Il PRC, il risultato delle europee e le regionali.
Una analisi della sconfitta elettorale del PRC alle europee del 1999 e a partire da questa riflessione alcuni argomenti che sconsigliano al nostro partito di fare accordi con il centrosinistra alle regionali del 2000. REDS. Ottobre 1999.


Dopo la nostra sconfitta alle elezioni europee, nei circoli del nostro partito, inutile nasconderselo, si respira una certa aria di depressione. Abbiamo coraggiosamente sostenuto la rottura col governo Prodi, la scissione, ecc., abbiamo manifestato un no secco all'intervento imperialista della NATO e tutti noi ci aspettavamo che il nostro partito fosse in qualche modo "ricompensato" alle urne. Molti compagni oggi si domandano: stiamo pagando il prezzo della rottura con il centrosinistra? Aveva forse ragione Cossutta?

Questi dubbi non hanno alcuna ragione di essere. Il nostro partito ha cominciato a declinare fortemente durante il governo Prodi come testimoniano i dati delle elezioni amministrative parziali del '97 e del '98, purtroppo non adeguatamente analizzate dal nostro partito che, all'epoca, tendeva a minimizzare il malessere che produceva il nostro sostegno alle politiche antipopolari di Prodi. Nelle amministrative del '97 nei quindici comuni più importanti andati al voto il PRC passava dal 9,3% al 5,9% (a Roma si passava dai 203.000 voti di un anno prima a 112.000). Nelle amministrative del maggio '98 regitravamo il nostro crollo al sud: A Palermo passavamo dal 7,6% al 4,3%, a Trapani dal 5,6% al 2,7%, nelle provinciali di Catania dal 6,2% al 4,0%, a Trapani dal 8,1% al 3,2% e così via.

I momenti di ascesa elettorale del partito nella nostra storia hanno sempre coinciso con un'immagine di forte "radicalità". Proviamo a dividere la storia del nostro partito in fasi, nei suoi rapporti con l'elettorato. La prima fase va dalla fondazione al 1993 quando la sua stessa nascita creò aspettative e speranze in tanta militanza non solo di provenienza PCI, in mezzo abbiamo il risultato delle politiche del '92: 5,6%. Una seconda fase di "moderazione" ci porta all'accordo "progressista" (PRC+PDS+Verdi+ Rete+partitini borghesi come AD, PSI, ecc.): il risultato elettorale del '94 si assestò sulle percentuali già guadagnate: 6%. Questa fase di passività durò fino al "no a Dini" all'inizio del 1995 (quando per il rifiuto di sostenere quel governo metà dei nostri parlamentari se ne andarono) accompagnato alla lotta contro la "riforma" pensionistica. Risultati: nel '95 il partito balzava all'8,6% nelle provinciali. Le trattative con il centro sinistra e la rinuncia nel dicembre 1995 a buttare fuori Dini, ha segnato l'inizio di una nuova fase di passività. Il risultato delle politiche del '96 è lo stesso che avevamo conseguito l'anno precedente: l'8,6%. Il partito dunque è andato avanti quando ha dato di sé un'immagine forte di oppositore.

MA: se è così, come spiegare che il nostro declino continua anche DOPO che siamo usciti dalla maggioranza e siamo passati all'opposizione? L'anno scorso ci siamo ritrovati a Roma in 150.000 dopo la scissione e abbiamo potuto toccare con mano l'entusiasmo e la partecipazione dei giovani. Tutti noi abbiamo pensato in quell'occasione che la rottura nel partito avremmo potuto recuperarla rapidamente con il ritorno alla nostra "diversità" rispetto agli altri partiti. Inoltre, ancora a gennaio, le indagini demoscopiche, per quello che possono valere, ci davano (quelle del Corriere ad esempio), in pieno recupero: all'8%. Cosa è successo da allora ad oggi che ci ha fatto calare? Certo non sono i folgoranti successi del centro-sinistra: i DS sono anche loro scesi fortemente alle europee con un andamento che ricorda da vicino quel che sta accadendo alla SPD tedesca. È una dinamica europea? Non è plausibile: non ci si potrebbe spiegare il successo della lista di estrema sinistra francese LO-LCR che supera il 5% con un numero di iscritti a queste due organizzazioni che è dieci volte inferiore al nostro. Dunque?

L'interpretazione che proponiamo è la seguente: IL NOSTRO PARTITO NON HA SAPUTO COGLIERE LE POTENZIALITÀ DI SIMPATIA E DI CONSENSO CHE LA NOSTRA ANDATA ALL'OPPOSIZIONE AVREBBE POTUTO PRODURRE. Andiamo a argomentare.

1) Viviamo in un periodo di riflusso che perdura dal 1980, ma che in questi ultimi anni novanta si è particolarmente approfondito. Mai come l'anno scorso ad esempio è stato basso il numero degli scioperi. In una situazione di assenza completa di movimenti il nostro partito non è stato in grado di trovare una campagna, una parola d'ordine che mobilitasse, che ci caratterizzasse. A livello politico il corpo del nostro partito è tutta orientato sulle istituzioni e sulle elezioni, cosa evidente in primavera quando solo una limitata quota di militanti si è impegnata nel movimento antiguerra. A livello sindacale si continua a corteggiare pezzi di burocrazia sindacale, come quella legata alla direzione della FIOM, privilegiando ambiti di ceto sindacale, come il Forum, invece di lanciare un chiaro attacco, percepibile a livello di massa, alla direzione sindacale, anche rischiando il posto dei nostri funzionari.

2) Una campagna c'è stata: quella sacrosanta contro l'intervento imperialista della NATO. Ma la maniera con cui è stata condotta ha dato di noi un'immagine distorta. Siamo apparsi per parole d'ordine, immagine, dichiarazioni, articoli su Liberazione, ecc. appiattiti su Milosevic. Non siamo entrati in sintonia con la massa dei giovani e dei lavoratori. Mentre noi gridavamo un esclusivo no alla NATO senza una parola sul dramma degli albanesi, nei posti di lavoro e nelle scuole avevano grande successo le varie campagne delle ong e dei gruppi di volontariato a favore dei profughi. Le masse erano rintronate dai mass media? No, perché sappiamo che l'intervento NATO non era affatto popolare, ma a livello di massa vi è stato un giusto riflesso di solidarietà verso quel mezzo milione di profughi. Avremmo dovuto affiancare alla parola d'ordine "No all'intervento NATO" anche un altrettanto chiaro "NO a Milosevic e alla sua pulizia etnica". Non possiamo correre il pericolo di vedere confusa la parola "comunista" con gentaglia come Milosevic. Non può esserci sfuggito che le manifestazioni antiNATO hanno visto la sola partecipazione dei militanti del popolo di sinistra, nulla a che fare con le manifestazioni antiguerra del '91 contro la Guerra del Golfo, che avevano visto scendere in piazza una nuova generazione.

3) In una situazione di assenza di movimento, la massa elettorale è orientata dai "segnali" politici che le arrivano. Parliamo oggi di una massa profondamente spoliticizzata, anche se scontenta e confusamente alla ricerca di un "cambiamento". Una massa instabile nelle sue preferenze elettorali (ad esempio i dati elettorali ci dicono come tra il '95 e il '97 sia stato forte tra gli operai il passaggio, in un senso e nell'altro, dei consensi a noi e alla Lega). Il nostro distacco dal governo Prodi è stato segnato da una sequela infinita di messaggi televisivi in cui noi ci dicevamo disponibili ad accordi con il centrosinistra. La massa percepisce, a giusto titolo, questi messaggi come segnali contraddittori: "come, prima escono dalla maggioranza e poi adesso vogliono riaccordarsi? Ma a che gioco stanno giocando?" A questi segnali disorientanti, la massa reagisce, non a giusto titolo, con l'astensionismo o anche con il voto a formazioni che per noi sono opposte, ma che tali non appaiono a tanta gente che non si occupa mai di politica.

4) Il disorientamento è più forte tra le giovanissime generazioni di elettori. Gli studi sui flussi hanno di-mostrato come sia nelle elezioni europee sia nelle amministrative bolognesi abbiano giocato un ruolo preponderante i giovani votando Bonino e Guazzaloca. Nulla di nuovo: in tutte le elezioni a parte quelle degli anni Settanta, i giovani hanno votato più a destra degli adulti. Questo meccanismo può essere ribaltato solo a due condizioni: o con la capacità di bypassare il bombardamento mediatico oppure lanciando segnali che siano percepiti come forti e coerenti da un elettorato, che è fortemente spoliticizzato dato che non è riuscito a cogliere il segno di destra della candidatura Bonino, vedendovi invece la possibilità di un modo diverso di far politica, fatto di gente che si spende in prima persona, ecc.

5) Questo disorientamento non colpisce solo la base elettorale potenziale del PRC, ma anche i suoi militanti. Oggi la depressione è tale per cui anche proposte di campagne giuste come quella della raccolta di firma sulle pensioni, cadono nel vuoto. Anche la base del PRC ha bisogno di certezze, di vedere un partito che fa sul serio opposizione e che non cambia linea ogni sei mesi.

Dunque dobbiamo lanciare segnali chari. Non possiamo fare a livello regionale il ragionamento che rifiutiamo a livello nazionale. A livello nazionale abbiamo rifiutato il ricatto di chi come Cossutta ci diceva: il nemico principale è la destra, dunque mandiamo giù tutto. Noi dicevamo: la destra è anche questo governo che attacca lo stato sociale e prepara il terreno per sconfitte strategiche. E ora perché mai dovremmo cercare l'accordo elettorale con il centrosinistra per le regionali? Neghiamo il nostro voto a Prodi e lo regaliamo a Martinazzoli? Non basta essere all'opposizione, bisogna farla. La precarizzazione delle condizioni di lavoro, l'invasione in ogni ambito di vita della logica di mercato produce una rabbia sociale che ha bisogno di una rappresentanza politica forte, coerente, radicale.