Fu vera svolta?
Il
passaggio del PRC all'opposizione, l'importanza della svolta, la necessità
si sostenerla e rafforzarla. REDS. Novembre 1998.
Il passaggio del PRC all'opposizione ha sorpreso non pochi compagni.
L'abitudine a veder tirare la corda per poi cedere all'ultimo momento era tale, che molti militanti sospettavano che Bertinotti in extremis avrebbe trovato un accordo con Prodi. Vi era anche chi sospettava che alla fine il partito avrebbe detto sì a D'Alema. La svolta però c'é stata.
Il passaggio del PRC all'opposizione é un fatto di enorme rilevanza e che cambia lo scenario politico.
Importanza della svolta
L'uscita del partito dalla maggioranza di centrosinistra che sosteneva il governo e che ha determinato la sua caduta, segna una rottura storica con la tradizione del togliattismo. In effetti quando si diceva che quello Prodi era il primo governo dove la sinistra era al governo, si affermava una grossa sciocchezza. La maggior parte dei governi di questo secolo in Italia è stata costituita da coalizioni tra partiti borghesi e sinistra politica. Ciò che in Italia non si é mai visto invece é un governo senza forze di centro al suo interno. Da questi governi la sinistra non é mai uscita "spontaneamente" per passare all'opposizione.
Al massimo, come nel caso del centro sinistra storico (DC e PSI negli anni '60), ha provocato crisi per ricontrattare le proprie posizioni.
Anche il PCI, nei due casi in cui é stato coinvolto a livello governativo (nell'immediato secondo dopoguerra con propri ministri, e alla fine degli anni settanta entrando nella maggioranza, ma senza ministri), non é mai passato all'opposizione di sua volontà, ma perché il centro politico, soddisfatto dei servizi resi dalla sinistra nel domare la conflittualità sociale (postresistenziale nel primo caso, degli anni settanta nel secondo) gli ha dato un sonoro benservito.
Si badi che i governi dai quali il PCI era stato cacciato avevano offerto motivi ben solidi per sta carsene (ben più solidi di quelli offerti da Prodi): nel dopoguerra il disarmo dei partigiani, la liberazione dei fascisti, il ripristino dei licenziamenti, le decurtazioni salariali, ecc.; alla fine degli anni '70 le leggi liberticide, la moderazione sindacale (EUR), ecc.
Per la prima volta un partito di sinistra lascia un governo e passa all'opposizione senza lasciarsi condizionare dalle classiche parole magiche togliattiane per cui basta il "pericolo di fare il gioco della destra" per giustificare i peggiori cedimenti. In questo senso Cossutta é coerente con la tradizione del "comunismo" italiano. In un Diliberto che si autodefinisce "bolscevico" e che va a ricoprire una carica di un governo che si regge su una gamba di centrodestra (l'UDR di Cossiga) c'é tutta la grottesca doppia faccia di un Togliatti ministro della giustizia che libera i fascisti dalle galere mentre celebra l'URSS come "patria del socialismo". Ovviamente noi di questa "coerenza" facciamo felicemente a meno.
Natura della svolta
Vi é chi afferma che, sostanzialmente, per quel che riguarda il PRC la situazione non é poi cambiata molto. Paradossalmente anche molti dirigenti della maggioranza cercano di minimizzare la portata della rottura: ma come si fa, dicono, a spaccare un partito operaio sulla questione del governo?
In realtà, quella del governo, é stata LA questione centrale del movimento operaio in questo secolo, perché é la trasposizione della questione del potere sul piano della democrazia borghese. Le risposte che si danno su questo piano sono dirimenti, e del resto tali le considerano le grandi masse (altrimenti non andrebbero a votare, come accade negli USA, dove sentono che non c'é contesa reale).
L'andata all'opposizione é dunque un avvenimento che cambia il quadro politico. Ora é ridimensionato il pericolo che la destra possa divenire veicolo dello scontento sociale. Ora i movimenti hanno una sponda. Nel partito stanno tornando molti compagni, che ne erano usciti. Lo sbandamento subito nell'elettorato del partito dopo la rottura con il governo é rientrato non appena si é formato il governo Cossiga-D'Alema, con l'apporto di chi come Cossutta giurava non ci sarebbe mai entrato.
Come sinistra del partito abbiamo chiesto l'andata all'opposizione da più di due anni: ora ciò per cui ci siamo battuti c'é. Ma...
Il gruppo dirigente del partito é atterrito dalle conseguenze delle sue stesse scelte. Erano abituati ad essere tutti i giorni in televisione, ora sono spariti. Erano abituati ai finanziamenti pubblici, ora si sono drasticamente ridotti. Erano abituati a far politica solo nelle istituzioni, ora sono se ne sono andati gli istituzionali. Insomma, se noi siamo felici della svolta, c'é qualcuno dei nostri capi sull'orlo di una crisi di nervi. Lo smarrimento é tanto che si fa di tutto per ridurne la portata. Così l'opposizione diventa "costruttiva", un dittico conosciuto, quello della "opposizione costruttiva", fuoriuscito dalla fiorente fucina terminologica della politica italiana ("convergenze parallele", "riforme di struttura", ecc.) con la sola differenza che i dirigenti di oggi si limitano a riciclare, a volte a sproposito, e nella fretta non si danno neanche la pena di inventare. Inoltre ci si affanna a confermare gli accordi in vista per le amministrative parziali, ci si sbraccia ad assicurare il voto per un presidente democristiano o giù di lì, si adombra la possibilità di una convergenza con il centro sinistra per le prossime elezioni, e via ammorbidendo.
Ma é inutile. I DS non stringeranno mai più un accordo nazionale con il PRC senza una legge elettorale che la imbrigli e la domi.
E poi, e soprattutto, indipendentemente dalla volontà o dai meriti dei dirigenti del partito, il PRC dopo la rottura occupa un posto nell'immaginario popolare da partito dell'estrema sinistra, per quanti salamelecchi facciano al vertice per smentire la suddetta immagine. Il partito é destinato ora, per la sua collocazione oggettiva, indipendentemente dalle parole dei suoi dirigenti, a raccogliere le simpatie degli strati più radicali tra i lavoratori e i giovani. In poche parole la svolta é tattica nella testa e nella volontà del gruppo dirigente, ma é profonda e gravida di conseguenze durature per la sua portata oggettiva. Del resto anche il PRC é nato così: nella volontà soggettiva della gran parte di chi l'ha costituito esso doveva essere niente di più che una riproposizione del vecchio PCI; ma il suo significato oggettivo é stato opposto: di rottura con la tradizione del PCI su molti piani. Fortunatamente la storia non la fanno (solo) le idee dei dirigenti.
Ma questo é anche il problema. Questo gruppo dirigente per la sua cultura politica (più che per interessi materiali, visto che la maggioranza degli istituzionali se ne é andata) non sarà in grado di approfittare nell'enorme spazio che si é aperto nella società ad un partito come il nostro. Come dicevamo nello scorso numero vi é un divario enorme tra il consenso elettorale di cui godiamo e le nostre forze militanti: chiudere la forbice, costruire il radicamento, queste le parole d'ordine, che un gruppo dirigente impaurito, "preoccupato", senza alcuna esperienza e scarse capacità non é in grado di praticare.
Verso il 4° Congresso
C'é chi giurava che Bertinotti non avrebbe mai lasciato la maggioranza.
Era una previsione sbagliata, e chi l'ha fatta dovrebbe meditare sulla propria metodologia di analisi politica. Come spiegavamo nel numero scorso (e dunque non approfondiremo in questa sede) svolte a sinistra non fanno parte della cultura politica del togliattismo, ma certamente della cultura massimalista, di cui Bertinotti é figlio. Il problema di questa cultura non é quello di fare scelte di sinistra (a volte le fa, persino esagerando e sfiorando l'avventurismo, poi magari svolta a destra), ma di non essere conseguente fino in fondo con quelle scelte.
La svolta é esitante: noi dobbiamo renderla profonda e irreversibile.
Che senso ha concorrere ad elezioni locali con le stesse forze con le quali abbiamo rotto? Forse per "fermare le destre"? E perché quell'argomento non ci ha impedito di lasciare la maggioranza?
Opposizione costruttiva? Ciò presuppone la convinzione che questo governo abbia una qualche spinta riformatrice che varrebbe la pena sostenere. E allora perché abbiamo rinunciato ad influenzarla da dentro la maggioranza? Dobbiamo invece mettere in campo un'azione forte contro questo governo e i suoi disegni. Per far questo occorre al prossimo congresso un bilancio serio e impietoso di due anni di sostegno al governo Prodi (e di prezioso aiuto all'emergenza della borghesia, vedi, di nuovo, il numero scorso): senza bilancio non si riuscirà a costruire alcuna seria prospettiva.
Il prossimo congresso deve inoltre divenire l'occasione per spingere al passaggio: dalla predica dell'opposizione alla sua pratica. Abbiamo un partito con un corpo militante che é stato educato a pensare che la politica alta si fa nelle istituzioni e che i circoli devono occuparsi di feste, localismo e patatine. Abbiamo bisogno invece di militanti abituati a pensare che essere comunisti vuol dire essenzialmente stare nei movimenti, essere radicati nei quartieri popolari, nelle scuole, nei posti di lavoro. Abbiamo un partito che pensa di essere di massa, ma in realtà non lo é: siamo diecimila militanti in tutto, é ora che ci si dia delle priorità. Il partito deve costruirsi per campagne che durino mesi e che portino risultati e che vedano impegnati tutti. Abbiamo un partito che ha un sacco di militanti sindacali ma ai quali non é offerta alcuna prospettiva, se non operazioni di piccolo cabotaggio all'interno della CGIL. Abbiamo bisogno di una nuova pratica sindacale.
In vista del prossimo congresso dunque é necessario che la sinistra si presenti con un proprio autonomo documento, separato da quello di maggioranza, cui arrivare, compatibilmente coi tempi tecnici, con un percorso democratico e che veda al suo centro: bilancio di questi due anni, passaggio alla pratica dell'opposizione.