Essenze.
Un'analisi delle
culture politiche presenti nel PRC e i perché profondi delle sue scissioni.
REDS. Ottobre 1998.
Perché un partito, il nostro, che é nato solo sette anni fa ha già subito tre scissioni? Proveremo a rispondere passando in rassegna, in maniera necessariamente sommaria, le "culture politiche" presenti nel nostro partito. Per cultura politica intendiamo la "lingua politica" con cui si parlano e si intendono i sostenitori di una determinata corrente teorica, indipendentemente dal fatto che stiano alla base o al vertice. Non ci sfugge ovviamente che la collocazione nel partito, come dirigente o semplice militante, influisca pesantemente sulle idee e i comportamenti politici, ma in questa sede non ci soffermeremo su questo punto. Ci avviciniamo infatti ad un congresso che sarà, speriamo, confronto di idee, di strategie, e anche di culture politiche, di lingue diverse. E di questo ci pare più utile parlare.
Essenza del cossuttismo
Cossutta viene da una lunga battaglia ingaggiata a partire dall'inizio degli anni ottanta all'interno del PCI contro il processo di distanziamento dall'URSS cominciato da Berlinguer. Solo in un secondo tempo, nel corso di quella lotta, la sua opposizione si é caricata di altri contenuti (critica al sindacato, ecc.), che sarebbero rimasti sempre, comunque, un po' accessori. Nei dieci anni di opposizione aperta nel PCI, Cossutta ebbe modo di formare una rete di militanti, più o meno clandestina, che costituirà lo scheletro del PRC. Cossutta decise di rompere nel '91, quando il PCI cambiò nome, divenendo PDS.
In questa corrente di pensiero é dunque sempre stata fondamentale la questione dell'identità, separata, a volte in maniera schizofrenica, dalle scelte politiche concrete. In Cossutta le ragioni dell'opposizione prima e della rottura poi con il PCI non vanno cioé ricercate nella moderazione del partito, nel "compromesso storico", nella "politica dei sacrifici", ma nell'allontanamento del PCI da un referente lontano, ideale, staccato e spesso in contraddizione con l'agire quotidiano: l'URSS prima e il "comunismo" poi. Nessun cossuttiano riuscirà mai infatti a declinare in maniera concreta il "comunismo", luogo astratto dove la mente riposa tra un cedimento politico e l'altro, terra così mitica da rendere superfluo l'indicare i cammini per raggiungerla.
Naturalmente il riferimento al "comunismo" per una corrente che é stata accesamente filosovietica é piena di richiami, fatti, personaggi, parole d'ordine, rivolti più al passato che al futuro: il "partito di massa", la "vittoria dell'URSS sul nazifascismo", Stalin visto ora come figura con "luci e ombre", Marx-Engels-Lenin (molti ritratti, poche citazioni e nessun riferimento reale), lo sguardo acritico verso qualsiasi "socialismo reale" (Cuba, Cina, Corea del Nord, Vietnam e... Serbia), ed ora un novello e un po' ridicolo antitrotskismo.
Il cossuttismo affonda le sue radici nel togliattismo, quella particolare cultura politica, variante dello stalinismo, che dall'immediato secondo dopoguerra modellò il PCI in completa rottura con la cultura politica che caratterizzava il partito non solo alla nascita e nella clandestinità, ma anche durante la Resistenza. Togliatti poté compiere quella rottura solo eliminando politicamente gran parte dei quadri precedenti e immettendo nel partito centinaia di migliaia di operai spoliticizzati (il famoso "partito di massa"). Il giovane Cossutta contribuì alla pulizia quando normalizzò negli anni cinquanta la federazione milanese in mano ad Alberganti.
Anche la cultura politica togliattiana vedeva al centro di ogni altra considerazione il Partito, con la P maiuscola, non come strumento provvisorio per il raggiungimento di un fine, ma come fine in sé. Il militante veniva educato a considerare il Partito come una sorta di entità metafisica, paterna, rassicurante, praticamente infallibile, che chiedeva di essere conservata, ingrandita, difesa. Il militante non veniva spinto a divenire un agitatore nei movimenti, ma a dirigere le proprie energie nel rafforzamento del Partito. Di qui la grande importanza data alle feste annuali, feste nelle quali la cucina ha sempre avuto (nel PCI come nel PRC), la parte del leone, nella propaganda elettorale (attacchinaggio e comizi) e nella distribuzione del quotidiano (assente nel PRC per mancanza di militanti).
Togliattismo e cossuttismo concepiscono il partito come un imbuto alla rovescia dove le indicazioni passano dal cannello al vaso senza tornare indietro. Il segretario passa gli ordini alla segreteria, questa alla direzione, e così via fino ad arrivare alle sezioni. Qui si ripete la dinamica: dal segretario al direttivo, da questo alla base. Dal basso verso l'alto non sale niente, se non "segnali", che i dirigenti possono cogliere o meno. Questo meccanismo ha fatto sì che tra i cossuttiani siano pochi i quadri di un certo valore, dotati di una propria autonomia. Nel vecchio PCI infatti (come in molti circoli del PRC) i militanti erano oberati di compiti pratici tesi al rafforzamento del partito e quasi nulla era lasciato alla discussione e alla formazione. Il dissenso era ovviamente poco gradito e, quando si manifestava, immediatamente si alzavano ansiose grida che invocavano la "sintesi". Anche in quest'ultima crisi del nostro partito, non solo ai vertici, ma anche alla base abbiamo trovato tanti compagni che chiedevano la famigerata "sintesi": si tratta in pratica della rapida ricomposizione dei dissidi di fronte alla base attraverso l'uso di un qualche compromesso verbale o una formuletta dal suono evocativo, per celare il dissenso ai militanti e risolverlo ai vertici. La "sintesi" é sempre un meccanismo che chiede ai più di rinunciare a pensare e ad agire con la propria testa, a vantaggio della delega ad un gruppo dirigente "illuminato". Del resto questa cultura politica dà una grande importanza al numero delle tessere, mentre di minore importanza é sapere quante di queste corrispondano a veri militanti. Nei fatti la massa degli iscritti non vengono affatto stimolati a partecipare e ad aumentare e qualificare la propria presenza reale.
La cultura politica cossuttiana é sorprendentemente sorda alle voci e ai fermenti che giungono dalla società. È una sordità simile a quella del vecchio PCI che ha percorso tutti gli anni settanta praticamente estromesso dalle lotte dei giovani, delle donne, degli sfrattati e in alcuni momenti pure da quelle operaie. Quante volte abbiamo sentito un qualche cossuttiano accusare il partito di "farsi dirigere dai centri sociali". In effetti le istanze dei giovani, delle donne, degli immigrati, non hanno alcuna probabilità di farsi largo tra tanto rocciume.
Il cossuttismo, come il togliattismo, vede una coincidenza tra interessi della classe operaia e quelli del "Paese". Si tratta di un vero e proprio nazionalismo di sinistra che lo porta nei momenti critici a schierarsi con gli interessi fondamentali della borghesia, che ha in mano, ovviamente, le leve del "Paese". Così nell'immediato secondo dopoguerra Togliatti ha contribuito a far ritornare i padroni al comando delle fabbriche, perché si doveva "ricostruire il Paese", e allo stesso modo Cossutta era negli anni settanta uno dei più accesi sostenitori del "compromesso storico", che servì a smorzare le spinte degli anni settanta. A questa cultura politica corrisponde cioé un sostanziale moderatismo nelle scelte politiche concrete (sempre giustificata dalla scelta del "meno peggio"), un legalitarismo estenuante (non si sognerebbero mai ad esempio di violare una disposizione di un qualche prefetto, di promuovere blocchi stradali, o altro), un attaccamento alle istituzioni così morboso da costituirne in pratica l'unico ambito di militanza (non stupisce che in questa scissione i cossuttiani si siano portati dietro una percentuale notevole di parlamentari, consiglieri, assessori, ecc.). Nella visione cossuttiana, come in quella togliattiana, non esiste il problema della presa del potere, perché il potere c'é già: é quello delle istituzioni borghesi, da conquistare dal di dentro. Il comunismo poi, non si sa come, verrà.
Essenza del bertinottismo
La cultura politica bertinottiana affonda le sue radici nel pensiero della sinistra socialista del secondo dopoguerra, Lelio Basso prima, poi lo PSIUP. Da quello stesso humus nascono i Quaderni Rossi di Panzieri che tanto influsso avranno nella storia dell'estrema sinistra italiana. Negli anni ottanta sarà Ingrao per il PCI e l'ala movimentista di DP (Russo Spena, Ferrero, ecc.) ad incarnare questa cultura, sostenuti all'esterno dal Manifesto.
Questa cultura politica, che per brevità, ma piuttosto approssimativamente, possiamo definire "movimentista", ama la sociologia, la filosofia, e per nulla la storia, dalla quale si rifiuta di trarre lezioni. Si richiama al Marx filosofico della giovinezza, molto meno a quello del Capitale e per nulla al Marx dirigente politico, apprezza Luxemburg nella sua apologia della spontaneità operaia, salta Lenin e passa a Gramsci, quello dei Quaderni, letterario e filosofico, non quello dell'Ordine Nuovo. Evita cioé tutti i riferimenti teorici che con ruvidezza pongono con forza la questione del partito e della conquista del potere. Il bertinottismo, come l'ingraismo, é attratto da tutto ciò che é radicale e antisistema, ma non fino al punto di essere vincente, duro, organizzato e votato alla presa del potere, cioé alla rottura rivoluzionaria. Questa cultura politica non fa ricorso ad un sistema teorico coeso e stabile, ma di volta in volta ne reinventa uno adeguandolo alla realtà, appiattendovisi. Così un nuovo movimento indica sempre l'emergenza di un "nuovo" soggetto sociale, una nuova crisi ciclica indica sempre una "nuova" reincarnazione del capitalismo. L'adesione alle mode teoriche della sinistra mondiale e ai nuovi magici neologismi é sempre pronta: globalizzazione, toyotismo, postfordismo...
È comunque un merito di questa cultura la grande attenzione verso i cambiamenti del sociale, una forte apertura nei confronti dei movimenti (spesso visti in maniera acritica), una viva curiosità intellettuale. Ma questi atteggiamenti, sicuramente positivi in decenni come questi che hanno visto l'emergere delle lotte nazionali, generazionali, di genere, non sono però inquadrati in una visione coerente, in una strategia politica che veda chiaramente posta la questione del potere.
Non vi é solo da parte di questa cultura un adagiarsi sui movimenti senza essere capaci di immettervi all'interno pezzi di una propria autonoma elaborazione, ma anche una grande difficoltà a costruirli e a promuoverli. Per farlo occorerebbe una cultura di organizzazione, un programma, una strategia, attributi dei quali i "movimentisti" sono assolutamente privi. Per esempio in quest'area oggi va di gran moda il "terzo settore", ma non il movimento delle donne. Forse perché non ci sarebbe bisogno di un forte movimento delle donne? Il problema é che i movimentisti agiscono dove i movimenti esistono e sorgono per conto proprio, ma non saprebbero come fare a costruirne uno da zero, passo dopo passo.
Ne consegue che i portatori di questa cultura politica non danno una grande importanza al partito. Si tratta di una diffidenza verso l'organizzazione in sé. Questa diffidenza riguarda dunque non solo la forma partito, ma anche l'organizzazione degli stessi movimenti (che preferiscono si mantengano allo stato fluido), o correnti. Ingrao nel PCI ad esempio non si é mai preoccupato di creare una propria corrente, nonostante le enormi simpatie di cui godeva, così come i russospeniani in DP. Del resto nemmeno Bertinotti aveva una propria corrente nel PRC ed é solo per merito dei cossuttiani che sono passati dalla sua parte che ora ce l'ha ed é scampato all'offensiva di Cossutta. Questa cultura politica non produce orrendi burocrati pronti a calpestare qualsiasi regola pur di imporre il proprio dominio, ma raffinati leaders con indubbie capacità personali e una certa liberalità e tolleranza delle diversità. La concezione della democrazia interna al partito é "alla socialista", dove c'é libertà di corrente, ma dove le correnti sono sempre cordate intorno ad un gruppo di leaders immutabili, brillanti, dal fluente loquire e dal profilo programmatico confuso. Per fare un esempio: sappiamo tutti cosa é la democrazia d'assemblea: formalmente democratica, ma nei fatti il pallino ce l'hanno i soliti due o tre che "parlano meglio", hanno una rete d'appoggio, ecc.
Questa cultura produce analisi comunque a volte molto dure e condivisibili del sistema capitalista, il problema é che poi non ne fa discendere alcuna conseguenza pratica e nemmeno di prospettiva, se non in maniera assolutamente confusa. Mette in moto meccanismi di critica feroce, che portano in prossimità di un passaggio, un salto da fare, ma arrivati in fretta davanti al precipizio si fermano di colpo, gli occhi piantati verso il basso, incapaci di vedere l'altra sponda. Al radicalismo verbale dunque non segue alcuna pratica conseguente e ciò dà vita a volte a situazioni grottesche in cui brillanti analisi si accoppiano a pessime parole d'ordine, o addirittura alla assenza di parole d'ordine concrete. Sembrano attaccare, ma quando hanno le truppe preferiscono far seguire a sonori squilli di tromba, una prudentissima attesa, quando poco onorevoli ed improvvise ritirate.
Dopo la scissione, verso il congresso
La scissione non ha segnato però una divisione del partito secondo le sue culture. Prima di tutto perché una bella fetta di cossuttiani dichiarati, grazie alla precipitazione con cui Cossutta ha consumato la scissione, é rimasta nel partito. In secondo luogo perché un'altra fetta di compagni che ha votato per Bertinotti e lo sostiene, ha in realtà una cultura cossuttiana. Come si spiega? Perché Cossutta, che aveva il controllo del partito certamente fino a un anno fa, l'ha perso?
Il problema é che le culture politiche viaggiano su un piano per così dire parallelo a quello della realtà materiale. Il loro successo di presa sulla realtà dipende da una singolare coincidenza: l'esistenza e la bontà (o più spesso la "sufficienza") di una cultura politica e le condizioni materiali propizie perché questa sia accettata. Il moderatismo cossuttiano non ha più incontrato il piano di una realtà sociale sempre più insofferente verso il sistema, e che produce una rabbia sociale che non trova espressione politica.
In Italia e in tutta Europa si va delineando un'area elettorale del 10% sostanzialmente antisistema e di sinistra. Non si tratta di consenso a questo o quel partito o a una particolare cultura politica, ma di uno spazio politico che domanda radicalità. In Italia é coperto dal PRC, in Portogallo dal PCP, in Francia cominca ad essere occupato da Lutte Ouvriere e dalla LCR, in Svezia dal Partito della Sinistra, e così via. Si tratta di un'area di insoddisfatti, di incazzati, ai quali interessano ben poco discorsi di "governabilità", "bene del Paese", compatibilità ed altri pizzi e merletti: vuole semplicemente che sia rappresentata politicamente la propria rabbia e il proprio radicale dissenso. In quest'area il PRC stava perdendo ovviamente consensi nelle ultime due amministrative parziali, così come li sta perdendo il PCF a vantaggio della sinistra rivoluzionaria in Francia. Per questo la cultura politica bertinottiana é riuscita, grazie alla sua natura, a "captare" questo sentimento, molto meglio di quella cossuttiana. È riuscita cioé a far coincidere, al momento, i due piani, quello del sistema delle idee e quello della realtà materiale. Ed ha conquistato su questa base anche una fetta di cossuttiani.
La cultura cossuttiana è fuori tempo massimo. L'URSS non c'é più e Cuba é un po' troppo piccola e mal messa per essere un esempio da proporre come seconda patria all'immaginario del militante comunista. Il togliattismo trovava la sua base materiale in una solida burocrazia costituita da decine di migliaia di funzionari di partito, di sindacato, di cooperativa (oltre che di rappresentanti istituzionali). Ma in questi ambiti é il DS ad avere l'assoluta egemonia, perché quella stessa burocrazia ha trovato più logico continuare a fare le stesse cose di prima liberandosi del fardello di un riferimento mitico (il "comunismo") che non aveva mai avuto alcuna attinenza reale con la propria pratica. L'incapacità organica del cossuttismo di costruire o inserirsi nei movimenti gli é letale ora, anche se non lo é stato per il PCI, le cui dimensioni gli permettevano negli anni settanta, senza muoversi, di raccogliere i frutti dell'azione dei gruppi dell'estrema sinistra.
Del resto la cultura bertinottiana é inadatta a fare ciò di cui oggi c'é assolutamente bisogno: costruire un partito che sia in grado a sua volta di costruire dal nulla i movimenti. Di affrontare cioé l'immane compito di trasformare quel 10% da area elettorale in militanza attiva. In Italia 10% vuol dire 4 milioni di persone: ci rendiamo conto del terribile scarto con la realtà militante del partito? Il PRC ha 130.000 iscritti di cui, per ammissione degli stessi dirigenti, solo 10.000 possono essere considerati attivisti. Ecco lo scarto, ecco il compito che abbiamo davanti: 10.000 persone su un potenziale di 4 milioni.
E non é l'unico limite del bertinottismo (appesantito, come abbiamo detto, dal cossuttismo sostanziale del resto del partito, anche dopo la scissione). Il fatto che si sia rimasti due anni a sostenere il governo Prodi é da imputare ad ambedue le culture. Oggi lo stesso Bertinotti parla dell'Euro come di un elemento "sovraordinatore" che avrebbe eterodiretto la politica italiana e contro il quale dunque nulla si poteva. E qui veniamo al nodo.
Vi é una maledizione nella sinistra italiana e che la distingue da tutte le altre sinistre europee. È la sinistra che più di ogni altra ha partecipato a governi insieme a partiti della borghesia. Anche in altri Paesi é accaduto ciò, ma in maniera episodica. In Italia invece é avvenuto sistematicamente: durante i governi coi liberali giolittiani, nell'immediato secondo dopoguerra, poi con il centrosinistra negli anni sessanta, quindi l'unità nazionale degli anni settanta, e ieri il governo Prodi. Di più, vi é come un'organica tendenza a non riuscire nemmeno ad immaginare un governo completamente di sinistra. Perché?
Perché in Italia vi é la più debole borghesia imperialista insieme al più radicale movimento operaio. Non esiste Paese che abbia conosciuto come l'Italia tre crisi prerivoluzionarie in questo secolo, né una radicalizzazione, quella degli anni settanta che ovunque é durata un anno o due e da noi, come spesso ci rammentano i giornali della borghesia, dieci anni. Non esiste Paese imperialista del resto dove la borghesia non abbia dovuto continuamente far ricorso ad altro da sé per portare avanti i propri compiti storici. Ha dovuto far ricorso alla Chiesa, prima del fascimo e per gran parte del secondo dopoguerra per far fronte all'avanzata del movimento operaio, al fascismo per affermarsi tra le potenze imperialiste, ed innumerevoli volte alle burocrazie operaie per far passare misure impopolari, o sedare la conflittualità sociale. Anche questa volta il copione si é ripetuto. La nostra borghesia era incapace di superare un suo problema: quello di essere ammessa nel costituendo nuovo polo imperialista europeo. Non ci riusciva perché il suo stato era appesantito da un debito frutto di decenni di clientelismo democristiano, a sua volta necessario per contenere le spinte del movimento operaio. Per sbloccare quella montagna di debiti ed entrare nell'Euro la borghesia ha dovuto di nuovo far ricorso al soccorso del movimento operaio organizzato (di qui la famosa affermazione di Agnelli: certe "riforme" é meglio che le faccia la sinistra) che, lesto, si é prestato a supplirla. Il nostro partito in questi due anni ha contribuito a questa supplenza. Ora ci danno il benservito. Non é un caso che in occasione della crisi dello scorso ottobre abbiano fatto fuoco e fiamme utilizzando i loro giornali perché restassimo nella maggioranza e quest'anno si siano limitati a qualche ironia: la supplenza l'abbiamo fatta, ce ne possiamo tornare a casa.
Per una forza come la nostra é essenziale una identità forte, cioé una nuova cultura politica, altrimenti saremo sempre subalterni all'altra cultura presente nel movimento operaio: quella socialdemocratica, che é forte e coerente. E che sostanzialmente dice: il capitalismo c'é, esiste, e ci sarà sempre, rendiamolo un po' più umano. Questa impostazione ha un richiamo fortissimo tra i lavoratori nel periodo di riflusso. Essi sono sfiduciati, stanchi, non amano il capitalismo, ma non hanno fiducia in se stessi, nelle proprie forze: su questa passività la socialdemocrazia costruisce le sue fortune. A questa cultura deve esserne contrapposta un'altra, opposta, rivoluzionaria. Il che evidentemente non significa la rivoluzione domani, ma agire in modo da avvicinarci giorno dopo giorno a questo obiettivo. Significa avere in mente la rottura rivoluzionaria anche quando ci si batte per centomilalire di aumento o contro uno sfratto. Avere in testa in ogni momento la rivoluzione vuol dire pensare continuamente a chi sono i nostri avversari e dunque ad avere in testa il loro continuo indebolimento. Se avessimo in mente questo obiettivo, non ci salterebbe nemmeno per l'anticamera del cervello di supplire i borghesi in ciò che non riescono a fare da soli. Se al contrario abbiamo in testa che la rivoluzione é una chimera, avremo paura del vuoto, degli scontri, delle catastrofi, e saremo continuamente paralizzati anche dalla forza e dalla radicalità che la nostra classe sa mostrare nei momenti di ascesa. In questo senso la rivoluzione orienta la politica quotidiana, anche se ci sarà, se ci sarà, tra cento anni. Cossuttismo e bertinottismo con modi diversi si collocano a metà tra questa cultura, la cultura della rivoluzione, e quella socialdemocratica. La ragione profonda delle scissioni del nostro partito é dunque tutta qui. Ed é questa la ragione delle scissioni che in tutta Europa scombussoleranno l'area politica che ambisce a rappresentare il 10% di cui parlavamo, in un'epoca in cui non c'é più l'URSS a nascondere con il binomio moderatismo politico/immaginario radicale il sostanziale vuoto strategico. Se nel partito non emergerà una nuova cultura politica che sappia coniugare la cultura dell'organizzazione con quella della costruzione dei movimenti, un'analisi corretta della realtà con la delineazione di un'ipotesi strategica coerente, altre scissioni seguiranno, in un mondo sull'orlo della recessione, in un'umanità offesa e impotente.