La legge elettorale e i comunisti
Questo articolo è stato scritto il 7 ottobre scorso, prima del varo della riforma elettorale. Scusandoci per il ritardo col compagno che l’ha scritto, lo pubblichiamo comunque poichè mette in chiaro quale deve essere il punto di vista dei comunisti rispetto le questioni che riguardano il funzionamento dello stato borghese. Di Mario Gangarossa. Ottobre 2005.



La legge elettorale ritorna ad essere, in quest’ultima fase di fine legislatura, occasione di scontro fra i poli. Scontro, a dire il vero, dai contorni quasi surreali in cui l’elettore medio rischia di comprendere ben poco, spiazzato dalle giravolte di chi, ieri, “maggioritario” convinto si riscopre, oggi, “proporzionalista” ancora più convinto.
O dai “pentimenti” di chi, fino a qualche ora fa, giurava la sua fede in una legge proporzionale senza se e senza ma (magari sul modello tedesco) e che ora sottolinea i tanti se e i tanti ma che lo spingono a difendere lo stato di fatto esistente, alla coda dell’ulivo prodiano-diessino che della “governabilità” e delle logiche maggioritarie è stato precursore convinto (chi non ricorda la notte del 1993 in cui insieme Occhetto, Fini e Mariotto Segni brindarono a un nefasto referendum che massacrava la legge elettorale uscita dalla costituzione repubblicana del ’47?).

E’ ovvio che, per la destra, il progetto “proporzionalista” (al di la dei meccanismi e dei cavilli costruiti opportunamente per creare difficoltà all’opposto schieramento) nasce dalla convinzione di una sconfitta annunciata che - con il meccanismo maggioritario - vedrebbe l’ulivo guadagnare 50-100 deputati in più anche di fronte a una maggioranza di qualche manciata di voti mentre un meccanismo proporzionale ridurrebbe la maggioranza parlamentare a livelli tali da non mettere completamente fuori gioco (come di fatto e stato fuori gioco per l’intera legislatura il centrosinistra) la futura opposizione.

Non c’è nulla di cui meravigliarsi se chi vince vuole stravincere e chi perde vuole contenere la sconfitta. In Sicilia, una legge che porta la firma del nazional-alleato Infurna e del diessino Crisafulli (con lo sbarramento del 5% e il non recupero dei resti inutilizzati nei collegi) ha fatto carne di porco delle minoranze e del loro diritto a essere rappresentate. In Toscana la legge elettorale approvata dalla maggioranza di centrosinistra ricalca l’attuale proposta della destra.

Le regole si fanno e si disfanno secondo le convenienze e gli interessi del momento. Le “maggioranze” utilizzano il loro potere legislativo per perpetuarsi e garantirsi da eventuali sorprese. Democrazia, partecipazione popolare, rappresentatività sono vuote frasi di propaganda utilizzate secondo l’opportunità del momento. Questo vale per la destra ma vale anche per la “sinistra”, priva di un progetto complessivo anche sul terreno (arretrato) delle regole istituzionali capace di allargare gli spazi della già limitata democrazia borghese, una “sinistra” affetta da una profonda miopia che gli fa vedere solo l’immediatezza del momento, i brogli e non (anche) le contraddizioni dell’avversario, le esigenze della “grande coalizione” e non gli interessi futuri delle classi subalterne.

“Proporzionale” o “maggioritaria” la democrazia borghese è sempre una “truffa”. Non occorre aver letto Marx o Lenin per comprendere che l’uguaglianza fra i cittadini elettori è solo una finzione giuridica (e propagandistica). Quale peso ha l’opinione di chi legge i giornali o guarda la televisione di fronte a chi i giornali li fabbrica e le televisioni le monopolizza è facile comprenderlo anche per chi nega l’esistenza delle classi e blatera di una democrazia ideale che la storia fin ora non ha mai conosciuto.

Il potere economico detta le regole, la politica le fa applicare, lo stato gestisce in nome e per conto della classe economicamente dominante lo status quo impedendo col suo apparato burocratico- militare, con le sue leggi, coi suoi strumenti di controllo sociale, che le contraddizioni fra ’chi tutto ha’ e ’chi nulla ha’ si trasformino in conflitto, e il conflitto in messa in discussione dell’ordinamento economico esistente.

“Lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale” (Marx).

E lo è proprio nella misura in cui riesce a costituire un efficace apparato di compensazione dei conflitti, attenuandoli, sottraendo alle classi oppresse gli strumenti e i mezzi di lotta per rovesciare gli sfruttatori. E lo è maggiormente nella misura in cui riesce a affogare nelle nebbie del parlamentarismo e della “partecipazione democratica” la coscienza antagonista delle classi subalterne.
Ogni elezione è da questo punto di vista – prima che un contarsi fra le varie opzioni e le varie tendenze borghesi in gara per decidere chi gestirà nel prossimo futuro gli affari dell’intera classe - un referendum sulla tenuta complessiva del sistema e insieme un grande rito catartico attraverso il quale viene esorcizzato il conflitto presente nella società e glorificata la conciliazione (seppur fittizia) fra lo schiavo e il padrone.

“La repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo” (Marx). Ma dialetticamente lo è anche per i lavoratori poiché una democrazia, seppur solo formale, apre ampie possibilità all’organizzazione e alla propaganda dei comunisti.
Per questo anche sul terreno delle forme che storicamente lo stato rappresentativo moderno assume, e sulle leggi che regolano il funzionamento delle istituzioni (borghesi), non si può essere neutrali ne rinviare a “tempi migliori” la battaglia politica.

L’aspirazione dei padroni è il massimo di governabilità (e di stabilità) compatibilmente con il massimo possibile di consenso. Un governo forte, capace di manovrare senza che il timoniere sia continuamente costretto a mediare. Le riforme in senso maggioritario delle leggi elettorali vanno in questa direzione, le ipotesi “proporzionalistiche” con premi di maggioranza, sbarramenti, vincoli di coalizione, vanno anch’esse nella stessa direzione.

La ricerca del consenso rimane comunque l’elemento determinante. Un governo che governa senza consenso (e senza opposizione) è il massimo di governabilità possibile ma rischia sempre di finire a testa in giù appeso all’ intelaiatura di una pompa di benzina. I fenomeni di disaffezione dal voto, tipici dei sistemi maggioritari più conseguenti, rischiano a lungo andare di disarticolare l’intero meccanismo. Chi non vota può anche essere un problema in meno sul terreno della governabilità ma…, se chi non vota comincia a ricercare altre forme “extraparlamentari” di “partecipazione democratica”, l’unica strada percorribile rimane quella della repressione aperta.
La dittatura aperta del capitale, senza mediazioni e senza camere di compensazione con tutti i rischi che questo comporta.

Le varie forme che la democrazia parlamentare assume, nei vari paesi e nelle varie situazioni concrete, dipendono da molteplici fattori ma, in generale, più la “democrazia” tende verso l’autoritarismo, più i meccanismi elettorali tendono a escludere e a limitare la partecipazione delle minoranze, più forte è la borghesia. Mentre, di converso, una borghesia più debole si orienta verso una maggiore ricerca del consenso concedendo forme di partecipazione maggiori seppur sempre entro i limiti invalicabili imposti dalla necessità di garantire il potere economico della classe dominante.

Non a caso la legge elettorale sancita dalla costituzione uscita dalla Resistenza aveva una forte caratterizzazione proporzionalista, frutto dei rapporti di forza esistenti nell’immediato dopoguerra, e ci sono voluti decenni di sconfitte per cambiare quelle norme che in passato avevano permesso perfino a una piccola forza qual’era Democrazia Proletaria di sedere sugli scranni parlamentari.

Ma se l’interesse del capitale è la stabilità del sistema e la governabilità dei conflitti, i lavoratori hanno interessi assolutamente opposti: Uno stato debole, incapace di usare i propri strumenti di potere al massimo dell’efficienza, inceppato nel suo funzionamento, costretto a mediare quotidianamente fra interessi contrapposti.

Essere proporzionalisti quindi, non perché la legge elettorale proporzionale rende lo stato dei padroni più rappresentativo e più “democratico” ma perché il suo meccanismo acuisce le contraddizioni, le rende sicuramente più visibili del meccanismo maggioritario, permette l’incunearsi dell’organizzazione comunista anche all’interno dei sacrari deputati a legiferare senza dover cedere a ricatti e a compromessi.

Nessun cedimento alla religione della “governabilità” e della “stabilità” che ha sempre rappresentato maggiore efficienza nell’applicazione delle politiche antioperaie, maggiore potere decisionale del “comitato di affari” di turno. Nessun cedimento neanche quando una parte del padronato (il ceto politico berlusconiano), pur di garantirsi un effimero ruolo per i prossimi anni, sacrifica l’interesse complessivo della classe di appartenenza sull’altare della difesa dei suoi particolari interessi.
E’ una contraddizione dentro il fronte avversario da sfruttare se se ne è capaci e non certamente qualcosa che possa convincerci a procastinare le nostre battaglie.

Una testa – un voto. E’ stata la borghesia rivoluzionaria (quella che ghigliottinava i re e toglieva le prebende ai preti) a coniare questo slogan.

Perché dovremmo oggi – per miopia “tattica” – tornare indietro rispetto a tale battaglia che - se vinta - non rappresenterebbe certo la trasformazione in senso “rivoluzionario” dello stato ma, sicuramente, darebbe la dimostrazione della forza e della maturità di una classe che sfida il capitale a essere conseguente fino in fondo con il “liberalismo” delle sue enunciazioni, fissando un paletto dal quale partire per rivendicare una democrazia sostanziale che è il superamento della democrazia formale borghese. Se persa, metterebbe comunque a nudo l’illegittimità di un stato le cui istituzioni sono costruite dall’ingegneria delle leggi e non dal consenso della maggioranza e la paura di una classe dominante che, nonostante l’immenso potere economico di cui gode, teme di non essere capace di conquistare “la stanza dei bottoni” senza i collegi uninominali, i premi e gli sbarramenti.

Mario Gangarossa
7 ottobre 2005