleare pubblico nel corso degli anni novanta (Pisa, Napoli 1, Napoli 2, Bellaria) conoscendo col tempo una progressiva riduzione dei gruppi che lo costituiscono, ma mantenendo da un congresso all'altro più o meno lo stesso consenso alla base (intorno al 16%). Quella che si autodefiniva la "sinistra" del partito comprendeva all'inizio svariati settori tra i quali le già citate aree Ferrero e Bacciardi, Bandiera Rossa, Proposta e Falce e Martello. Poi progressivamente questa "sinistra" si è ridotta: Ferrero è oggi in maggioranza, Bacciardi è uscito, Bandiera Rossa pur mantenendosi organizzata ed esprimendo un tiepido dissenso è in maggioranza a partire dall'ultimo congresso (il IV, del 1999). La minoranza è oggi costituita ai vertici da Proposta con il supporto della piccola Falce e Martello: insieme hanno dato vita ad una struttura organizzata un po' barcollante cui hanno dato il nome di "Progetto Comunista".

Questo dissenso organizzato è stato in questi anni, a partire dalla fondazione del partito, in maniera continuativa, la voce critica del PRC. Questi compagni si sono costantemente opposti ad ogni svolta moderata della maggioranza, votando contro, presentando documenti alternativi ai congressi e negli organismi dirigenti, ecc. L'esistenza di questo dissenso organizzato ha sortito tre effetti benefici per il partito. Il primo è che ha mantenuto nel partito centinaia di quadri e di iscritti che altrimenti se ne sarebbero scappati a gambe levate contribuendo a indebolirlo. In secondo luogo con una costante critica da sinistra ha costretto ogni volta la maggioranza ad argomentare le proprie scelte e obbligandola spesso, per non perdere consenso, a scelte più coraggiose. In terzo luogo ha garantito per la sua stessa esistenza, e dopo non poche battaglie, un livello di democrazia interna abbastanza invidiabile per un partito comunista "classico".

Questo dissenso è stato nei fatti egemonizzato da forze organizzate che si ritrovano intorno a delle riviste (il nome di queste correnti prende appunto il nome dalle riviste). La loro cultura politica non corrisponde precisamente a quella della massa di militanti che li vota durante i congressi permettendo loro di collocarsi ai massimi vertici del partito. Bandiera Rossa e Proposta si dichiarano trotskiste, quando in realtà ben pochi dei votanti della "2" (come si chiamava la mozione dell'ultimo congresso), o della "3" (la mozione del penultimo) si dichiarerebbero tali. Questa discrepanza fa sì che regolarmente ad ogni congresso queste aree perdano e non aggreghino il consenso che hanno ottenuto alla base e dunque rimangano più o meno con la stessa consistenza.

Così quando Proposta è stata lasciata sola a gestire l'opposizione all'ultimo congresso, ha dato vita ad un documento largamente dottrinario che in alcun modo corrispondeva all'elaborazione delle centinaia di compagni che, comunque, per esprimere il proprio dissenso, l'avevano votata. E la riprova è che quando la stessa area ha provato a inglobare l'insieme di questi compagni con l'operazione di Progetto Comunista, questa è sostanzialmente fallita. Il contraccolpo ha portato, ci pare di percepire, ad una certa crisi di questo settore. Crisi che non colpisce la più piccola Falce e Martello, dato che conduce un'esistenza nei fatti separata da quella del partito, e dunque non risente troppo dei contraccolpi della sua politica. Bandiera Rossa oggi si limita ad esprimere un dissenso scarsamente udibile dal corpo del partito, ed appoggia nella sostanza le principali scelte della maggioranza cercando di darne una lettura "di sinistra" (si distacca ogni tanto a livello locale come a Torino in occasione della discussione sulle regionali o all'ultimo congresso romano).

Questo dissenso organizzato (e vi includiamo per il periodo in cui lo sono state anche le aree Ferrero e Bacciardi) al di là delle differenze di contenuti ai quali abbiamo appena accennato (ma sui quali torneremo nei prossimi numeri) è affetto dagli stessi limiti politici, che qui riassumiamo.

1. Il dissenso organizzato si è sempre espresso in una specie di federazione di gruppi, ognuno dei quali aveva ed ha i suoi leader. Le basi di questi gruppi e ancor di più le migliaia di compagni che votavano le tesi alternative ai congressi non hanno mai avuto la possibilità di incontrarsi orizzontalmente. E' stata un'area che ha agito sempre attraverso contatti e accordi tra i leader dei diversi gruppi che la componevano. In fin dei conti nulla di diverso da quel che fa la maggioranza. I quattro momenti in cui ci si è incontrati erano rigidamente controllati da questi leader, con esiti e mozioni gestite ai vertici; con l'espressione di voto limitata agli eletti negli organismi dirigenti che il più delle volte erano il risultato della "lottizzazione" operata dai vari gruppi. Nessuna mozione alternativa è mai nata dal basso, con assemblee locali libere che via via formavano un documento. L'area del dissenso non ha trovato mai canali e modalità per organizzarsi liberamente, discutere, confrontarsi e crescere insieme. Alla fine il bandolo della matassa, la possibilità di fare e disfare ce l'avevano sempre un gruppo estremamente ristretto di compagni, forse non più di dieci persone, e sempre le stesse. Nei fatti il dissenso della base non ha mai trovato un canale per autorappresentarsi.

2. La dirigenza della sinistra interna ha sempre mostrato un singolare attaccamento ai posti negli organismi di direzione e nelle candidature elettorali. In ogni elezione, nazionale o locale che sia, deve comparire anche il rappresentante o i rappresentanti della sinistra interna per i quali la minoranza fa propaganda, concentrandovi ogni sforzo. In questo modo si arriva però ad un paradossale elettoralismo di estrema sinistra. Anche in ciò la somiglianza con quel che fa la maggioranza (con le lotte poco trasparenti per fare eleggere questo o quello) è abbastanza inquietante. Le modalità con cui vengono riempiti gli spazi di direzione che spettano alla sinistra, frutto di estenuanti trattative tra leader nei corridoi, ha assai poco a che vedere con la rappresentatività sociale, la necessità di promozione di nuovi compagni, e assolutamente nulla a che vedere con una seppur minima volontà di rotazione. Ed anche in ciò non registriamo differenze di sostanza con la maggioranza.

3. Il dissenso organizzato ha la cattiva abitudine di riattivarsi solo al momento del congresso. Tra un congresso e l'altro vi è una sonnolenta attività di contrapposizione negli organismi dirigenti. Al momento del congresso è tutto un gran telefonarsi, un ribollire di riunioni e ottimi propositi. Poi passa il congresso, le telefonate si fanno più rade e di riunioni non se ne fanno più. Registriamo comunque una differenza con la maggioranza, che troppe volte ricorre all'uso massiccio di "truppe cammellate". La sinistra non chiama certo i compagni a stare a casa, non abbiamo però mai assistito ad episodi particolarmente ripugnanti come la strumentalizzazione di vecchi partigiani, gente portata al congresso solo al momento del voto, ecc. da parte di esponenti della sinistra interna. Non è questa una differenza di poco conto.

4. I dirigenti della sinistra interna hanno sempre posto l'accento sulla lotta all'interno degli organismi dirigenti del PRC. Dunque l'attività di oppositore consiste nel presentare ad ogni pié sospinto una mozione che si contrapponga a quella di maggioranza, un po' come avviene in CGIL. Questo tipo di attività però finisce per essere frustrante soprattutto per quei compagni che non trovano di per sé particolarmente eccitante trovarsi in un organismo dirigente di partito, e per di più blindati in una minoranza immodificabile.

5. I dirigenti della sinistra interna serbano pochissima attenzione, come del resto quelli della maggioranza, alla base, ai circoli. Nei fatti i circoli dove la minoranza è maggioranza non si distinguono in nulla dagli altri: tra loro ne troviamo di ottimi come di pessimi, di attivi come di catatonici.

6. I dirigenti della sinistra interna criticano giustamente l'immobilismo della maggioranza nei confronti dei movimenti, non pare però che abbiano mai mostrato molta voglia di fare in prima persona le cose che imputavano agli altri di non fare. Troppe volte vediamo compagni impegnati pressoché in maniera esclusiva nell'attività di opposizione interna al partito, senza la preoccupazione di mostrare nei fatti una diversa concezione del far politica.

Dunque nell'attività politica concreta, la sinistra interna, soprattutto nel suo nucleo dirigente, non è testimone in maniera forte di un modo diverso di far politica. E in questo sta il suo limite maggiore.

Il dissenso possibile

Il panorama che abbiamo compiuto del dissenso nel PRC indurrà forse qualcuno alla depressione. Speriamo di no. Come si può leggere nel nostro documento Un nuovo modo di costruire i circoli noi diamo una grande importanza alla possibilità di rigenerare questo partito a partire dalla base. Per riuscire in questo compito sono certo necessarie battaglie di carattere generale, ma ancora di più una attività innovativa che ciascuno può inaugurare a partire dal proprio circolo. E' alla portata di ognuno di noi portare avanti una doppia militanza nel partito e nei movimenti, ad esempio. E' anche alla portata di chi dissente nel partito cercare e costruire una rete orizzontale, che "salti" le barriere delle organizzazioni, delle preoccupazioni esclusive riguardo ai posti dirigenti (non diciamo che vi si debba rinunciare, ma solo relativizzarne l'importanza), di applicare a partire da noi stessi la rotazione come valore in sé. I mezzi informatici ci permettono anche un contatto orizzontale tra circoli, anche al di là della divisione tra maggioranza e minoranza.