I comunisti e i movimenti.
Che
differenze ci sono tra partiti e movimenti? Che ruolo devono svolgere i comunisti
nei movimenti? REDS. Aprile 2002.
Che differenze ci
sono tra partiti e movimenti? Che ruolo devono svolgere i comunisti nei movimenti?
Sino agli anni sessanta la problematica riguardante i movimenti era limitata sostanzialmente
al cosa fare nei sindacati, dato che non esistevano altre organizzazioni e/o movimenti
di massa, a parte quelli rigidamente controllati dai partiti. Le cose sono poi
cambiate con il sorgere di movimenti di massa autonomi dai partiti, nati su temi
specifici o espressione di soggetti sociali diversi dalla classe operaia: movimenti
femministi, omosessuali, neri, per la pace, la casa, l'ambiente, il consumo critico,
ecc. Questi movimenti hanno via via accresciuto sempre più la loro importanza
rispetto ai partiti di sinistra, in termini sia quantitativi (la militanza di
movimento è di gran lunga superiore in quasi tutto il mondo a quella di
partito), sia di incisività (dato che hanno ottenuto risultati concreti).
Di fronte a questa realtà il dibattito interno ai partiti di sinistra (specie
quelli anticapitalisti) ha spesso visto schierarsi due tendenze: quella "movimentista",
di sostanziale adeguamento ai modi e ai contenuti dei movimenti, quella "partitista",
nel fondo distante e diffidente nei confronti di qualsiasi movimento. Con infinite
variazioni intermedie. Con l'emergere del movimento antiglobal il dilemma si ripresenta
puntuale anche nel nostro partito, anticipato dalle saltuarie discussioni che
vi sono state riguardo al movimento sindacale. Anticipiamo che la questione ci
pare meglio affrontata nelle tesi di maggioranza, ma anche in queste riscontriamo
dei limiti. Del resto abbiamo rilevato limiti anche maggiori nelle tesi di minoranza
(e negli emendamenti proposti da un loro settore) e nei testi della cosiddetta
"area degli emendamenti" alle tesi di maggioranza. Al di là delle
contrapposizioni congressuali, dunque, distribuiamo questo contributo specifico
sul tema, frutto della riflessione della redazione della nostra rivista REDS (http://www.ecn.org/reds).
In queste pagine cercheremo di analizzare la profonda differenza che esiste tra
movimenti e partiti per farne discendere, se possibile, i compiti specifici dei
comunisti.
IL PIANO DELLA POLITICA E QUELLO DEI MOVIMENTI
La differenza tra partito e movimento è presto detta: il partito si colloca sul terreno della politica, cioè del potere, i movimenti invece su quello del raggiungimento di obiettivi parziali.
Ogni volta che i soggetti sociali oppressi e/o semplicemente settori di cittadinanza, si trovano ad affrontare un problema che intendono risolvere in forma collettiva, danno vita ad un movimento: sindacato, comitato, associazione, rete, coordinamento. Questi organismi possono anche offrire intere visioni del mondo, ma, nei fatti, cercano di raggiungere i loro obiettivi parziali, ne siano o meno coscienti. Il piano del politico invece ha per fine la conquista del potere politico. A seconda dell'orientamento del partito, questa conquista può prendere la forma della partecipazione al governo o quella del rovesciamento del potere statale o di altre visioni strategiche più o meno intermedie. I movimenti dunque sono parziali, mentre i partiti (o comunque i soggetti politici) sono, o dovrebbero essere, complessivi. L'ambizione dei partiti cioè è, o dovrebbe essere, quella di riassumere anche le rivendicazioni parziali dei movimenti, o di dare delle risposte a quelle istanze sul piano del politico. Ma il viceversa non esiste: i movimenti non si collocano sul piano della conquista del potere politico, comunque la si intenda.
Naturalmente, nella storia, gli "sconfinamenti" tra un piano e l'altro sono a dir poco numerosi, ma proprio lo studio di questi ci indica come la suddivisione che abbiamo descritto non sia astratta, studiata a tavolino, ma discenda dalla realtà storica, che si incarica, indipendentemente dalla volontà dei protagonisti, di ricollocare, alla fine di situazioni confuse, ognuno "al proprio posto".
Vi sono partiti monotematici che hanno cercato di portare direttamente sul piano della politica la parzialità, cioè le tematiche specifiche, di un movimento. Ad esempio i Verdi. Ma ovunque in Europa la fragilità di queste formazioni (sparizioni, riaggregazioni, ricambi completi del proprio elettorato, paurose oscillazioni elettorali) dimostra la provvisorietà della loro collocazione sul piano del politico.
È accaduto poi alcune volte nella storia del movimento operaio che nascessero sindacati che programmaticamente si proponevano di trascendere il proprio ambito parziale, di difesa degli interessi elementari dei lavoratori, per invadere quello del politico. È il caso del sindacalismo anarchico e del sindacalismo rivoluzionario di inizio secolo. È il caso oggi di una parte del sindacalismo di base in Italia. Si tratta di soggetti sindacali che si proponevano e si propongono come soggetti politici concorrenti alla conquista del potere politico (o di spazi su quel piano). Negli anni venti abbiamo avuto il sindacalismo anarchico latinoamericano che organizzava vere e proprie insurrezioni; oggi abbiamo raggruppamenti sindacali che si presentano alle elezioni con programmi politici molto radicali. Ma si dà il caso che i sindacati anarchici non ci siano più, mentre quelli socialdemocratici non hanno mai smesso di funzionare. Oggi del resto i sindacati di base devono proprio alla loro politicità il fatto che non riescono ad andare al di là di un assai limitato consenso. La gran parte dei lavoratori non chiede ai sindacati di essere comunisti, ma di fare il proprio lavoro, difendere cioè gli interessi materiali ed elementari dei lavoratori. Un sindacato che invece di fare consulenza produce grandi discorsi contro la globalizzazione, è destinato ad incontrare il favore solo di ristrette avanguardie. E di guadagnare saltuariamente i favori della massa solo quando appare come sindacato, cioè rigoroso difensore di interessi elementari, supplendo all'assenza (o rimediando al tradimento) delle organizzazioni di massa. Ciò spiega perché in determinate occasioni il sindacalismo di base abbia organizzato manifestazioni e proteste di massa, ed anche perché questi successi non si siano tradotti in un pari aumento del numero di iscritti.
Perché la realtà produce in forma naturale questa "divisione del lavoro" tra partiti e movimenti?
I movimenti perseguono obiettivi parziali, per questo le persone che vi aderiscono sono più numerose di quelle che militano nei partiti. Un lavoratore può essere assolutamente favorevole a difendere il proprio salario con lo sciopero ma, per quanto contraddittorio ciò possa sembrare, può allo stesso tempo votare a destra. Vi sono molte persone che solidarizzano sinceramente con le popolazioni del Terzo Mondo e dunque si spendono a favore del consumo critico e contro il FMI, ma, all'ora del voto, scelgono partiti moderati. Ciò costituisce una contraddizione solo se si adotta il punto di vista del piano politico, cioè un punto di vista complessivo, che dà una spiegazione, non necessariamente corretta, di tutte le parzialità riconducendole ad una sola logica. Ma non è così dal punto di vista del movimento, che ha una visione parziale. Il movimento cioè risponde ad un bisogno di massima unità per il raggiungimento di un obiettivo specifico. Porre problemi di prospettiva politica viene percepito dalla massa degli attivisti di movimento come un attentato a questo sforzo, come un tentativo di divisione, e per questo è solitamente respinto come "strumentalizzazione".
La coscienza della parzialità, non è quasi mai presente però, nel militante medio di movimento. La tentazione di vedere il mondo attraverso la lente del movimento cui si appartiene è forte, e spontanea. Difficile trovare ad esempio un militante ambientalista che non sia convinto che tutto debba essere ricondotto alla lotta per il rispetto delle compatibilità della natura, o un attivista del consumo critico che non giuri che il cambiamento vero dipenda dall'adesione individuale ad un altro stile di vita.
Per questo i comunisti sbagliano quando cercano di far coincidere la propria visione del mondo con quella del movimento particolare nel quale si trovano ad operare. Situare la propria postazione di osservazione sul mondo all'interno di un movimento, significa vedere il mondo con una lente particolare, dalla visuale ristretta, parziale, appunto. Qui è uno dei limiti del documento di maggioranza. Che deriva paradossalmente da un merito: aver scelto di collocare il partito dentro un movimento, quello noglobal, evitando il settarismo e la supponenza del "comunismo" classico. Ma ha condotto questa operazione con un eccesso di entusiasmo, finendo per proporre una visione della realtà e dei nostri compiti esclusivamente da quel punto di vista. Il movimento no global non è il "movimento dei movimenti", ma è uno dei diversi movimenti che sono apparsi, o riapparsi, sulla scena politica italiana nell'ultimo anno. Vi è un movimento democratico emerso a partire da gennaio (quello dei "girotondi"), ma soprattutto il movimento sindacale che il 23 ha fatto sentire tutta la sua potenza. L'internità di visuale e di prospettiva al movimento noglobal ha fatto sì che si confondesse l'adesione di dirigenti FIOM alle iniziative del movimento, con l'adesione del mondo sindacale tout court. I noglobal godono di indubbie simpatie nel mondo del lavoro, ma questo è a tutt'oggi un mondo separato da quello del movimento antiglobalizzazione. Nelle assemblee dei social forum troveremo qualche dirigente sindacale, ma non la massa dei delegati sindacali. La partecipazione dei sindacati di base non significa affatto l'adesione dei lavoratori, dato che il peso di queste organizzazioni tra i lavoratori è assolutamente minoritario. Assegnare dunque al movimento noglobal il compito di "ricostruire un nuovo movimento operaio", appare velleitario e con conseguenze pratiche potenzialmente disastrose. Significa spingere i militanti non all'impegno nelle organizzazioni sindacali di massa, ma in quello dei social forum, immaginandosi che da lì si possa sul serio influire sui destini della classe. Speriamo sia chiaro che non stiamo affatto affermando che l'impegno nel movimento noglobal debba essere ridotto, ma solo che deve essere considerato uno degli ambiti di attività di movimento da parte dei comunisti. Allo stesso modo la parzialità del nostro approccio ha fatto sì che il nostro partito desse un giudizio immeritatamente critico nei confronti del "popolo del Palavobis", non comprendendo che si trattava di un movimento, nuovo, nei confronti del quale dovevamo dimostrare un atteggiamento generoso e aperto, così come abbiamo fatto con quello noglobal. I dimostranti del Palavobis non erano ulivisti (per cui sarebbe errato far discendere da un atteggiamento propositivo nei loro confronti un analogo atteggiamento di apertura verso il centrosinistra), ma di coloro che, genericamente di sinistra, hanno sentito il peso dell'assenza di iniziativa della sinistra sul terreno squisitamente democratico.
L'IMPORTANZA DEI MOVIMENTI
Perché i comunisti dovrebbero sostenere e militare nei movimenti? Per parecchie ragioni.
La prima è che i movimenti sono utili in sé. Dato che essi sono la rappresentazione sociale di un fronte unico per il raggiungimento di obiettivi specifici, quegli obiettivi vengono spesso conseguiti. Purtroppo la storia si dimentica in fretta dei movimenti, trasferendo il merito di certe conquiste ai partiti o a miracolosi leader. Eppure le riforme progressiste del sistema scolastico, di quello sanitario, di quello psichiatrico, ecc. sono frutto dell'attivismo frenetico di milioni di persone che militavano in migliaia di sigle spesso locali. Così come certe conquiste sindacali degli anni settanta non sono certo merito delle burocrazie, ma della pressione costante esercitata su di loro da migliaia di comitati e consigli di fabbrica. Il raggiungimento di obiettivi parziali, che spesso prendono la "forma" di riforme, migliora le condizioni generali dei cittadini e dei soggetti sociali oppressi, fa loro vivere un'esistenza migliore, e ciò deve essere valutato positivamente di per sé anche dai comunisti, che pure si battono per una società altra, e non per un capitalismo dal volto umano.
In secondo luogo il raggiungimento o meno di obiettivi parziali aumenta la fiducia nelle proprie forze, cioè l'autostima da parte dei gruppi che hanno promosso quelle lotte. Questa autostima è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché vi siano molte persone che osino immaginare un altro mondo possibile. Senza successi parziali è più difficile che si produca una fiducia di massa nelle possibilità di un cambiamento globale e radicale: se nemmeno si riesce a ottenere un aumento di stipendio, come si fa a pensare di fare una rivoluzione? La fiducia di massa nel "comunismo" della generazione del secondo dopoguerra era dovuto anche all'esperienza di massa della Resistenza e delle conquiste parziali successive: eventi che hanno aumentato l'autostima delle classi sociali oppresse e dunque ne hanno mantenuto la speranza di un cambiamento radicale anche nei bui anni del riflusso dei '50.
Terzo: i movimenti costituiscono un'ottima scuola di lotta e di autoformazione per gli oppressi, e ciò non potrà che arrecare vantaggi ad un partito che abbia ambizioni di carattere più generale, e dunque di una militanza sperimentata, competente e con consolidate capacità di relazionarsi con la massa. Per i soggetti sociali oppressi i movimenti possono essere una palestra di protagonismo e di democrazia. L'esistenza dei movimenti non è concorrenziale rispetto a quella del partito, al contrario: è come l'aria che gli serve per respirare. Senza movimenti un partito si rinsecchisce e si riduce ad una attività propagandistica ed elettorale, come era il caso del nostro partito sino a non molto tempo fa.
Quarto: dai movimenti i comunisti hanno molto da imparare. La specificità dei movimenti, il fatto cioè che si battano per obiettivi parziali, non significa certo che i comunisti, che si battono su un piano di azione (quello della politica) che è più complessivo, non possano imparare dai movimenti, esserne contaminati, cambiati. I comunisti non inventano a tavolino i propri metodi di lotta e i contenuti del proprio agire, essi si distinguono dai movimenti per l'obiettivo che li anima: la conquista del potere da parte dei soggetti sociali oppressi, ma ciò non li deve porre certo nella posizione di sacerdoti di una religione che dobbiamo imporre al prossimo. Non sono i comunisti che hanno insegnato ai proletari come si fa uno sciopero, un sindacato, un sit in, o un assalto a un palazzo pubblico. Lo hanno insegnato i proletari ai comunisti, nelle loro spesso confuse esperienze di lotta. I comunisti non devono rifiutare di farsi contaminare, al contrario devono continuamente apprendere dall'attività concreta delle masse, attività concreta che, nella gran parte dei casi prende la forma dei movimenti. I comunisti dovrebbero poi fare tesoro di questi insegnamenti, sintetizzarli, ordinarli e riattualizzare così continuamente la strategia per raggiungere i propri fini, che sono diversi da quelli dei movimenti, perché questi si battono volutamente per obiettivi più parziali.
Quinto. È proprio militando nei movimenti che tantissime persone compiono il salto dalla parzialità al piano del politico. Il movimento non può andare oltre un certo limite, appunto l'ottenimento di obiettivi parziali. Alcuni di questi obiettivi poi, non sono affatto minimalisti, ma, nel quadro capitalistico, irraggiungibili, come ad esempio la democratizzazione del FMI o dell'ONU. Nei movimenti dunque la presa di coscienza sulla insufficienza della militanza esclusivamente movimentista, prima o poi attraversa gran parte degli attivisti, si diffondono domande come: "ma dopo, che facciamo?", "ma se non otteniamo questo obiettivo, che strada prendiamo?", "abbiamo ottenuto questo risultato, ed ora?", "perché chiediamo da anni questa cosa all'apparenza così semplice, ma su questo non cedono?". Dalle risposte a queste domande dipende il passaggio di questi attivisti al piano del politico. Non si tratta, sia ben chiaro, di strappare militanti ai movimenti, al contrario: si tratta di mantenerli dove sono, integrandoli però ad una visione strategica, mettendoli dunque in contatto anche con le militanze di altri movimenti. Proprio facendo l'esperienza concreta dei limiti intrinseci ai movimenti possiamo sperare che vi sia sempre più gente che comprenda la necessità di una lotta più complessiva, la lotta per il potere. Questo termine, potere, sappiamo bene che ha assunto un suono un po' sinistro. Adottiamone un altro, basta che si comprenda di cosa stiamo parlando: della fine di un apparato sociale-statale che assicura il dominio non solo di classe, ma anche di genere, etnico, generazionale e di orientamento sessuale.
I COMUNISTI DEVONO LOTTARE PER L'EGEMONIA NEI MOVIMENTI?
È tipico di una certa tradizione, che intravvediamo sia nelle tesi di minoranza sia nell'area degli emendamenti alle tesi di maggioranza, pensare che compito dei comunisti sarebbe quello di porsi "alla testa" dei movimenti di massa, intraprendendo al loro interno una instancabile lotta per l'egemonia. Questa lotta si produrrebbe con il metodo di spostare sempre più "a sinistra" la linea e l'identità dei movimenti. Ma in realtà ciò si traduce in uno sforzo di politicizzazione che, se coronato da successo, non farebbe altro che disgregare quei movimenti.
Ad esempio non ha alcun senso far sì che il movimento noglobal che è un movimento antiliberista, diventi un movimento anticapitalista. In questa maniera gli si attribuirebbe forzosamente un ruolo tutto politico che spetta più propriamente ai partiti, e, speriamo, al nostro. Non si può chiedere ad un movimento eterogeneo dal punto di vista politico, ma unito sul tema della solidarietà al Terzo mondo, di diventare come noi: il risultato non sarebbe affatto l'allargamento del partito, ma l'allontanamento dal movimento di chi non è coerentemente anticapitalista. Non ne vediamo alcun vantaggio, né per il partito né per il movimento.
Nella storia della sinistra a volte il problema dell'"egemonia" si traduce nel compito di occupare più posti dirigenti (o "visibili") possibile all'interno dei movimenti. Al contrario i comunisti, considerando i movimenti un'ottima palestra per se stessi e gli altri, dovrebbero spingere le compagne e i compagni più giovani, anche se senza la nostra tessera, a vivere esperienze di direzione. Non dovremmo nemmeno incombere col nostro ditino alzato per cambiare le virgole di documenti che ben pochi si leggeranno nell'intento di dar loro una coloritura il più possibile "comunista". Al contrario, ci dovremmo preoccupare che i documenti dei movimenti siano chiari, comprendibili a livello di massa, anche se parziali nei contenuti. Notiamo spesso, soprattutto in gruppetti esterni al partito, un atteggiamento poco sopportabile fatto di interventi assembleari che all'interno dei movimenti servono solo a "differenziare", a staccare pezzi, sperando di calamitarne il consenso, anche a costo di dividere, pur di ritrovarsi con qualche tesserato in più. Vi sono poi quelli che intendono la "presenza dei comunisti nel movimento" simile a quella di un edicolante: sono sempre lì pronti con la loro rivista che detta la linea giusta, gli opuscoli e le spillette, cercando accalappiare i malcapitati che magari s'erano mostrati un po' curiosi. Cosa ci guadagnano? Ogni tanto qualcuno "cade nella rete" e viene subito spedito a vendere i giornali dell'organizzazione, ma l'influenza di queste pratiche nei movimenti è pari a uno zero assoluto. La gran parte delle persone vede con fastidio quelle che appaiono vere e proprie sette (e difatti formalmente i metodi non differiscono molto da quelli, ad esempio, dei Testimoni di Geova). In concreto la "lotta per l'egemonia" di questi gruppetti si esaurisce nel cercare di "pescare" questo o quell'altro. La gente si infastidisce non perché non abbia voglia di ascoltare persone con idee difformi, ma perché vede in questi metodi, a giusto titolo, la volontà non di rafforzare il movimento ma la propria organizzazione.
Al fondo dell'atteggiamento settario (verso i movimenti) vi è la convinzione, non sempre dichiarata, che i movimenti siano qualcosa per propria natura imperfetta, e che se a qualcosa devono servire, questo può accadere solo dopo una ampia purificazione. Vi è cioè una profonda incomprensione del fatto che gli oppressi si danno e si sono sempre dati strumenti diversi per raggiungere obiettivi diversi. Per raggiungere un obiettivo parziale c'é bisogno di un movimento, non di un partito, e non si può accusare un movimento di non essere ciò che per natura non vuole e non potrà mai essere.
I MOVIMENTISTI
D'altro canto abbiamo incontrato spesso compagni la cui esaltazione dei movimenti arrivava sino al punto di domandarsi: ma allora a che serve un partito comunista? Se a tutto pensano già i movimenti! È l'altra faccia dell'atteggiamento settario: mentre quello esprime una sostanziale sottovalutazione dei movimenti, l'atteggiamento "codista" nasconde una pesante sottovalutazione del ruolo del partito. I movimenti si muovono su obiettivi parziali, e dunque non potranno mai porsi, se non in termini confusi, grotteschi o illegittimi, sul piano della lotta politica. I "movimentisti" assegnano sostanzialmente al partito un ruolo di sponda istituzionale dei movimenti, ma in ciò si candidano a fare del partito un carrozzone burocratico, un insieme di rappresentanze istituzionali. Rallentano la politicizzazione di settori di movimento. A questi si fa loro intendere infatti che il piano del politico non sia quello della conquista del potere con tutta la complessa strategia che ne consegue, ma sostanzialmente un posto nella lista per le prossime elezioni, per vivacchiare in un organismo istituzionale non si sa bene a far cosa. In questa maniera si diffonde l'idea della politica come qualcosa di "sporco", di opportunista, e sostanzialmente inutile. E in effetti, la politica così intesa, tale è.
Una linea politica movimentista fa sì che il partito perda il suo contenuto più profondo e radicale: quello di essere portatore di un progetto complessivo di cambiamento e di una strategia per conseguire questo obiettivo. I militanti si abituano ad una ginnastica fatta di "appuntamenti" tra i più disparati, di adesioni più o meno acritiche alle mode interpretative dominanti, e alla fine non capiscono più perché dovrebbero continuare a stare in un partito che serve solo ad accompagnare il lavoro che fanno altri.
Vi sono poi compagni che sono giunti alla conclusione che l'esperienza del comunismo novecentesco, in tutte le sue sfumature, sia esaurita, e immaginano un nuovo organismo politico che sorga dal passaggio del movimento noglobal al piano del politico. È una visione pericolosa e che respingiamo, ma che vediamo qui e là "ospitata" nelle tesi di maggioranza. Una simile posizione è dannosa innanzitutto per il movimento noglobal, all'interno del quale convivono le posizioni politiche più disparate. E dunque delle due l'una: o si immagina che questo passaggio avvenga tramite scissioni, e quindi dispersione, del movimento, e dunque una sua successiva purificazione (perché non si può immaginare che cobas e ACLI abbiano più o meno le stesse prospettive politiche), e quindi è una proposta e una prospettiva divisionista, e dunque, in ultima analisi, contro il movimento. Oppure è qualcosa di peggiore: la sussunzione al livello del politico di tutto il movimento con tutte le sue divaricanti visioni politiche, e dunque la creazione di un soggetto politico così eterogeneo che sarebbe incapace di vera azione politica, generico, privo di strategia, in perenne congresso permanente e, quel che è peggio, impegnato in maniera più o meno esclusiva alla conquista di spazi elettorali.
I COMPITI DEI COMUNISTI NEI MOVIMENTI
I militanti comunisti, proprio perché dovrebbero avere una visione non parziale, hanno più possibilità di altri, almeno teoricamente, non solo di proporre le soluzioni migliori per rafforzare un certo movimento, ma anche per comprendere quando un movimento è necessario e cercare di costruirlo da zero. I comunisti non dovrebbero aspettare che i movimenti piovano dal cielo. Ad esempio oggi in Italia è urgente la costituzione di una grande organizzazione di massa degli immigrati (o mista e dunque tematica, come SOS Racisme): i comunisti dovrebbero impegnarsi in tal senso con tutti i soggetti disponibili.
In secondo luogo i comunisti nei movimenti devono starci. È l'acquisizione più importante delle tesi di maggioranza. Non importa che i movimenti abbiamo visioni parziali, o anche errate, non importa quale sia la loro direzione: noi dobbiamo starci in mezzo. È stato fatto con il movimento noglobal: ottimo. Non è stato fatto lo stesso sforzo verso la CGIL (perché il partito ha privilegiato nei fatti la presenza nel sindacalismo di base).
I comunisti poi dovrebbero distinguersi per coloro che più di altri difendono il carattere basista di un movimento, si battono per la rotazione, contro il leaderismo, per la democrazia e la trasparenza., ecc. Non è buonismo. Dato che siamo fiduciosi che dalle persone e dalla base possano emergere le posizioni più corrette, allora questa base deve essere messa nella condizione di potersi esprimere senza colli di bottiglia, e senza cetini politici che ne limitino le potenzialità. I movimenti devono esssere palestre per le masse, e non per ceti politici in formazione desiderosi di affermarsi.
Nel partito dovrebbero confrontarsi i compagni che provengono e sono militanti di diversi movimenti sociali, e in ciò sta la ricchezza dei comunisti, o meglio lì dovrebbe stare. Perché all'interno di quell'organizzazione gli attivisti un ambito parziale di movimento trova un senso complessivo, entra in un disegno più ampio. Al partito aderiranno quei militanti di movimento che a un certo punto sentiranno come un pesante limite la parzialità del proprio impegno, sentiranno che il movimento è uno strumento ottimo per ottenere un obiettivo parziale, ma assolutamente insufficiente per cambiare il mondo. Solo in un partito possono trovare posto i militanti più avanzati del movimento noglobal, insieme a quelli dei sindacati, insieme a quelli dei movimenti democratici, delle donne, ecc. Movimenti che sono separati, e che tali rimarranno, anche se possono, e devono, in alcune circostanze allearsi (come avvenuto con la manifestazione del 23).
I comunisti devono distinguersi nei movimenti non per quelli che elargiscono prediche, ma come coloro che portano avanti sino in fondo e lealmente le istanze dei movimenti e aiutano a costruirli e a rafforzarli, in maniera assolutamente disinteressata, i comunisti lottano perché i movimenti siano sempre coerenti con le premesse della propria costituzione. Che cosa c'è al fondo di questo approccio? L'idea che la presenza dei movimenti non solo sia utile alla lotta degli oppressi, ma sia indispensabile.
Se la presenza dei movimenti è utile di per sé, i comunisti devono battersi con fermezza e determinazione perché questi assolvano sino in fondo il proprio ruolo. Non devono cercare di farli diventare altro da ciò che sono. Ad esempio non ci battiamo nei sindacati per farli diventare "comunisti", ma perché questi difendano gli interessi elementari della classe lavoratrice, cioè siano coerenti con la loro natura. Una classe sindacalmente attiva guadagna spazio, visibilità, fiducia in se stessa, e crea oggettivamente le migliori condizioni per la crescita dei comunisti. Del resto, la coscienza sindacale, la volontà cioè del lavoratore di difendere collettivamente posto e salario, costituisce il primo gradino necessario, ma non sufficiente, per una presa di coscienza politica: la comprensione che nella società capitalista la lotta per difendere lavoro e salario non avrà mai fine e che dunque occorre lottare per una società nuova. Da una massa di lavoratori privi di coscienza sindacale non ci si può aspettare in alcun modo una coscienza di carattere politico. Un lavoratore che non sa difendere neppure il proprio salario, non sarà certo pronto alla conquista del potere politico. Dunque i comunisti non devono militare nei sindacati con fini nascosti e clandestini agli occhi dei lavoratori e dovrebbero rifiutarsi di usare le lotte di carattere sindacale o le posizioni nei sindacati per fini di tattica politica, essi lavorano semplicemente perché i sindacati facciano sino in fondo il proprio mestiere e devono distinguersi per coloro che con più abnegazione perseguono questo fine. I comunisti dunque dovrebbero lottare in maniera instancabile perché i sindacati portino avanti in maniera radicale e conseguente i compiti che le masse hanno affidato loro, cioè la difesa degli interessi elementari, che i sindacati stessi la gran parte delle volte disattendono. E su questo piano dobbiamo condurre la nostra polemica nei confronti delle dirigenze dei sindacati di massa.
Movimenti e partiti devono essere reciprocamente autonomi, e i comunisti devono difendere questa autonomia con forza, coerenza e sincerità, anche nei confronti del proprio stesso partito. Se non viene garantita l'autonomia accadrà nei fatti che le basi dei movimenti saranno usate come masse di manovra da gruppi politici. In sostanza la base dei movimenti sarà espropriata della possibilità di decidere da parte di strutture che non ha mai eletto né legittimato. Allo stesso modo e per le stesse ragioni un partito non può essere condizionato da un movimento, perché la base di quel partito ha diritto di decidere e di non essere espropriata in questo diritto da una dirigenza di movimento.