Rotazione: tabù
organizzativo di partiti, sindacati, movimenti
Tutte le varie e possibili forme che
ha preso la lotta degli oppressi per la propria liberazione sono caratterizzate
dalla fissità e relativa stabilità dei propri gruppi dirigenti.
Ci sforzeremo in questa sede di dimostrare come ciò si sia rivelato un
terribile limite delle loro battaglie. REDS. Marzo 2001.
Sindacati, partiti di sinistra, movimenti, insomma, tutte le varie e possibili forme che ha preso la lotta degli oppressi per la propria liberazione sono caratterizzate dalla fissità e relativa stabilità dei propri gruppi dirigenti. Il fenomeno è omogeneamente diffuso nelle varie epoche, Paesi, generi, generazioni. La diffusione del fenomeno è tale che gli stessi oppressi non solo sono i primi a considerare inevitabile che ciò accada, ma la gran parte di loro asserisce che ciò è anche giusto, naturale, e metterlo in discussione significa, in ultima analisi, creare un danno notevole alla causa (qualsiasi causa) della liberazione dall'oppressione. Ci sforzeremo in questa sede di dimostrare esattamente il contrario.
I gruppi dirigenti, a seconda delle tradizioni politico-organizzative e della natura dell'aggregazione, assumono varie sembianze.
Innanzitutto vi sono le burocrazie consolidate. A capo dei partiti di massa e dei sindacati di massa troviamo gruppi dirigenti stratificati piramidalmente a costituire una solida cappa di controllo dell'organizzazione. E' gente che è separata dalle condizioni di vita di coloro che si propone di rappresentare: funzionari e distaccati sindacali, funzionari di partito, parlamentari, amministratori di enti locali, manager di cooperative, dirigenti di grandi associazioni e ong stipendiati appositamente per coprire quella funzione, leader di centri sociali che vivono del reddito prodotto dal centro sociale stesso, ecc. A questo livello si parla di vera e propria burocrazia, il ceto che si forma quando un gruppo dirigente dispone di una base sottostante particolarmente numerosa. I burocrati sono persone che acquisiscono interessi materiali separati, distinti e in contraddizione rispetto alla propria base. Essi sono solidali tra loro nello sforzo di rimanere fermamente ancorati alla posizione raggiunta. Il fenomeno della burocrazia lo abbiamo già analizzato (vedi "La burocrazia"): riguarda tutte le grandi aggregazioni dei soggetti sociali oppressi, di qualsiasi orientamento politico. La socialdemocrazia e lo stalinismo sono certamente le due correnti di pensiero che hanno dato forma ideologica alle più mostruose macchine burocratiche. Ma anche esponenti di correnti di pensiero minoritarie (anarchici e trotskisti) quando hanno guadagnato il controllo di organismi di massa non sono sfuggiti al cancro della burocratizzazione.
Prima di arrivare ai burocrati, ci sono semplicemente i dirigenti, gente che dirige qualche organismo, ma senza essere significativamente staccata dalle condizioni di vita della base. Ciò accade ai livelli più bassi delle organizzazioni di massa e ai vertici di quelle minoritarie. Anche questi dirigenti, solitamente, non sono animati da una spasmodica volontà di tornare alla base. Lo notiamo osservando lo scarso ricambio che c'è tra i delegati sindacali, tra i consiglieri comunali, tra i delegati ai congressi, ecc. Ed anche organizzazioni politiche o sindacali piccolissime e rivoluzionarissime hanno i loro piccoli, inamovibili capi.
I piccoli inamovibili capi non li troviamo solo nelle organizzazioni, ma anche nei movimenti. Spesso si tratta di quei movimenti che, sulla carta, sono feroci critici del funzionarismo, dell'istituzionalismo, dell'organizzazione in sé autoritaria: centri sociali, collettivi, coordinamenti, ecc. Nella realtà anche lì vi sono ruoli dirigenti, spesso formalizzati (ad esempio nel ruolo di "portavoce" o di "coordinatore"). Per distinguere un capo inamovibile, dunque, non ci dobbiamo far commuovere dal nome che sceglie per definirsi, ma da quanto tempo ricopre quella funzione senza tornare alla base. Oppure potremmo contare quante volte siede dietro il tavolo di presidenza di una assemblea. Il termine "portavoce" è certo meno sinistro di quello di "segretario generale", ma se il "portavoce" è sempre quello, finiamo per non capir bene la differenza.
Non tutti i capi sono uguali. Il loro stile di comando varia grandemente. I burocrati sindacali sono di solito grigi, assai poco brillanti e scarsamente intelligenti. Posseggono invece spiccate tendenze masochiste dato che non temono mai di affrontare un'assemblea che li insulta: se questo è il prezzo che devono pagare per ascendere nella struttura, lo pagano con sprezzo del pericolo e del ridicolo. In compenso sono abilissimi nel muoversi all'interno della burocrazia, è dalla permanenza all'interno della macchina organizzativa che loro traggono le principali soddisfazioni, e non dagli eventuali applausi di un'assemblea operaia, che invece considerano come controparte. Un leader studentesco o di un sindacato di base invece è particolarmente abile nell'affascinare la massa e nello strappare gli applausi. Il suo potere non è garantito da una struttura burocratica, ma dal fascino carismatico che emana dalla sua infiammata oratoria. Anche le diverse tradizioni politico culturali incidono nei vari stili di comando.
Burocrati, leader e capi godono di una serie di prerogative.
Solitamente, nelle riunioni, essi siedono di fronte alla platea. O, comunque, in una posizione di assoluta evidenza. Ciò è necessario perché la gente si abitui alla loro presenza, finisca per ritenerli indispensabili, li consideri figure rassicuranti e garanti della continuità. In questa posizione, dove la massa li guarda, senza che la massa possa guardarsi reciprocamente (senza cioé che le gente riesca a vedersi in faccia), i dirigenti si assumono vari compiti, che possono essere: tenere la relazione introduttiva e/o le conclusioni e/o coordinare l'assemblea. A volte capi magnanimi e particolarmente furbi mollano quest'ultimo conto a dei subordinati. Di solito la disposizione ambientale delle riunioni prevede l'istituto della "presidenza", dietro alla quale siedono i dirigenti. A volte però la disposizione può essere più informale, come in un'aula di università dove, magari, al tavolo della presidenza, oltre ai dirigenti, possono prendere posto anche altre figure.
Un'altra prerogativa dei dirigenti è il dominio nella gestione della parola. I dirigenti parlano molto, a volte ininterrottamente. Essi si accaparrano enormi spazi di parola grazie appunto al monopolio sulle relazioni introduttive, sulle conclusioni o grazie a interventi fiume. In ciò sono facilitati perché i capi, se sono arrivati ad essere tali, godono del consenso di una corte acritica che segue le loro indicazioni, e che si distingue in generale per una certa supinità, che alcune volte sconfina nella stupidità. La tendenza irresistibile dei capi è ad utilizzare la massa come massa di manovra. I dirigenti, una volta assunta una certa posizione, non ne vogliono più sapere di tornare in basso, e puntano costantemente verso l'alto. Quando sono arrivati in cima, vedono l'ingrandirsi della propria organizzazione in un'ottica tutta particolare: essa corrisponde ad un ingigantirsi del loro proprio ruolo. Per questo i dirigenti tendono al settarismo e cercano di instillare questo veleno anche alla base.
Perché si formano i capi?
Alcuni dirigenti
sono mossi da una motivazione interna, una spinta che fornisce loro considerevole
energia, e che si fonde con le originarie ragioni ideali che li avevano mossi
alla militanza politica. Le motivazioni psicologiche che portano una persona
a desiderare posti dirigenti e a tenerseli stretti una volta conquistati, hanno
a volte molto in comune con quelle che inducono alcuni, nelle aziende, a sgomitare
per farsi spazio a spese del prossimo. Questa spinta all'ascesa sociale nel
caso di movimenti, partiti e sindacati prende la "forma" di una lotta
"ideale", per fini superiori. Molto spesso le lotte tra "cordate"
nascondono battaglie tra vecchi gruppi dirigenti e nuovi gruppi ansiosi di sostituire
i primi, e per giustificare ciò (essendo necessario disporre di una massa
critica da gettare nella mischia) si inventano piattaforme politiche e dissensi
più o meno pretestuosi. Attenzione: non stiamo dicendo che le lotte interne
alle organizzazioni e ai movimenti sono sempre dettate da queste dinamiche,
ma solo che sono presenti anche queste dinamiche.
Della lancinante ambizione che brucia dentro alcuni dirigenti e che contribuisce
a fornire loro considerevoli energie, sono alle volte essi stessi all'oscuro.
Molti di loro, se ne percepissero improvvisamente la portata, si spaventerebbero
e sarebbero seppelliti dai sensi di colpa. Per questo, spesso, anche nel momento
in cui compiono le peggiori nefandezze, essi sono convinti davvero di agire
non per la propria carriera, ma per il bene del movimento o dell'organizzazione.
Quando vengono contestati pensano di non essere compresi e si offendono sul
serio quando qualcuno consiglia loro di tornarsene alla base. In realtà
dentro ogni militante, in diversa misura, c'é insieme alla motivazione
ideale anche un potenziale di frustrazione, che, in presenza di occasioni
di ascesa e di gratificazioni, può prendere il sopravvento e guidare
il proprio pensiero e i propri atti. I dirigenti conoscono molto bene questo
lato debole, e utilizzano mezzi sopraffini per stimolarlo ed avvalersene.
Vi sono naturalmente altre tipologie di dirigente. Certo, moltissimi tra coloro
che finiscono per accettare una delega lo fanno per senso del dovere. La loro
difficoltà a ritornare alla base è a volte dovuta a una genuina
convinzione di essere insostituibili. Nonostante questa motivazione più
"nobile", il dato di fatto è che simili convinzioni, finiscono
per ostacolare l'allargamento della partecipazione.
I dirigenti godono di numerosi vantaggi. Per i burocrati delle organizzazioni di massa sono vantaggi anche materiali: il distacco da un lavoro faticoso e poco gratificante, in molti casi l'accesso a fonti di reddito superiori (pensiamo ai deputati), la possibilità di accedere ad uno stile di vita "alto", fatto di viaggi spesati, alberghi, ristoranti, aerei, ecc. Poi vi sono vantaggi di natura, diciamo così, psicologica. Il piacere che provano molti a dominare, a sentirsi importanti, richiesti, amati, gratificati, l'ebbrezza della gestione di pezzetti di potere, ecc.
Queste cause, diciamo così interne, si combinano a un'altra: la spinta degli oppressi alla delega. Non è vero che gli oppressi delegano solo perché costretti. Non é vero che vogliono partecipare a tutti i costi: tendono a farlo spontaneamente solo in certi periodi, in altri non vedono l'ora di trovare chi risolve al posto loro i problemi. Delegare ha i suoi vantaggi, anche se questi vantaggi sono soffocati da svantaggi ben più pesanti sul lungo periodo. Delegare consente di non assumersi troppe responsabilità, di non perdere troppo tempo e di non pensare troppo. Ce ne accorgiamo quando all'interno di un movimento o organizzazione cominciamo a contestare i dirigenti non per le posizioni politiche, ma solo per il fatto che sono dirigenti e non se ne tornano alla base. I primi a ribellarsi sono proprio i militanti di base. Questi prima cercano di capire se dietro la critica c'è una proposta di direzione alternativa. Ma se si accorgono che l'alternativa è che siano essi stessi a darsi più da fare assumendosi in prima persona i compiti che prima svolgeva da solo il dirigente, allora, affannosamente, tenteranno di giustificare il dirigente e di spiegare perché deve restare al suo posto: perché è più bravo, più capace, se non c'è lui che facciamo, ma lascialo stare che si sbatte tanto, ecc. ecc. I vantaggi sono di varia natura. L'esistenza di dirigenti permette alla base un certo risparmio di tempo. Il fatto che ci sia un capo che "si fa il culo", permette alla base di considerasi a posto con la propria coscienza senza dover fare più di tanto. Se non ci fosse il dirigente ad esempio bisognerebbe partecipare a più riunioni. Si dovrebbe investire inoltre più energia: per gestire più relazioni, per restare più informati, ecc. Un altro vantaggio: il risparmio in termini di stress. I dirigenti sono sempre sicuri di sé e delle proprie capacità, anche se nella maggior parte dei casi a sproposito. Questo implica che sostengono il peso (che è tale solo per la base, perché invece per i dirigenti, solitamente più ambiziosi, costituisce una delle loro maggiori gratificazioni) delle contrattazioni con gli altri, con gli avversari, o con le organizzazioni concorrenti, ecc.
Per quanto riguarda la base, però, gli svantaggi superano i vantaggi immediati. L'esistenza di dirigenti inamovibili crea un'infinità di problemi rispetto alle finalità che il movimento, o partito, o sindacato si propone. Il danno creato dai burocrati e dai dirigenti nella loro lotta per restare abbarbicati alle poltrone lo abbiamo già spiegato nell'apposito documento (La burocrazia) e possiamo riassumerlo nella frase: tendono a difendere i propri separati interessi anche e soprattutto a danno della base.
Ma anche i gruppi dirigenti non burocratici (cioè non staccati dalle condizioni di vita della base) arrecano gravi danni alle aggregazioni in cui si trovano. Dato che identificano l'organizzazione come cosa propria, stimolano il patriottismo di organizzazione e dunque costituiscono il maggior ostacolo all'unificazione e all'unità tra gruppi ideologicamente o socialmente simili. A guardia di questo spirito d'organizzazione mettono una ideologia fossilizzata, perché questa diviene la forma "ideologica" con cui viene vestito il settarismo. Dunque il settarismo, spesso, non è affatto dovuto al sentimento diffuso nella militanza, ma a quello indotto dai gruppi dirigenti. Unificare infatti significherebbe perdere potere, o dimezzarlo, comunque metterlo in discussione, e dunque i dirigenti sono spontaneamente disponibili solo a unificazioni dove essi stessi siano ottimamente ricollocati. Le resistenze all'unificazione del sindacalismo di base sono anche dovute, in molti casi, a resistenze di questa natura, e lo stesso accade per quel che riguarda i sindacati di massa. Non è del resto un problema che affligge solo gli oppressi: spesso resistenze simili stanno dietro alla difficoltà di fondere aziende diverse (si pensi alla lentezza delle fusioni del settore bancario); con una significativa differenza: alla fine i manager sono costretti a cedere a causa della pressione del mercato (o degli azionisti).
L'inamovibilità dei gruppi dirigenti provoca poi la non piena utilizzazione delle risorse di quella certa aggregazione. I dirigenti infatti aiutano nell'ascesa sociale solo quegli individui che assomigliano loro, e questo perché ciò costituisce la migliore garanzia che in questa ascesa non facciano loro le scarpe. Così come avviene nelle aziende o nell'apparato statale, l'ascesa non è assicurata ai più capaci, ma ai più abili nel rapportarsi con una data dirigenza. Lo svantaggio per il gruppo è evidente: l'impoverimento del movimento, l'aumento della stupidità, la diffusione della rozzezza intellettuale.
La volontà di permanenza dei dirigenti è poi la causa diretta della mancanza di democrazia di cui soffrono gran parte dei movimenti e delle organizzazioni. Il timore verso opinioni diverse, è la paura che quelle costituiscano la copertura di nuovi gruppi dirigenti in formazione. La repressione corrisponde al desiderio di indebolire o annientare possibili, futuri, concorrenti. Con lo stalinismo questa preoccupazione, come si sa, ha raggiunto esiti drammatici. In altri casi ha invece esiti più o meno comici. La sostanza, però, per quanto possa apparire strano, è la stessa.
La fissità del quadro dirigente e i comportamenti che ne derivano, sono alla base dell'amarezza e della delusione vissute da milioni di militanti. Un militante riesce a superare una sconfitta della propria organizzazione, ma gli riesce difficile accettare che il dirigente che ammirava, si riveli un meschino arrivista. Questa scoperta porta spesso, a causa del culto della personalità che permea in diversa misura ogni organizzazione o movimento, ad una sorta di perdita di identità, perché si era identificato l'ideale con un gruppo dirigente. Questa perdita è spesso fatale e la vittima diviene irrecuperabile a qualsiasi futuro impegno.
L'inamovibilità dirigenziale è anche alla radice delle difficoltà nel ricambio generazionale, difficoltà che a sua volta ne genera altre: ad esempio il non riuscire a mettersi in contatto con nuove realtà e nuovi pensieri. A volte comunque il discorso del "ricambio generazionale" è impugnato in maniera strumentale da una nuova cordata che si prepara a sostituire la vecchia dirigenza, senza mutarne i metodi: ad esempio è accaduto quando l'ex burocrazia della FGCI ha sostituito la vecchia guardia berlingueriana. Ora che sta ai vertici, naturalmente, non si sogna nemmeno di far largo ai giovani.
Infine il danno più grave. L'esistenza della delega passivizza la militanza, la rende meno critica, meno viva, meno intelligente, meno cosciente, meno informata, più massa di manovra e dunque, alla fin dei conti, meno adatta a divenire protagonista di cambiamenti radicali.
Ma è possibile fare a meno dei dirigenti? No.
L'esistenza di dirigenti è inevitabile. Negarlo significa o condannarsi all'inefficenza o all'ipocrisia. Inefficenza perché nella realtà non è possibile gestire organizzazioni di un certo grado di complessità senza delegare, per coprire funzioni particolari, qualcuno. Un sindacato ad esempio deve disporre di gente che vada sui posti di lavoro a tenere assemblee, un partito deve, se ce la fa, mandare dei deputati in parlamento, vi sono compiti di rappresentanza nei rapporti coi mass media, ecc. E ipocrita perché quando questa necessità esiste i capi sorgono lo stesso anche se negati teoricamente e con l'aggravante che non vengono votati da nessuno.
Dunque: come evitare i lati più negativi dell'esistenza di leader senza rinunciare all'efficienza? Istituendo la rotazione negli incarichi dirigenti e di rappresentanza. Siamo consapevoli che, dato che mina nel profondo la tendenza alla delega, questa misura è impopolare sia presso i lavoratori che non vedono l'ora di delegare, sia presso i capi che sulla delega fondano il proprio potere. La rotazione significa che leader e capi tornano periodicamente alla base.
La prima obiezione che ci siamo sentiti rivolgere è che, con la rotazione, ci si priva delle persone più capaci.
Di solito si immagina che i capi siano il risultato di una sorta di selezione naturale che ha premiato i migliori. Nella realtà, e questo accade anche nelle aziende private, chi ha le idee più brillanti o è più capace, se non è anche abile ad ascendere nella gerarchia interna, non farà mai strada. A volte poi è sufficiente anche quest'ultima qualità, e per questo ci si ritrova con capi particolarmente stupidi, anche se particolarmente abili nel conservare il potere. Gli esempi purtroppo, nella storia del movimento operaio, abbondano. Basti pensare a Stalin. Il fatto ad esempio che i dirigenti dei sindacati di massa siano straordinariamente abili nelle manovre interne, non implica che lo siano altrettanto nella gestione di una vertenza contro i padroni. Altrimenti avremmo stipendi da favola.
Ma poniamo pure che i dirigenti "meritino" davvero i loro posti. A volte è proprio così. Questa non è affatto una buona ragione per tenerceli in eterno. Dovremmo invece fare in modo che nei nostri movimenti il numero dei "capaci" si allarghi sempre più. Anzi, ciò dovrebbe costituire la principale ragion d'essere delle aggregazioni di massa, se davvero queste vogliono essere strumenti di emancipazione. Le nostre organizzazioni e i nostri movimenti dovrebbero essere macchine che fabbricano persone "capaci". Una persona "capace" non è fornita di un particolare codice genetico, altrimenti selezioneremmo le dirigenze in base al loro quoziente di intelligenza. Le persone considerate "capaci" in realtà sono militanti che hanno accumulato molte esperienze. Proprio per aver accumulato queste esperienze sono "capaci". Dunque la chiave sta nella esperienza. Dobbiamo formare persone attraverso le esperienze, e, senza avventurismi, anche esperienze di direzione. Se in un movimento cresce la platea di coloro che sono "capaci", il movimento sarà più ricco, vivace e meno burocratizzato. Quindi più efficace nella sua azione.
Per evitare la perdita di continuità nella direzione, possiamo imporre la rotazione a metà mandato, o dopo un mandato, di metà direzione, ed assicurare in secondo tempo la rotazione della metà rimanente. La distribuzione delle responsabilità inoltre deve essere il più possibile diffusa. E così la circolazione delle informazioni. Si dovrebbero abolire i ruoli che per loro natura indicano un eccesso di accumulo di potere, come quello di "presidente", "portavoce", "segretario". Se un simile incarico divenisse necessario, lo si dovrebbe far ruotare a grande velocità.
E nei movimenti? Qui è molto più difficile perché i capi non si dichiarano tali, e a volte si dicono persino favorevoli alla rotazione, ma poi non la mettono mai in pratica. Dicono: non c'é nessuno che mi vuole sostituire. Certo: se ha tutte le informazioni lui, e se con mezzi più o meno sottili non ha contribuito a distribuire le responsabilità facendo crescere la gente, è ovvio che nessuno se la sentirà di sostituire un simile fenomeno. Quando in un gruppo nessuno vuole assumersi compiti di direzione per sostituire un dirigente, questo è l'indice più certo dell'assetto dirigista e delegante di quel certo gruppo.
Anche le assemblee possono essere gestite in maniera da assicurare la rotazione e tenere sotto controllo il leaderismo tipico di questi momenti: ad esempio ruotando continuamente le persone che si trovano dietro il tavolo della presidenza, e imponendo tempi strettissimi per gli interventi, vietando le relazioni iniziali e le conclusioni, distribuendo prima tutte le informazioni disponibili e non farne uno strumento di monopolio di un dirigente che può così far credere alla sua insostituibilità.
Spesso vi sono militanti che per evitare di sperimentare queste innovazioni si riparano dietro allo statuto della propria organizzazione. Ma se vi è un gruppo locale che vuole sperimentare, cosa impedisce ad un segretario che per forza si deve eleggere, di dimettersi dopo sei mesi? Cosa impedisce di convocare a distanze ravvicinate congressi straordinari? Cosa impedisce di eliminare il tavolo della presidenza?
Un'ultima obiezione che ci siamo sentiti rivolgere: tutte queste misure non impediranno il fatto che vi siano persone che emergono sulle altre. Non siamo affatto contrari a che persone particolarmente versate in qualche campo diano il loro forte contributo (abbiamo anzi la convinzione che tali persone sarebbero più efficacemente utilizzate in una organizzazione non dirigista), ciò che dobbiamo evitare però è che oltre all'influenza che queste persone possono esercitare grazie a queste capacità siano date loro anche cariche di direzione. Se abbiamo un militante particolarmente bravo a fare discorsi, mandiamolo a comiziare, perché lo dobbiamo far diventare anche segretario? Se abbiamo un militante versato nella scrittura, pubblichiamogli pure tutti gli articoli che vuole, ma perché deve divenire anche dirigente? Se uno immagina di avere ottime qualità, nessuno, all'interno di una aggregazione dove regni la rotazione, gli impedirà di esercitare quest'influenza intellettuale grazie alle parole, agli scritti, alle azioni: se esse valgono sul serio saranno bene accolte, ma saranno appunto bene accolte in virtù del loro valore e non per il fatto che esse discendono da un gruppo dirigente su una base passivizzata.
Forse abbiamo troppo bistrattato i dirigenti. Esistono in effetti dirigenti ben intenzionati e desiderosi di mutare la propria prassi. Ad di là delle misure "tecniche" che sopra abbiamo proposto, se costoro sinceramente vorranno cambiare registro dovranno smetterla di porsi come proprio obiettivo quello di ingrandire l'organizzazione o far riuscire quella certa iniziativa: questi devono essere solo mezzi per far crescere altre persone. La misura del loro "successo" lo dovranno misurare rispondendo alla domanda: quanta gente in grado di sostituirmi ho contribuito a formare? Se la risposta è "zero", qualcosa non va.
In ultima analisi
però, se davvero vogliamo introdurre il valore della rotazione,
non è sull'improvvisa illuminazione dei dirigenti che potremo contare,
ma su una crescita della volontà della base di non delegare. Sappiamo
che sarà un cammino lungo, inedito e che ancora deve iniziare. Ma se
vogliamo costruire una società dove gli oppressi comandino, allora sin
da subito dobbiamo condurre una lotta senza quartiere allo spirito di delega.