Sulla rottura interna a Progetto Comunista.
Di Andrea Vigni -del Circolo di Bussoleno (TO). Aprile 2001.



Leggo con interesse e molta condivisione il commento di REDS al recente divorzio fra Proposta e Falce e Martello. Al di là delle osservazioni squisitamente politiche portate da REDS sull'episodio, che mi appaiono puntuali e che sono naturalmente la ragione fondamentale del mio accordo con il commento, mi colpisce uno spettacolo di raro squallore politico. Il dato risultante dal botta e risposta fra le due riviste testimonia che in sostanza il divorzio è avvenuto per una diatriba su questioni di scelta delle frequentazioni parlamentari e sottoparlamentari. In altre parole dibattiti, condivisioni o polemiche all'interno dell'area critica del partito si svolgono esclusivamente fra rappresentanti negli organismi dirigenti di gruppi e componenti, in un ambito strettamente limitato al tema della presenza nelle istituzioni. Le prese di posizione "politica" (si fa per dire) sono conseguenza solo di questo tema, divenuto ormai unico e circoscritto orizzonte di dibattito e di intervento. Che razza di area critica è questa? Continuando così, che speranze esistono di recuperare capacità di opposizione sociale e di massa? Se si vuole tentare una strada che eviti al partito di avvitarsi definitivamente su se stesso e di confinarsi di fatto nella logica bipolare organica al potere del capitale, così come oggi strutturato, a mio avviso è ora di ragionare su iniziative dal basso che prima di tutto spezzino i meccanismi di delega ai vertici, verticini, referenti di gruppi, gruppetti e quant'altro, nella formazione dei contenuti e dei modi d'intervento del partito. A me sembra naturale che ogni vertice tenda a perpetuare se stesso, attribuendosi l'investitura della rappresentanza della base, nel partito come nelle istituzioni. Da qui a subordinare ogni scelta politica alla necessità di rimanere "vertice" il passo è breve. E poi sperimentare nel concreto del corpo del partito le iniziative ipotizzate, per verificarle e capire se e quanto esista capacità di autonomia e di reazione della base. Ciò comporta di cominciare a porre problemi di metodo ben precisi: delega o mandato, conferimento della funzione dirigente reiterata ai soliti membri dell'apparato o rotazione? E molto altro ancora. Mi rendo conto che promuovere iniziative nel senso detto significa incontri, assemblee, dibattiti, e che quindi il rischio di proporsi (o di essere scambiati) come un'ennesima area, con i propri leaders più o meno palesi, è in agguato. A mio avviso sarebbe il peggiore degli errori, ma non mi sembra che si possa rinunciare alle iniziative per paura dei rischi, mentre invece si possono prendere le dovute precauzioni, una delle quali potrebbe essere quella di tenersi strettamente ancorati a questioni di metodo e di procedura, escludendo ogni tema di attualità politica.