Perché ci sono persone che nelle riunioni non parlano?
Nelle riunioni sindacali, di movimento, politiche assistiamo ad un fenomeno molto comune, tanto comune che nessuno ci fa caso: ci sono tante persone che nelle riunioni non parlano mai nonostante abbiano molte cose da dire. Indaghiamo perché ciò accade e per quale ragione è di importanza strategica superare questo problema. REDS. Febbraio 2001.


Nelle riunioni sindacali, di movimento, politiche assistiamo ad un fenomeno molto comune, tanto comune che nessuno ci fa caso: alcune delle persone presenti parlano, altre no. Solitamente, più la riunione è partecipata e più aumenta la percentuale di coloro che non intervengono. Si tratta di attiviste/i che non hanno nulla da dire? Al contrario. Capita per esempio che, finita la riunione, quelle stesse persone comincino a parlare fitto fitto con chi sono in maggiore confidenza, ne notiamo anche altre che, fuori dalla sede, si impegnano in infervorate discussioni, mentre erano restate in silenzio durante la riunione. Altre ancora telefonano a un'amica o amico per dire le opinioni che non se l'erano sentite di pronunciare durante la riunione.

Perché ci sono tante persone che nelle riunioni non parlano mai e altre che parlano molto poco nonostante abbiano molte cose da dire?

La maggioranza delle militanti e dei militanti è abituata a considerare normale che ciò accada. E non se ne preoccupa. Dirigenti e logorroici (nella nostra sinistra, non a caso, queste due figure coincidono assai spesso) reagiscono con fastidio quando qualcuno fa loro notare la dinamica. Le loro risposte spaziano intorno ai seguenti sbrigativi commenti: "e io che ci posso fare?", "eh, lo so, ma se provo a chiedergli qualcosa poi si imbarazza ed è peggio", "ma questo succede in tutte le riunioni del mondo", "se quella lì non parla è un SUO problema, non mio, che si svegli, perché deve addossare a me la responsabilità?", "ueh, amico, qui la parola non la toglie nessuno, chi vuol parlare parla".

Del resto le stesse persone che non parlano durante le riunioni non spiegano bene la faccenda. In realtà esse sono davvero convinte che sia un loro problema. Se uno domanda loro perché non intervengono rispondono: "lo ha già detto quello, perché devo ripetere due volte la stessa cosa?". Se le/gli si fa notare che almeno una decina di persone non si sono fatte gli stessi scrupoli ribadendo più o meno gli stessi concetti e annoiando tutti, dicono: "beh, allora dovrebbero essere loro a stare zitti". Ma quasi sempre rispondono: " eh, lo so ho sempre avuto questo problema" e poi cambiano discorso. A volte il loro non parlare è pervaso da forti sensi di colpa, il non riuscire a dire produce loro una sorta di vergogna, per questo vediamo spesso le persone che non intervengono offrirsi volontarie per i lavori più ingrati, come per riparare alla loro scarsa partecipazione al dibattito.

Purtroppo mancano studi sociologici sulle dinamiche delle riunioni della sinistra, o almeno non ne siamo a conoscenza. Pensiamo che se ci fossero non sarebbe difficile verificare che la gran parte delle persone che non intervengono in una riunione mista sono donne, in una riunione di giovani e adulti sono i primi a parlare di meno, tra operai e impiegati, questi ultimi battono largamente primi. Difficile dire che accade in una riunione mista di immigrati e italiani, dato che la sinistra italiana è scandalosamente chiusa al loro coinvolgimento, ma dai pochi esempi a nostra disposizione non abbiamo fatto fatica a notare lo stesso fenomeno a danno dell'immigrata/o, con l'aggravante che quando interviene tutte/i stanno silenti perché "parla l'immigrato", salvo poi ignorare bellamente quel che dice e propone.

Gli appartenenti ai soggetti oppressi parlano dunque di meno. La ragione sta fondamentalmente nel fatto che la parola nella nostra società è dominio degli oppressori. Sin da piccoli veniamo addestrati a considerare la parola pubblica un privilegio di chi ha forza e potere. In una classe di bambine e bambini sono i bambini che utilizzano di più la parola pubblica, magari per far casino, la parola delle bambine è clandestina, alla vicina, all'amica del cuore, sommessa. Non si tratta solo della quantità di parole, ma dell'uso autorevole della parola. Gli oppressi infatti parlano, a volte tantissimo, ma in ambienti protetti, e non quando sono a tu per tu con l'oppressore. Nei rapporti tra genitori e figli sono questi ultimi i penalizzati nell'uso della parola autorevole. Sono poche le famiglie dove i genitori hanno la pazienza di ascoltare a tavola ad esempio i problemi dei bambini; a farla da padrone sono sempre i problemi degli adulti. In un ambiente di lavoro sono gli uomini ad occupare lo spazio della parola vicino alla macchina del caffé, parlando dei loro argomenti preferiti, calcio e sesso. Nella scuola sono gli insegnanti ad occupare lo spazio pubblico della parola, perché a scuola bambine/i e ragazze/i hanno la consegna del silenzio: la scuola è un luogo dove si deve ascoltare, e dire solo ripetendo ciò che si è ascoltato. Del resto la parola nei mezzi di comunicazione di massa è concessa solo alle persone considerate autorevoli, quasi sempre maschi adulti e bianchi. Gli editoriali, i giornalisti, gli "esperti", i politici, appartengono in maggioranza a queste categorie.

Va dunque meglio nelle riunioni non miste? Mica tanto, anche perché le oppressioni sono diverse e si intersecano tra loro. In una riunione di sole donne ma con differenze di classe e di istruzione, saranno le operaie con la terza media a starsene in silenzio. Ma comunque, anche in una riunione omogenea, ad esempio un collettivo di giovani universitari maschi e di classe media, o una assemblea sindacale di operaie, anche lì abbiamo notato il riprodursi dello stesso fenomeno (cioé il fatto che solo una minoranza intervenga costantemente), anche se parlano molte persone che in una riunione mista se ne sarebbero state zitte.

Oltre alla condizione di oppressione, dunque dobbiamo annotare tra le cause anche le caratteristiche personali uniche e irripetibili, e che a loro volta sono il frutto dell'oppressione a propria volta subita nel corso dell'esistenza. Ad esempio: tutte/i siamo state/i bambine/i e dunque abbiamo subito un'oppressione del mondo adulto che può aver lasciato segni nella disponibilità a prendersi la parola. Una donna ad esempio può vivere, da adulta, una relazione di parità con il suo compagno, ma se ha vissuto un'infanzia in cui è stata obbligata ad assumere il ruolo di "brava bambina" silenziosa e mansueta pur sentendosi bruciare dentro, forse quella persona potrà trovarsi in difficoltà a parlare in pubblico. Oguno di noi è anche una storia di sopraffazioni piccole e grandi e di messa in atto di sistemi di autodifesa: dall'equilibrio che abbiamo consolidato tra offesa e risposta, dipende in larga misura il nostro comportamento e l'uso che facciamo della parola.

Gli oppressi hanno molte cose da dire, ovviamente, ma la parola pubblica è monopolio degli oppressori. Oppressori sono sul piano della lotta di classe la borghesia, i suoi alleati e le sue rappresentanze, ma sul piano del conflitto di genere sono i maschi, su quello generazionale gli adulti, ecc. E dunque in una riunione di un partito di sinistra che lotta sul piano della lotta di classe, sono sempre presenti in abbondanza persone che sono oppressori su altri piani. Anche un operaio sfruttato, e comunista incrollabile, può essere un fascista nei rapporti con la moglie o i figli. Così in una riunione femminista vi possono essere donne che opprimono su altri piani, se esse sono ricche e magari con la domestica a casa che sbriga le faccende, o bianche.

Per questo dare la parola agli oprressi deve essere una preoccupazione costante delle riunioni di quei gruppi che si muovono contro le oppressioni, o una oppressione specifica. Dare la parola è già di per sé un atto politico rivoluzionario. Da parte degli oppressi del resto prendersi la parola deve essere percepito non solo come un diritto, ma come la chiave per cominciare a lottare per la propria liberazione.

La preoccupazione costante di coloro che appartengono ad una qualche categoria di oppressori e che pensano di stare lottando per migliorare le cose, deve essere proprio cercare di sconfiggere le conseguenze dell'oppressione a cominciare dai luoghi che, almeno in teoria, servono a organizzare questa lotta: partiti di sinistra, sindacati, collettivi, centri sociali, movimenti, reti. Il dovere è creare una atmosfera, delle dinamiche e dei gesti che consentano a chi è in difficoltà di potersi esprimere. Questi ultimi del resto devono compiere ogni sforzo per comprendere la natura politica del fenomeno e dunque attrezzarsi per combatterlo, organizzandosi per rendere possibile la presa della parola.

Dobbiamo fare in modo che le riunioni e le assemblee siano un luogo dove gli oppressi, o i timidi, o le persone riservate e che non sgomitano, non ritrovino le stesse condizioni di divieto pratico alla parola che hanno incontrato in fabbrica, in famiglia, a scuola o semplicemente in qualche momento della loro storia personale.

In che modo possiamo agire?

Nelle riunioni e nelle assemblee, c'é sempre una lotta sull'uso della parola.

Al riguardo non vi sono significative differenze tra socialdemocratici e comunisti, tra sindacati di massa e sindacati di base, tra riunioni di uomini e di donne (anche se queste ultime hanno in alcuni casi sperimentato dinamiche innovative), ecc. In gran parte dei luoghi impera ad esempio l'uso della relazione introduttiva e delle conclusioni, affidate sempre ai soliti noti. Questa sola abitudine porta ad un notevolissimo accaparramento di tempo (che va da un terzo a metà dell'intera durata della riunione). Gli interventi dei pochi (o delle poche) occupano pure molto spazio. Nelle riunioni molto partecipate (ad esempio ai congressi) si verifica la lotta all'ultimo sangue per intervenire a scapito di altri. Inutile dire quali sono i soggetti che di solito in questa lotta hanno la meglio.

Si deve fare in modo, semplicemente, che non vi sia lotta, ma considerare il tempo della riunione una sorta di capitale che deve essere equamente distribuito. Se il gruppo assume come propria consapevole determinazione, assicurare la parola a tutte e tutti, allora l'invenzione di modalità che rendano la decisione possibile non è una perdita di tempo, né deve essere derubricata a "questione organizzativa", ma deve essere parte integrante della lotta contro l'oppressione. La riunione deve divenire per il limitato tempo della sua durata, luogo liberato da ogni genere di oppressione. Se non si assume questa determinazione allora dobbiamo confessare che non puntiamo sulla partecipazione, come tutti i gruppi proclamano sempre, ma sulla delega, vogliamo pavoneggiarci, emergere sugli altri, usiamo la gente come massa di manovra o come strumento per proprie, personali gratificazioni.

In effetti, dietro l'emergere di un leader o di un burocrate o di un logorroico vi sono anche queste componenti, mescolate ad altre più o meno "ideali". Anche inconsciamente una parte notevole di coloro che si impegnano in attività sociali sono in parte e a volte del tutto mosse da interessi, diciamo così, personali. Non nel senso che cercano un posto per rubare, ma semplecemente un luogo dove qualcuno li consideri e li gratifichi. Con queste piccole ambizioni tutte/i le/i militanti dovrebbero fare i conti con molta sincerità dentro se stessi, elaborarle e vedere come uscirne in avanti.

Attenzione a che questa determinazione sia sincera. Abbiamo più volte assistito a scene grottesche dove i capi invitavano perentoriamente a parlare chi non ne aveva alcuna intenzione: si tratta di una inammissibile violenza psicologica, dettata solo dalla voglia di mostrare quanto si è democratici e dimostrare come non vi sia proprio nulla da fare per spingere certa gente ad intervenire. La gente interviene non se è invitata a parlare mentre ci sono mille occhi puntati su di lei, ma quando si sono create le condizioni perché quella persona possa sentirsela di parlare.

Proponiamo ora qualche possibile misura che abbiamo concretamente sperimentato, ma ve ne sono tante altre possibili e tutte da inventare.

Le riunioni circolari. Vedersi in faccia l'un l'altro favorisce la presa della parola. Nelle riunioni e nelle assemblee prevale invece la disposizione tipica della Messa: i sacerdoti davanti, e il pubblico di fronte. Questa disposizione è in sé autoritaria. Gran parte dei circoli del PRC (così come quelle dei DS o dei Verdi o delle organizzazioni a sinistra del PRC) vedono come arredamento principe: la scrivania. Dietro la scrivania siede il segretario (o l'invitato dalla federazione), di fronte i militanti. Così accade nelle assemblee sindacali dove i burocrati o i leader si siedono d fronte ai lavoratori. Così accade anche in gran parte dei movimenti. Così chi deve parlare deve spesso alzarsi e porsi di fronte alla platea, una fatica che solo una minoranza se la sente di affrontare. La cosa migliore è eliminare la scrivania e mettere tutte le sedie a formare un cerchio. Nessuno avrà bisogno di alzarsi per parlare, i capi saranno anche visivamente ridimensionati. Se l'architettura del luogo non lo permette allora alla presidenza è meglio che sieda solo una persona addetta strettamente a prendere l'ordine degli interventi e a limitarne il tempo.

La tecnica del giro. Gli indiani delle Pianure usavano, nella riunione degli anziani, intervenire uno dietro l'altro, in cerchio, passandosi un bastoncino, come simbolo della parola. Quando la dimensione della riunione lo consente, si dovrebbe adottare la stessa tecnica. Su un certo argomento una persona comincia a parlare, poi passa la parola a quello di fianco, e così via, fino alla fine del giro. Tutte e tutti sono inviatate/i a intervenire anche con poche parole. Se uno non se la sente però "salta". Si vedrà che con il passare del tempo, saranno sempre meno coloro che "saltano".

Distribuire il tempo. Qualsiasi tecnica è destinata al fallimento se non si impedisce ai pochi (o alle poche) di accaparrarsi tutto il tempo della riunione. A volte questi personaggi protestano contro questa limitazione (i più arditi tra loro la chiamano "violenza"). In realtà si tratta di veri e propri ladri di tempo altrui. Per ogni intervento che dura molto, ve ne sono altri tre o quattro potenziali che nessuno potrà udire mai. A volte leader e burocrati utilizzano la logorrea come vero e proprio strumento di battaglia politica: puntano a sfibrare gli avversari e a svuotare l'uditorio. Chi fa sindacato può raccontare al riguardo un'ampia aneddotica. Gli interventi (anche quelli interessantissimi, dato che nessuno può stabilire quali essi siano) dunque vanno limitati nel tempo. Il tempo a disposizione va stabilito all'inizio della riunione e deve includere anche una eventuale introduzione o conclusione (altrimenti diventa una distribuzione ineguale e a tutto vantaggio dei capi che sarebbero gli unici a disporre di grande quantitativo di tempo con le loro relazioni iniziali e conclusioni). Questo tempo deve essere ristretto fin dal principio perché se lo si limiterà dopo saranno penalizzati coloro che non si erano precipitati a iscriversi sin dal primo momento e che erano dunque animati in misura minore dal desiderio di fare passerella.

La parola deve essere garantita. Accade molto spesso che in riunioni poco formali il dirigente o altri, interrompano un/una militante, e spesso si tratta delle persone che hanno più difficoltà ad intervenire: sanno in questo modo di non dover pagare un alto prezzo. Nessuno si azzarda ad esempio ad interrompere un dirigente che sta parlando da un'ora annoiando tutti. Le scuse con cui si interrompe il prossimo sono le più varie, da quelle grossolane ("ma che cazzo stai dicendo"), a quelle più sottili ("scusami, volevo precisare solo una cosetta"). Per questo occorre nominare una/un coordinatrice/ore inflessibile ed esclusivamente incaricata/o di far rispettare l'ordine degli interventi, limitarli e garantire la parola. Va da sé poi che l'intero gruppo deve insorgere quando una/un singolo militante è aggredito anche solo verbalmente, indipendentemente dalle idee che questa/o esprime. Ciò a maggior ragione se l'aggressore è maschio, adulto, dirigente e l'aggredito appartiene ad un soggetto sociale oppresso ed è base.

Le informazioni devono precedere la riunione. A volte leader, dirigenti e furbacchioni, nella loro perenne lotta per accaparrarsi la parola si assicurano una posizione dominante e uno spazio maggiore con la scusa di passare informazioni. In questa maniera si rendono utili e dunque simpatici alla platea. Se qualcuno li contesta escamano scandalizzati: "ma coooome: non volete sentire queste importanti informazioni che ho da darvi?" e dalla platea: "ma certo, fatelo parlare!" E così il furbacchione ci fa pure la parte del democratico. In realtà le informazioni devono essere passate prima della riunione. Le riunioni devono servire per discutere e decidere, non per ascoltare. Se non c'é stato tempo di far giungere a tutte/i le informazioni adeguate, allora il personaggio si premunirà di metterle per iscritto, lo scritto, se contiene solo informazioni espresse in maniera asettica, sarà letto a turno da varie persone prima di cominciare la riunione.

Favorire la circolazione di interventi scritti. Si dirà: ma se c'è uno che davvero ha cose importantissime da dire, ecc.? Bene, se ha tali capacità sarà senz'altro in grado di mettere per iscritto quel che pensa. Distribuirà le sue elaborazioni possibilmente prima delle riunioni e lascerà che la riunione sia un momento di reale partecipazione. A nessuno si vuol impedire di esprimere la complessità e la ricchezza del proprio pensiero, ma solo di evitare che nei fatti si impedisca alle altre e agli altri di esercitare lo stesso diritto. La circolazione di contributi scritti può aiutare a tenere insieme queste due esigenze. Si potrebbe controbattere che anche attraverso il dibattito scritto si può esercitare una determinata influenza. E' vero, ma noi non vogliamo affatto impedire che chiunque o qualsiasi idea possa sperare di esercitare influenza, di tentare cioè di convincere. Del resto è ciò che noi stessi speriamo di ottenere avendo scritto questo documento. E' la politica: è solo da un confronto tra idee (e dunque individui che sono portatori di quelle idee) che si può sperare di arrivare a trovare le soluzioni migliori. Ma queste idee e queste persone vanno messe su un piano di parità nei luoghi e nei momenti in cui si assumono le decisioni: le riunioni. Far circolare prima i documenti inoltre ha il vantaggio di dare il tempo giusto di riflessione al partecipante alla successiva riunione. Purtroppo invece la distribuzione di un intervento scritto è in molti ambienti un fatto drammatico, specie se in quel documento si critica qualcuno. E' invece un fatto di democrazia e di partecipazione.

Creare sottogruppi. Se la riunione è troppo grande allora è bene adottare tecniche di divisione in gruppi. Ve ne sono di varie. Riportiamo solo una di quelle da noi sperimentate nei movimenti. Consiste in un primo momento dove si decide che cosa i sottogruppi devono fare e quali sono i loro tempi; dopo aver discusso, i vari sottogruppi relazionano all'assemblea tramite un portavoce che era stato precedentemente incaricato di prendere appunti. La plenaria poi prende gli accordi.

Praticare la separazione. Quelle di cui sopra sono tecniche per gruppi che decidono in piena coscienza di affrontare il problema. Ma le/gli appartenenti ai soggetti sociali oppressi, che, come abbiamo visto, sono le principali vittime del monopolio della parola, non possono limitarsi a chiedere riunioni più democratiche: spesso ne ricaveranno indifferenza o prese in giro. Devono praticare la separazione, dar vita cioè a riunioni separate dove la parola sia assicurata e incoraggiata. Questo vale per i giovani che si trovano a disagio in riunioni con gli adulti, per le donne che non riescono ad influire nelle riunioni miste, per le/gli immigrate/i, ecc. In situazioni più protette sarà più facile a queste persone abituarsi a esercitare il diritto alla parola e addestrarsi alla lotta contro chi ne detiene il monopolio.

Ciò di cui abbiamo parlato in questo documento non deve essere considerato argomento secondario. Chi tiene realmente all'accrescersi delle forze da accumulare nella lotta contro ogni genere di oppressione, non può non considerare il fatto che molta gente si allontana dai nostri gruppi, o semplicemente non vi entra, perché viene a trovarsi in un ambiente che sente confusamente non così diverso da quelli che intendeva combattere. La gran parte delle/dei militanti ha dentro di sé potenzialità inespresse, e spesso queste risiedono proprio nelle persone che nelle riunioni non parlano mai, non per colpa loro, ma perché non viene garantita loro la parola.