Breve analisi del Congresso PRC.
Novità e persistenze di antichi problemi nella vita del partito impegnato nel congresso. Marzo 2002.


Il Partito della Rifondazione Comunista, in una situazione di crescente effervescenza sociale, vede allargarsi la forbice tra le simpatie che ispira a livello di massa e la sua reale consistenza, progressivamente decrescente dal momento della fondazione in poi.

Possiamo dire che la simpatia che ispira negli individui che si collocano decisamente a sinistra è inversamente proporzionale alla conoscenza che essi hanno del partito. Meno lo conoscono e più lo amano. Cerchiamo di comprendere questo paradosso.

Dal punto di vista delle simpatie che ispira, il PRC è un partito giovane. Lo stanno a testimoniare in maniera inoppugnabile i dati elettorali: il differenziale Camera/Senato vedeva il PRC con un consistente scarto di voti a favore della Camera, segno che era votato da una quota dei giovani sotto i 25 anni (cosa che non accade per esempio ai DS). Una recente ricerca dell'Itanes pubblicata dal Mulino ("Perché ha vinto il centro-destra") sta a testimoniare che proporzionalmente il PRC è il partito con la più alta percentuale di voti in più per la classe di età 18-25 rispetto alla propria media nazionale. I DS prendono il 16,8% tra i votanti tra i 18 e i 24 e il 26,7% tra quelli compresi tra i 45 e i 54, il PRC invece il 9,7% contro il 5,3%.

Rifondazione per molti giovani è una sorta di entità astratta. L'astrattezza di questo partito si è ulteriormente acuita da quando in TV non fanno più parlare Bertinotti. Rifondazione è così identificata con alcuni sostantivi: "radicalità", "protesta", "no-global"… ma certo non con una organizzazione fatta da gente in carne ed ossa.

Quando un giovane entra nella gran parte dei circoli trova una realtà ben diversa da quella che si era immaginato. La radicalità scopre che viene spesso tradotta in una morbosa attenzione alle vicissitudini delle amministrazioni locali. Scopre poi che grandi quantità di energie viene spesa nelle feste e nella preparazione delle campagne elettorali. Se resiste un po' di più, il suddetto giovane si accorgerà che Rifondazione non è neppure un partito vero e proprio, ma una sorta di federazione di correnti impegnate in una furibonda lotta per conquistarsi posti di direzione. Quel giovane non darà alcuna battaglia politica. Si guarderà un po' intorno e poi un bel giorno sparirà, tornando a fare altre cose. Così, il partito è un partito di gente di mezza età, o meglio, dalla mezza età in su. Ma abbiamo visto che è proprio la fascia di età in cui il partito non gode a livello di massa di grandi simpatie.

Il turn over interno al partito è qualcosa di impressionante, secondo nostri calcoli a fronte di circa sessantamila iscritti attuali, è transitato per il partito almeno mezzo milione di persone dalla sua fondazione.

Il problema di fondo di questo partito è che è nato sulle macerie della vecchia sinistra, dopo l'89, ereditandone parte dei vecchi vizi, senza peraltro possedere le strutture che avrebbero permesso di ereditarne almeno in parte anche i (pochi) pregi. La forbice di cui parlavamo ha origine nella distanza tra un discorso radicale (che attrae i giovani), e una pratica quotidiana che spesso non lo è affatto (cosa che non permette di trattenere i giovani).

Come si inseriscono le tesi congressuali in questo contesto? Per una analisi più puntuale delle tesi rimandiamo al nostro "Le tesi alla prova dei temi congressuali".

Le tesi di maggioranza ci pare affrontino positivamente uno dei nodi di fondo per una vera rifondazione comunista: il rapporto coi movimenti (per una trattazione completa vedi "Come i comunisti devono stare nei movimenti"). Le tesi rompono con la tradizione "comunista" (in realtà stalinista) di diffidenza sistematica verso i movimenti (con l'eccezione di quelli che si controllavano) ed affermano innanzitutto: nei movimenti bisogna starci. E senza l'ansia di controllare, ma con spirito di servizio, senza altro fine se non quello di far crescere il movimento stesso. A noi pare un'acquisizione importante. Molto più arretrata è la posizione, nonché la pratica, dei compagni che sostengono le tesi di minoranza (per l'argomentazione vedi l'analisi che sopra abbiamo citato).

Su questo argomento comunque uno dei limiti delle tesi di maggioranza è che il movimento no-global viene caricato di responsabilità che in nessun modo può garantire: esso viene considerato in nuce un "nuovo movimento operaio". Non dovrebbe sfuggire invece che il movimento no-global è solo un pezzo del possibile fronte antiliberista. Un altro, separato, è quello dei lavoratori "classici". Non dobbiamo farci trarre in inganno dall'adesione della FIOM ai vari appuntamenti di movimento: si tratta di una partecipazione in gran parte formale. La massa dei delegati FIOM ad esempio non è affatto dentro questo movimento. E i Cobas rappresentano una porzione assolutamente minoritaria della classe lavoratrice sindacalizzata. Non riconoscere che esiste un piano, quello dei lavoratori "classici", significa anche non assumersi alcun compito di organizzazione e di presenza negli ambiti in cui essi si trovano. Ed è ciò che è avvenuto durante il congresso CGIL dove il PRC ha avuto un ruolo del tutto marginale nella gestione della battaglia politica interna, gestita in gran parte da settori di apparato fuoriusciti dal partito (o mai entrati), pur essendo i delegati di Lavoro e Società, in maggioranza, iscritti a Rifondazione. Il partito paga così il prezzo delle sue continue oscillazioni tra sogni di costituzione di una corrente "comunista" interna alla CGIL e la scelta del sindacalismo di base come interlocutore privilegiato.

Un aspetto delle tesi di maggioranza che pure ci sembra interessante è quello dell'apertura nei confronti delle altre oppressioni sociali, oltre a quella di classe. Il ruolo egemonico che i partiti comunisti assegnavano alla classe operaia si traduceva in pratica nell'egemonia dei funzionari maschi di quei partiti su tutti, classe operaia compresa. Ma anche qui il discorso radicale non si incontra con la pratica. Il PRC rimane un partito nel quale i maschi non hanno alcuna intenzione di cedere quote di potere. Il discorso sulle quote garantite alle donne non serve a risolvere il problema. Anche nel sindacato le quote assicurano solo la cooptazione di determinate donne da parte degli uomini. Sono uomini quelli che decidono le composizioni degli organismi dirigenti, e il dover garantire delle quote alle donne si risolve semplicemente per loro in un grattacapo in più: "ci manca la donna per fare la quota" è diventato un tormentone dei negoziati da corridoio che accompagnano la scelta dei gruppi dirigenti nei partiti e nei sindacati. Per risolvere il problema del "carattere monosessuato del partito", come si usa dire oggi, si dovrebbero prendere misure radicali, come ad esempio far sì che le componenti della quota assegnata alle donne siano scelte dalle donne stesse. Siamo certi che di fronte a una tale proposta i maschi (e qualche donna) leverebbero un gran grido: ma voi volete spaccare il partito! Mentre invece è l'unica misura che permetterebbe di far sì che le donne elette rendessero conto alle donne che le hanno votate e non agli uomini dirigenti della cui cordata fanno parte.

Altri aspetti delle tesi di maggioranza ci convincono assai meno e ne abbiamo già parlato sul numero scorso. Ad esempio riguardo all'analisi che riguarda l'imperialismo siamo più vicini alle minoranze interne.

Non ci sfugge ovviamente che il congresso sarà largamente caratterizzato dalla lotta interna alle tesi di maggioranza, tra i "bertinottiani" (a loro volta composti da varie correnti) e la componente togliattiana legata a Grassi (e forte in alcune parti d'Italia, come l'Emilia, la Sardegna, Milano) e che presenta alcuni emendamenti. Naturalmente avremmo preferito un dibattito più trasparente tra documenti contrapposti, ma questo è appunto uno di quei costumi tipici del nostro partito che è assai arduo cambiare.

La mozione 2 appare indebolita da una pratica, che ha logorato i suoi sostenitori, fatta di battaglie tutte interne all'apparato del PRC. In generale dobbiamo confessare che questi scontri interni, per quanti sforzi facciamo, non riescono ad appassionarci. Siamo arrivati alla conclusione che questo partito lo si cambia non dall'interno, o per lo meno non soltanto dall'interno. Solo se nei movimenti (tutti, non solo quello antiglobal) si riuscirà a formare una nuova generazione di militanti, e questa trovasse nel PRC un terreno di attività e partecipazione, allora questo partito avrebbe una qualche chance di cambiare sul serio.