PRC: nuova linea, vecchi modelli.
Una fase della politica italiana si è chiusa, e con essa anche una fase della vita del PRC. La svolta segnata dal Comitato Politico Nazionale del 28-29 giugno giunge dopo una doppia sconfitta per il partito: il risultato referendario e le elezioni amministrative. La risposta del gruppo dirigente purtroppo va in direzione opposta a quella che la nuova fase richiederebbe, e di seguito argomentiamo questa nostra convinzione e presentiamo i documenti salienti della svolta. REDS. Luglio 2003.



CPN del 28-29 giugno. Sintesi della relazione introduttiva di Fausto Bertinotti
CPN del 28-29 giugno. Documento di maggioranza
CPN del 28-29 giugno. Documento di minoranza (Associazione Progetto Comunista)
CPN del 28-29 giugno. Documento di minoranza (Falce e martello)
DN del 17 giugno. Documento Bertinotti
DN del 17 giugno. Documento Grassi
DN del 17 giugno. Documento Ferrando
Intervista di Menichetti a Bertinotti

Il risultato elettorale e quello referendario

Il risultato delle amministrative del 25 e 26 maggio ha visto un arretramento del Prc. Il risultato delle provinciali segnano, rispetto alle politiche del 2001, un arretramento dello 0,2% e dell'1,1% rispetto alle precedenti provinciali. In termini di voti assoluti si passa dai 240.783 voti delle precedenti provinciali ai 178.051 di queste, passando per i 259.428 delle politiche. Secondo il documento di maggioranza dell'ultimo Cpn, nei comuni al di sopra dei 15.000 abitanti il partito subisce una flessione dell' 1,7% rispetto alle politiche e dello 0,5% rispetto alle precedenti comunali. Per un partito che viaggia sul 5% non è cosa da sottovalutarsi.

Nel partito, dopo un iniziale sconcerto per coprire il quale si esaltava il carattere "progressista" dei risultati elettorali, ha preso piede una interpretazione interessata, veicolata all'inizio dall'area Grassi, da sempre favorevole al riavvicinamento con il centrosinistra. Gianluigi Pegolo (Liberazione del 28 maggio) scrive: "dove ci presentiamo in coalizione otteniamo una crescita rispetto alle precedenti amministrative o quantomeno teniamo elettoralmente, dove ci presentiamo da soli spesso subiamo una flessione." Poi questa analisi è stata fatta propria dall'intera maggioranza, e Bertinotti nella sua relazione introduttiva al CPN del 28-29 giugno afferma: "Si è registrata una difficoltà anche perché la logica del sistema elettorale maggioritario ha 'lavorato' nella mente delle persone ed ha determinato nuovi atteggiamenti. In conseguenza di ciò, dove siamo andati da soli - anche quando la responsabilità era tutt'altro che nostra - abbiamo subito dei pesanti ridimensionamenti." Dato che questa interpretazione errata rischia di divenire luogo comune nel partito, riportiamo qui sotto i dati, segnalando con campi più scuri i risultati degli enti dove il Prc concorreva da solo.

 
comunali (capoluoghi)
provinciali
regionali
  differenza con politiche 2001 (%) differenza con comunali precedenti (%)   differenza con politiche 2001 (%) differenza con comunali precedenti (%)   differenza con politiche 2001 (%) differenza con comunali precedenti (%)
Brescia -1,9 -0,5 Massa Carrara -0,6 -2,8 Friuli Venezia Giulia + 0,5 -1,7
Massa -4,4 -1,3 Agrigento -1,7 -2,4      
Pisa -1,6 -0,9 Benevento -1,1 -0,5      
Udine -0,5 -0,6 Caltanisetta -1,2 -5,9      
Messina -0,7 +0,2 Catania 0 -1,1      
Pescara -0,2 +1,5 Enna -0,4 -1,8      
Ragusa -0,2 -4,4 Foggia -0,6 0      
Sondrio +5,3 +5,3 Messina -0,1 -0,5      
Treviso -0,5 (coi verdi)   Palermo +0,2 -0,3      
Vicenza -1,2 0 Roma +0,8 -1      
      Siracusa -1,2 -2,2      
      Trapani -1,5 -1,5      

Come si può facilmente notare, è vero che il Prc arretra in quelle poche situazioni dove si presenta da solo, ma, salvo poche eccezioni, perde anche nelle altre. Su 6 capoluoghi di provincia dove si presenta in coalizione arretra in cinque, su 11 province in cui si presenta in coalizione guadagna in due. Si tenga presente inoltre che i pochi luoghi dove il Prc avanza insieme alla coalizione lo fa con percentuali assai risicate (come si fa a definire, come il CPN, che lo 0,5% in più del Friuli Venezia Giulia è una "crescita significativa"?). E in ogni caso non vi è alcun ente, salvo Sondrio, in cui il partito recupera rispetto alle precedenti amministrative. Non si può negare che in queste amministrative vi sia stata una forte pressione degli organismi dirigenti del partito a non presentarsi da soli. Dove non si sono conclusi accordi, lo si deve alla volontà del centrosinistra di andare da solo alle urne. Ciò non può non aver pesato negativamente sul nostro elettorato, persuaso dal nostro stesso atteggiamento che l'unica soluzione era rafforzare il centrosinistra. Non ha un grande appeal un partito che dice: la strada è quella di stare con voi, ma voi non ci volete. C'è gente che magari si dispiace, ma che poi vota secondo la strada che noi stessi abbiamo implicitamente indicato come l'unica per battere le destre. Sappiamo che sarebbe assai forzato affermare che è stata punita la linea di accordi locali con il centrosinistra, ma anche ricavare da questi risultati la considerazione opposta ci pare paradossale: nella gran parte dei casi abbiamo concluso accordi o cercato sino all'ultimo accordi con il centrosinistra, e il partito è arretrato. Questi sono i fatti.

Le elezioni hanno segnato invece un risultato molto favorevole per i DS. Alcuni nel partito forniscono di questo fenomeno una spiegazione abbastanza sofisticata, con qualche aspetto di verità ma sostanzialmente consolatoria, quella secondo cui i movimenti fanno sentire il loro peso a livello elettorale qualche tempo dopo il loro sorgere, come accaduto nel '68 (i cui effetti sulle percentuali dei partiti di sinistra si sono fatti sentire solo a partire dal '75). Vero, ma solo in parte. La radicalizzazione del '68 era in larga misura giovanile, ma oggi non è così: la radicalizzazione del movimento sindacale riguarda gente dai 30 anni in su con larghe esperienze politiche alle spalle e quello contro la guerra abbraccia varie generazioni.

Ben pochi militanti di Rifondazione comunque si consolano con queste considerazioni, essi in sostanza dicono: dopo due anni di lotte senza precedenti in Italia accade che l'unico partito che le ha appoggiate arretra, perché? Di questo sconcerto si trova traccia anche nel documento di maggioranza:

"Il punto più problematico sta tuttavia nella evidente disparità fra questi risultati e l'impegno, davvero eccezionale, che il partito ha profuso nel corso dell'ultima fase sul piano dei movimenti. Ciò vale per i no global, per il sostegno alla battaglia della Fiom, per l'impegno contro la guerra, come per l'iniziativa sull'articolo 18. La discrepanza fra questo impegno del partito e i risultati ottenuti resta significativa, specie se si considera che contemporaneamente i maggiori benefici dal punto di vista elettorale (specie nelle provinciali e regionali) vanno alle forze della sinistra moderata".

Alla delusione elettorale si è anche aggiunta la mazzata dei risultati referendari. Nei circoli, e in molti organismi dirigenti, abbondano discorsi tipo: "io lo sapevo che non si poteva vincere". Facciamo fatica a trovare gente che confessi invece che "ci credeva". Chi lo fa è preso ormai per un povero scemo. Francamente non comprendiamo: si sapeva già che avremmo perso? Se è così abbiamo dirigenti irresponsabili e militanti pecoroni: una battaglia di questo genere non andava fatta se si era sin dal principio convinti di perderla, perché quella sconfitta ha profondamente minato il morale del partito e dato più spago alla Confindustria.

Perché il PRC non è andato avanti?

La risposta va cercata ovviamente nella percezione che a livello di massa si ha del nostro partito. Questa percezione è dettata sostanzialmente da due fattori: linea politica e azione politica. La linea è quella che determina ad esempio la nostra posizione di fronte al governo, alle altre forze politiche e alle alleanze, l'azione è come il partito si muove nella sua quotidianità, nei rapporti ad esempio coi movimenti e con i sindacati. L'elettore "pesa" queste due variabili, confrontandole coi suoi bisogni e le sue aspettative, e vota. Ricercando le ragioni della sconfitta, ogni corrente del Prc dà ovviamente la sua interpretazione e la sua ricetta, sia sul piano della linea che dell'azione quotidiana, piegando i fatti alla propria tradizione politico culturale. Ora le esamineremo, anticipando già che, come al solito, non siamo d'accordo con nessuna di esse.

La linea politica

La maggioranza, nelle sue varie componenti, ha deciso di svoltare decisamente verso il centrosinistra, e di porre fine alla fase di forte contrapposizione che perdurava in buona sostanza dalla rottura con Prodi. Pur con mille contraddizioni, la linea ufficiale del partito era quella di "rompere la gabbia del centrosinistra", liberandone la componente di sinistra. La corrente che fa capo a Grassi e alla rivista L'Ernesto è stata piuttosto seccata per l'essere stata tagliata fuori a livello decisionale da una svolta che essa chiedeva da tempo, e questo malumore s'è espresso in un documento separato da quello di Bertinotti in Direzione Nazionale, poi le due parti sono convenute in un unico documento nel successivo Comitato Politico Nazionale. La convergenza a noi pare naturale, poiché in effetti la svolta va nella direzione auspicata da Grassi. Mentre però per Grassi l'accordo con il centrosinistra è una sorta di fine in sé che non occorre neppure giustificare (perché sarebbe l'unico mezzo per "battere le destre"), Bertinotti, autore riconosciuto dello strappo con Prodi, ha avuto bisogno di qualche argomentazione in più per spiegare tale svolta.

Queste argomentazioni, più che nei documenti "di maggioranza", mediati spesso con sottocomponenti interne che sul punto dissentono, le si ritrova nelle numerose interviste rilasciate da Bertinotti prima, durante e dopo le riunioni della Direzione Nazionale e del Comitato Politico Nazionale. Tra le tante ci pare significativa quella rilasciata a Stefano Menichetti il 26 giugno:

"Domanda: Scusi Bertinotti, ma per arrivare a ipotizzare questo percorso vuol dire che qualcosa è cambiato. Nella vostra analisi, fino a ieri, il centrosinistra riformista era più o meno la variabile civile del neoliberismo della destra.
Risposta:
E’ vero. Era questo, e si dava come compito di temperare il governo della guerra dell’Impero e di stemperare – come sono riusciti a fare – qualsiasi conflitto sociale. E’ stato così dai Balcani all’Afghanistan. Guardando agli anni trascorsi mi pare difficile contestare questa nostra analisi. Ma innanzi tutto adesso ci stanno ripensando loro. Stanno ripensando a una fase per loro vincente, nella quale però scommettevano sulla propria capacità di dare alla globalizzazione un segno progressista. Massimo D’Alema è colui che più di ogni altro in Italia ha impersonificato questa linea, non solo con la guerra ma anche aprendo con la Cgil lo scontro sulla flessibilità. Ora leggo quello che scrive e dice: ci sta ripensando."

Non ci siamo. Il centrosinistra ha subito un anno e mezzo di sconquassi. Ma quella fase, ora, è finita (vedi Ascesa e caduta di Cofferati): il ritiro di Cofferati, la crisi dei movimenti e il successo elettorale dei Ds, hanno riportato in sella, saldamente, Fassino e D'Alema, e la perentorietà della loro vittoria è tale che non hanno dovuto pagare alcun prezzo nè in termini di spazi politici e nemmeno di linea politica. Che rimane assolutamente identica a se stessa: versione nemmeno tanto temperata del neoliberismo. Non solo sul piano del sociale (basti pensare al loro atteggiamento nei confronti del referendum sull'art.18), ma anche sul piano squisitamente "democratico": Fassino era assolutamente favorevole alla tregua con Berlusconi in occasione del semestre italiano alla presidenza della UE (vedi intervista al Corriere della Sera del 30 giugno), ma è stata la stessa destra a respingere l'offerta. Quel che restava della polarizzazione prodotta dal tentativo di Cofferati di disarcionare Fassino/D'Alema è ormai in rotta: il correntone è in crisi, il gruppo dirigente Cgil chiede a Fassino di garantirlo, Verdi e PdCI son tornati all'ovile. Ci troviamo di fronte, purtroppo, ad un centrosinistra ristabilizzato. Ci pare incredibile che come unico elemento di analisi portato ad accreditare un cambiamento nel centrosinistra (dopo il ruolo che questo ha esercitato nel far fallire il quorum!) Bertinotti porti una frase ambigua lasciata cadere come tante dal furbo D'Alema (vedi appunto l'intervista realizzata da Stefano Menichetti). In questi due anni il gruppo dirigente diessino ha avuto come unica preoccupazione non lasciare margini a Cofferati, incamerando il consenso che questi portava alle casse elettorali del centrosinistra ma impedendogli di contare alcunché nello stesso. Il giochetto è loro riuscito, Cofferati è sconfitto, ma non vediamo motivi di allegria per il Prc.

Si apre invece una possibilità per noi, di segno ben diverso: Cofferati ha lasciato un vuoto politico enorme alla sinistra di D'Alema/Fassino. Noi dobbiamo puntare ad occuparlo. Ma si tratta di uno spazio politico in dura polemica con il gruppo dirigente diessino, non certo di valorizzazione dei "ripensamenti" dalemiani, non certo di accordi di vertice prefigurati senza chiedere nemmeno in cambio punti programmatici irrinunciabili. Sparito Cofferati, avendo rinunciato il Prc al suo ruolo di critica costante al centrosinistra, chi svolgerà mai questo ruolo? Certo non ci sarà da meravigliarsi se i Ds, elettoralmente, continueranno a crescere. E' proprio ora, ora che non c'è più Cofferati, che il Prc deve ambire a svolgere quella che è stata la funzione del cofferatismo, ma sarà impossibile se si "chiude" un accordo elettorale con tre anni di anticipo rispetto a quanto sarebbe necessario.

E' vero che c'è una spinta forte, dal popolo di sinistra, all'unità contro la destra. C'è una tendenza, visti gli scarsi risultati delle lotte, a spostare sul piano politico la lotta contro Berlusconi. Questa spinta è ignorata dal documento di minoranza dell'Associazione Progetto Comunista (sia nel documento presentato in DN sia nel documento presentato al CPN), che non riesce a spiegare, nè ci prova, perché dalle ultime elezioni sono i DS ad essere usciti vincitori. E c'è una sola spiegazione possibile: essi sono apparsi come il partito più "utile" a battere Berlusconi, perché più grandi, perché legati alla Cgil, ecc. Il Prc riuscirà a crescere solo se saprà dare delle risposte su quel piano, quello della lotta a Berlusconi, e a partire da quel piano scontrarsi con il gruppo dirigente diessino, assolutamente inadatto a condurre una lotta senza quartiere alla destra. E' esattamente il ruolo che ha svolto il cofferatismo: esso polemizzava con D'Alema/Fassino perchè non conducevano con sufficiente energia e determinazione la battaglia contro Berlusconi. Ed esattamente questa deve divenire la nostra immagine a livello di massa: quella dei più fieri combattenti della destra, e, appunto per questo, polemici verso la dirigenza diessina.

Sia Bertinotti che Ferrando fanno riferimento a due esempi perdenti in America Latina: Lula (Brasile) e il Partito Obrero (Argentina). Bertinotti vorrebbe un Lula anche in Italia, eppure oggi Lula sta applicando in Brasile una politica neoliberale che ha messo in crisi il suo stesso partito: è il risultato che si ottiene quando per battere le destre si ignorano i contenuti. L'Associazione Progetto Comunista è legata al Partido Obrero, il partito della sinistra argentina con il più alto numero di militanti, ma che proprio a causa della sua politica settaria, non è riuscito nemmeno ad arrivare all'1% nelle ultime elezioni (in una fase poi di fortissima radicalizzazione sociale), che è il destino del Prc se si seguisse la linea Ferrando: ignorare la volontà unitaria delle masse, puntare solo a crescere su se stessi.

Il Prc dovrebbe ambire a prendere la testa della lotta contro Berlusconi e attraverso questa strada esasperare le contraddizioni interne al centrosinistra in modo da spaccarlo e staccarne la sinistra. Sarebbe sbagliato un atteggiamento di sufficienza, alla D'Alema, verso l'antiberlusconismo viscerale (come quello dei girotondini, ecc.). Dobbiamo invece cavalcare l'ira antiberlusconiana perchè essa è l'espressione a livello elementare del passaggio, non ancora avvenuto ma potenziale, dal terreno delle lotte parziali a quello della lotta politica, per masse frustrate dal non conseguimento di risultati concreti.

Per questo il Prc dovrebbe agitare già da ora la parola d'ordine delle elezioni anticipate. Non poteva farlo prima, perché il popolo italiano si era chiaramente espresso nel 2001. Ma i risultati delle amministrative hanno dimostrato che Berlusconi è oggi minoranza nel Paese: indipendentemente dagli schieramenti elettorali che si formeranno, il Prc deve chiedere che il popolo si esprima di nuovo, subito. Così verrà incontro all'ansia di cambiamento e alla frustrazione di massa, politicizzandola e dandole uno sbocco possibile.

A che è servito lanciare a livello di massa il messaggio che l'accordo tra Prc e centrosinistra è cosa fatta? Solo a contribuire alla stabilizzazione del centrosinistra e a mettere il partito nel congelatore per i prossimi tre anni: non abbiamo più alcuno strumento di pressione sul centrosinistra, visto che è tramontata anche la possibilità di esercitare la minaccia di presentarci da soli. Ci siamo legati mani e piedi. E per di più gratis. Il Prc avrebbe dovuto individuare alcuni punti molto semplici, popolari e in grado di separare il centrosinistra dalla sua base elettorale e spaccarlo al suo interno: il rispetto rigoroso dell'art.11 ad esempio con il rifiuto di finanziare i soldati in Iraq e Afghanistan, l'impegno pubblico ad annullare tutte le riforme berlusconiane una volta vinte le elezioni, ecc. E porre questi punti come condizione per una qualsiasi ripresa di dialogo. Si è preferito invece il riavvicinamento senza aver ottenuto nemmeno una concessione sul piano programmatico.

L'azione politica

La corrente che fa a capo a Grassi, l'Associazione Progetto Comunista e Falce e Martello hanno colto al volo l'occasione offerta dalla sconfitta elettorale per attaccare la linea bertinottiana di apertura ai movimenti. Il discorso, assai simile, è in estrema sintesi: due anni di "movimentismo" non hanno fruttato nulla in termini elettorali. I documenti bertinottiani riconoscono che il movimento non ha portato voti, che presenta seri limiti di radicamento ed una certa distanza dalle tematiche del lavoro. La soluzione che propone Grassi può essere riassunta nella formula "più partito meno movimento", erede della vecchia tradizione del Pci vorrebbe vedere i propri militanti più che altro impegnanti in attività di "bandiera". In pratica ci si propone un destino da PCdI. Le due minoranze interne (Progetto Comunista e Falce e Martello) invece ritengono che nel movimento ci si debba stare esercitando un ruolo di "direzione politica". Bertinotti infine lancia un appello ad una non ben precisata riforma del partito.

Da che cosa è costituito il "movimento"? Da una serie di tantissime particelle, che si riuniscono e si allontanano a seconda del momento. Bene o male chi ha partecipato al movimento è perché ha alle spalle una sia pur limitata frequentazione di una di queste "particelle" (collettivo, centro sociale, associazione, sindacato, ecc.). Non si può pensare di esercitare un peso in questo movimento senza essere costruttori dal basso di queste "particelle". Chiedere come fanno le minoranze interne di esercitare "direzione politica" nel movimento non significa nulla: si può ambire ad essere direzione di qualcosa che si costruisce dal basso, altrimenti ci si limita a vendere il proprio giornalino fuori dalle assemblee che decidono dove il movimento deve andare, che è poi l'azione che nei fatti è stata svolta da Progetto Comunista e Falce e Martello, due organizzazioni più ininfluenti, nel movimento, del più scassato tra i social forum. Quanto alla maggioranza del Prc, molti suoi esponenti (o compagni assai prossimi) hanno effettivamente esercitato ruoli di direzione, ma ognuno curandosi la sua particolare "componente" di movimento e non dando quindi risposte a quella che era una esigenza dell'intero movimento: quella di trovare spazi liberati dalle lotte di leadership e dedicate alla ricerca e alla costruzione di un terreno di crescita comune. Oggi le varie strutture nazionali sono tutte in crisi e la gran parte dei militanti di base è delusa e se ne è tornata alla sua "particella" d'origine e si tiene alla larga da qualsiasi ambito "largo". Molti circoli del Prc sono stati spinti dal partito ad essere nel movimento in quanto partito, invece di motivare i militanti ad essere costruttori dal basso di associazioni, nodi, ecc. Una scelta che ha prodotto solo diffidenza verso il Prc, che ha seminato confusione sul rapporto che dovrebbe esistere tra partiti e movimenti, e che, soprattutto, non ha prodotto alcun risultato, da nessun punto di vista.

Lo stesso metodo è stato seguito nella costruzione di gran parte dei Comitati per il Sì: si dovevano dare chiare indicazioni ai compagni di costruire i comitati coinvolgendo le Rsu e tenendo il partito in seconda linea. Oggi si favoleggia di coordinare la rete dei Comitati per il Sì fingendo di ignorare che in realtà gran parte di questi sono circoli di partito un po' più allargati.

La situazione nella Cgil è ancor più disastrosa. Lavoro e Società, la corrente di "opposizione" in Cgil è dominata da un gruppo di sindacalisti ostile nei confronti del Prc. Il partito non è in alcun modo in grado di dare indicazioni di lavoro sindacale: si dovrebbe dire ad esempio con estrema chiarezza che oggi la priorità è la Cgil e creare le condizioni più favorevoli per il rientro in Cgil di tutta una serie di quadri che oggi sono impegnati nel sindacalismo di base. Ma questo non può dirlo nè la maggioranza nè la minoranza del partito, perché tutte e due si reggono anche sul sostegno di compagni che militano nel sindacalismo di base. La maggioranza del Prc non può condurre una battaglia chiara contro il gruppetto dirigente di Lavoro e Società perché timorosa di tagliarsi i ponti con altri settori che la sostengono. E così, un partito che parla di lavoro ogni due per tre non è in grado di esercitare alcuna influenza sindacale. Come si fa allora a dire che si devono sperimentare "nuove forme" di aggregazione, quando non riusciamo nemmeno a essere presenti nelle vecchie? Come si fa a dire che si devono costruire nuove case del popolo, quando non riusciamo nemmeno a coordinare il lavoro in Cgil?

E', il nostro, un partito dalla fragilità crescente, senza una precisa identità, e questo, confusamente, è percepito a livello di massa. E ne paghiamo i prezzi elettorali.

Nonostante le critiche non pensiamo che oggi la priorità sia dedicarsi a chissà che battaglie politiche dentro il partito. Noi pensiamo già da un po' che questo partito potrà cambiare e migliorare solo se dal basso si potranno costruire "esempi positivi" di una maniera efficace e nuova di costruire il partito. Solo in questo ci sentiamo impegnati.